Manzoni Solemn JUN 2021

CAPITOLO I
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua di-stendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somi-gliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e 13
il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna.
Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già consi-derabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegna-van la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, ac-carezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e allegge-rire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una al-l’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove 14
una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spie-gano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette ca-povolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevol-mente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute.
Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, te-nendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un 15
piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcina-tura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere.
Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al con-fluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzo-16
lata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi.
Questa specie, ora del tutto perduta, era allora flori-dissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente infor-17
mato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffini-sce tutti coloro essere compresi in questo bando, e do-versi ritenere bravi e vagabondi… i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od aven-dolo, non lo fanno… ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante… per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri… A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine.
Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi…
tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive:
Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, an-corché non si verifichi aver fatto delitto alcuno… per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo… et ancor-ché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di 18
bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere ob-bedita da ognuno.
All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno… i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predeces-sore. Il 23 maggio poi dell’anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che… ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e rube-rie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro… prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accre-19
scendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate.
Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua… essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione.
Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda… e risoluto di totalmen-te estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissi-me comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, 20
Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi visse-ro ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figue-roa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s’era trovato costretto a ricorreggere e ri-pubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.
Né fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accennere-mo soltanto una del 13 febbraio dell’anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, 21
coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro.
Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi.
Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio.
Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compo-22
se la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
– Signor curato, – disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.
– Cosa comanda? – rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
– Lei ha intenzione, – proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, – lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
– Cioè… – rispose, con voce tremolante, don Abbondio: – cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi… e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi… noi siamo i servitori del comune.
– Or bene, – gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, – questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai.
– Ma, signori miei, – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, – ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’
miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca…
– Orsù, – interruppe il bravo, – se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne 23
sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito…
lei c’intende.
– Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevo-li…
– Ma, – interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, – ma il matrimonio non si farà, o… – e qui una buona bestemmia, – o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e… – un’altra bestemmia.
– Zitto, zitto, – riprese il primo oratore: – il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse:
– se mi sapessero suggerire…
– Oh! suggerire a lei che sa di latino! – interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. – A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti…
ehm… sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio.
Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?
– Il mio rispetto…
– Si spieghi meglio!
–… Disposto… disposto sempre all’ubbidienza –. E, 24
proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.
– Benissimo, e buona notte, messere, – disse l’un d’es-si, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscan-sarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. – Signori… – cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere.
Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser di-vorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluvia-vano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se 25
non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ri-pubblicate e rinforzate di governo in governo, non servi-vano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessa-zioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’
perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e in-sultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a compri-mere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d’a-26
ver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz’altre precauzioni, portava una livrea che impegnas-se a difenderlo la vanità e l’interesse d’una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch’eran deputati a farle eseguire, alcuni appar-tenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne di-pendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall’offenderle, per amor d’un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprenden-ti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrifi-carsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l’incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un im-properio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettar la vita in un’impresa dispera-27
ta, vendessero la loro inazione, o anche la loro conni-venza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c’era pericolo; nell’opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa.
L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la no-biltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mer-canti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in con-fraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oli-garchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercita-28
va un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’ado-perarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutrali-tà disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era 29
volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e ca-pricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, co-stringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’
di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un ta-30
glio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolac-ce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’an-ni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. “Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli… ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come… Ragazzacci, che, per 31
non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c’entro io?
Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare… Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata…” Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de’ suoi pensieri contro quell’altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d’un’occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor suo tutti que’ titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in 32
una compagnia fidata, chiamò subito: – Perpetua! Perpetua! –, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sino-dale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.
– Vengo, – rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
– Misericordia! cos’ha, signor padrone?
– Niente, niente, – rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
– Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.
– Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.
– Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura 33
della sua salute? Chi le darà un parere?…
– Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
– E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! – disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
– Date qui, date qui, – disse don Abbondio, prenden-dole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
– Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? – disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
– Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va… ne va la vita!
– La vita!
– La vita.
– Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai…
– Brava! come quando…
Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, – signor padrone, – disse, con voce commossa e da commovere, – io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo…
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia 34
di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiate-rebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohi-mè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua pro-ferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: –
per amor del cielo!
– Delle sue! – esclamò Perpetua. – Oh che birbone!
oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
– Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
– Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
– Oh vedete, – disse don Abbondio, con voce stizzosa: – vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a do-mandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.
– Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi…
– Ma poi, sentiamo.
– Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse 35
una bella lettera, per informarlo come qualmente…
– Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?
– Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a…
– Volete tacere?
– Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le…
– Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggiana-te?
– Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
– Ci penserò io, – rispose, brontolando, don Abbondio: – sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare – E s’al-zò, continuando: – non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma!
la doveva accader per l’appunto a me.
– Mandi almen giù quest’altro gocciolo, – disse Perpetua, mescendo. – Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
– Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così di-36
cendo prese il lume, e, brontolando sempre: – una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? – e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: – per amor del cielo! –, e disparve.
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CAPITOLO II
Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribal-da, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo… Dio liberi! – Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm!– aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi!
Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; “e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi 38
di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose”. Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. “Vedremo, – diceva tra sé: – egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo”. Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno!
che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fu-ghe, inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la profes-39
sione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamen-te. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un pode-retto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.
“Che abbia qualche pensiero per la testa”, argomentò Renzo tra sé; poi disse: – son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.
– Di che giorno volete parlare?
– Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato 40
per oggi?
– Oggi? – replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. – Oggi, oggi… abbiate pazienza, ma oggi non posso.
– Oggi non può! Cos’è nato?
– Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.
– Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica…
– E poi, e poi, e poi…
– E poi che cosa?
– E poi c’è degli imbrogli.
– Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
– Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.
– Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.
– Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?
– Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, – disse Renzo, cominciando ad alterarsi, – poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?
– Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far pe-41
nare la gente. Ma ora… basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i superiori…
basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.
– Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.
– Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?
– Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?
– Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,… – cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
– Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?
– Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
– Orsù!…
– Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare… tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è salta-to il grillo di maritarvi…
– Che discorsi son questi, signor mio? – proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.
– Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.
– In somma…
– In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge 42
non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.
– Ma via, mi dica una volta che impedimento è so-pravvenuto?
– Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet…
– Le ho detto che non voglio latino.
– Ma bisogna pur che vi spieghi…
– Ma non le ha già fatte queste ricerche?
– Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.
– Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché aspettare…
– Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho faci-litato ogni cosa per servirvi più presto: ma… ma ora mi son venute… basta, so io.
– E che vorrebbe ch’io facessi?
– Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.
– Per quanto?
“Siamo a buon porto”, pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, – via, – disse: – in quindici giorni cercherò,… procurerò…
– Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno 43
arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici… – riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: –
via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana…
– E a Lucia che devo dire?
– Ch’è stato un mio sbaglio.
– E i discorsi del mondo?
– Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.
– E poi, non ci sarà più altri impedimenti?
– Quando vi dico…
– Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco –. E così detto, se n’an-dò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.
Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se 44
avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa.
Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.
– Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.
– Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.
– Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.
– Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?
“L’ho detto io, che c’era mistero sotto”, pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: – via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.
– Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.
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– È vero, – riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, – è vero, – soggiunse, – ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?
– Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché…
non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa.
– Chi è dunque che ci ha colpa? – domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta.
– Quando vi dico che non so niente… In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio…
“Prepotenti! birboni! – pensò Renzo: – questi non sono i superiori”. – Via, – disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, – via, ditemi chi è.
– Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché… non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due –. Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un mo-46
mento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
– Eh! eh! che novità è questa? – disse don Abbondio.
– Chi è quel prepotente, – disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, –
chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia?
– Che? che? che? – balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava al-l’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.
– Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io.
Come si chiama colui?
– Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’anima vostra.
– Penso che lo voglio saper subito, sul momento –. E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
– Misericordia! – esclamò con voce fioca don Abbondio.
– Lo voglio sapere.
– Chi v’ha detto…
– No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.
– Mi volete morto?
– Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.
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– Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?
– Dunque parli. Quel “dunque” fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.
– Mi promettete, mi giurate, – disse – di non parlarne con nessuno, di non dir mai…?
– Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.
A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tanaglie del cava-denti, proferì: – don…
– Don? – ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti al-l’indietro.
– Don Rodrigo! – pronunziò in fretta il forzato, preci-pitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori.
– Ah cane! – urlò Renzo. – E come ha fatto? Cosa le ha detto per…?
– Come eh? come? – rispose, con voce quasi sdegno-sa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. – Come eh?
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Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo –. E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: – avete fatta una bella azione!
M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi na-scondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste…! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere… eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.
– Posso aver fallato, – rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: – posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso…
Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal 49
canto suo, – giurate almeno… – gli disse.
– Posso aver fallato; e mi scusi, – rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.
– Giurate… – replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante.
– Posso aver fallato, – ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomen-to.
– Perpetua! Perpetua! – gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse.
È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre.
Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: – Perpetua! – La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, 50
le condoglianze, le accuse, le difese, i “voi sola potete aver parlato”, e i “non ho parlato”, tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, – son servito –; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e…
ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guar-nita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianel-lo sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto… egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai 51
colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. “E Lucia?” Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madon-na e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annun-ziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente?
E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva 52
colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!
Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: – lo sposo! lo sposo!
– Zitta, Bettina, zitta! – disse Renzo. – Vien qua; va’
su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio… ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’… dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito –. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chi-nandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca 53
e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’
raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.
– Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore.
– Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.
– Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, –
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ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno!
– Dunque voi sapevate…? – disse Renzo.
– Pur troppo! – rispose Lucia; – ma a questo segno!
– Che cosa sapevate?
– Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: – non m’avete mai detto niente.
– Ah, Renzo! – rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?
Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come poté meglio, disse: – il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla –. Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verifi-car se era ammalato davvero.
– Un febbrone, – rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad an-55
nunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.
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CAPITOLO III
Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt’e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimen-to, il quale non poteva essere che doloroso: tutt’e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l’amore diverso che ognun d’essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. – A tua madre non dir niente d’una cosa simile!
– Ora vi dirò tutto, – rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
– Parla, parla! – Parlate, parlate! – gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
– Santissima Vergine! – esclamò Lucia: – chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! –
E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva 57
affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghi-gnazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. –
Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito…
– A chi hai raccontato? – domandò Agnese, andando incontro, non senza un po’ di sdegno, al nome del confi-dente preferito.
– Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – rispose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura…
Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia aveva avute due buone ragioni: l’una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, 58
sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.
– E a voi, – disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: – e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!
– E che t’ha detto il padre? – domandò Agnese.
– M’ha detto che cercassi d’affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, – proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, – fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo… e questa mattina, ero tanto lontana da pensare… – Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
– Ah birbone! ah dannato! ah assassino! – gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
– Oh che imbroglio, per amor di Dio! – esclamava Agnese. Il giovine si fermò d’improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: – questa è l’ultima che fa quell’assassino.
– Ah! no, Renzo, per amor del cielo! – gridò Lucia. –
No, no, per amor del cielo! Il Signore c’è anche per i po-59
veri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?
– No, no, per amor del cielo! – ripeteva Agnese.
– Renzo, – disse Lucia, con un’aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: – voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi.
– Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora…!
Lucia si rimise a piangere; e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti.
– Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbro-gliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato… so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor… Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.
– Lo conosco di vista, – disse Renzo.
– Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d’uo-60
mo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.
Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per mi-61
naccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: – date qui, e andate innanzi –. Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con un – venite, figliuolo, – e lo fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggio-le all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il 62
dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: – figliuolo, ditemi il vostro caso.
– Vorrei dirle una parola in confidenza.
– Son qui, – rispose il dottore: – parlate –. E s’accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l’altra, ricominciò: – vorrei sapere da lei che ha studiato…
– Ditemi il fatto come sta, – interruppe il dottore.
– Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere…
– Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
– Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale.
“Ho capito”, disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. “Ho capito”. E subito si fece serio, ma d’u-na serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. – Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e…
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appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.
Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
– Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco –. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: – il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo?
– Un pochino, signor dottore.
– Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno:
– Se bene, per la grida pubblicata d’ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’lllustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordi-narii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l’Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente.
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– E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l’esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville…
sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d’af-fitti… eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
– È il mio caso, – disse Renzo.
– Sentite, sentite, c’è ben altro; e poi vedremo la pena.
Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell’altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l’uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?
– Pare che abbian fatta la grida apposta per me.
– Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte… una piccola bagattella! all’arbitrio dell’Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E
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questo ir–re–mis–si–bil–mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n’è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizio-ni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Plato-nus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.
Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava.
“Che sia matricolato costui”, pensava tra sé. – Ah! ah! –
gli disse poi: – vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l’animo di fare, in un’occasione.
Per intender quest’uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d’ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all’atto d’affrontar qualcheduno, ne’ casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l’impresa fosse di quelle, che richie-devano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d’inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all’arbitrio di Sua Eccel-66
lenza.
Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) in-correre nella pena agli altri contraffacienti imposta.
E parimente comanda a’ barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all’arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell’ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell’armatura, e un distintivo de’ bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de’ nostri lettori milanesi, che non si rammenti d’aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto.
– In verità, da povero figliuolo, – rispose Renzo, – io non ho mai portato ciuffo in vita mia.
– Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se 67
non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a 68
quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
– Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
– Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse…
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basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’e-ra giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
– Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, –
eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
– Le giuro…
– Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani –. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
– Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella.
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Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugna-bile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione.
Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhioz-zando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de’ grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d’aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l’opera sua, quando si trattasse di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch’era accaduto. – Sicuro, – disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all’uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto – Deo gratias –.
Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l’imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
– Oh fra Galdino! – dissero le due donne.
– Il Signore sia con voi, – disse il frate. – Vengo alla 71
cerca delle noci.
– Va’ a prender le noci per i padri, – disse Agnese.
Lucia s’alzò, e s’avviò all’altra stanza, ma, prima d’entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un’occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse:
– e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos’è stato?
– Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, –
rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. – E
come va la cerca? – soggiunse poi, per mutar discorso.
– Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui –. E, così dicendo, si levò la bisaccia d’addosso, e la fece saltar tra le due mani. – Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
– Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s’ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto.
– E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna?
– No, in verità; raccontatemelo un poco.
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– Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. “Che fate voi a quella povera pianta?” domandò il padre Macario. “Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna”. “Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie”. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, “padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento”. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a pri-mavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe.
Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bac-chiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato ave-73
va invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzo-vigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio.
Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.
Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scio-glieva la bocca, per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s’avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: – vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venir da noi poverette, subito subi-74
to; perché non possiamo andar noi alla chiesa.
– Non volete altro? Non passerà un’ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio.
– Mi fido.
– Non dubitate –. E così detto, se n’andò, un po’ più curvo e più contento, di quel che fosse venuto.
Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl’infimi, ed esser servito da’ potenti, entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passa-tempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l’elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d’esser alle mani tra loro, gl’inzaccherassero la barba di fango. La parola “frate” veniva, in que’ tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d’ogni altr’ordine, eran oggetto de’ due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla, portando 75
un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d’umiltà, s’esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da’ diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini.
Partito fra Galdino, – tutte quelle noci! – esclamò Agnese: – in quest’anno!
– Mamma, perdonatemi, – rispose Lucia; – ma, se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente…
– Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, – disse Agnese, la quale, co’ suoi difet-tucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.
In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto di-spettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno.
– Bel parere che m’avete dato! – disse ad Agnese. –
M’avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! – E raccontò il suo abbocca-mento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questio-76
ne, annunziando che sperava d’aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impiccio. –
Ma, se il padre, – disse, – non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell’altro.
Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. – Domani, – disse Lucia, – il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.
– Lo spero; – disse Renzo, – ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente.
Co’ dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a im-brunire.
– Buona notte, – disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi d’andarsene.
– Buona notte, – rispose Renzo, ancor più tristamente.
– Qualche santo ci aiuterà, – replicò Lucia: – usate prudenza, e rassegnatevi.
La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: – a questo mondo c’è giustizia, finalmente! – Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.
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CAPITOLO IV
Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un grup-petto di case, abitate la più parte da pescatori, e addob-bate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, stac-cando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie bian-castre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi la-ceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allo-78
ra dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zol-la. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.
“Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E
perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo?” Bisogna soddisfare a tutte queste domande.
Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero 79
e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vi-vacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola 80
che potesse parere allusiva all’antica condizione del con-vitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparec-chiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: – eh! io fo l’orecchio del mercante –. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per 81
quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’ac-cordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli fa-migliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti 82
d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costi-tuirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, sto-macato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.
Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, di-ventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquan-83
t’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza co-noscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Peroc-ché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbat-tesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispon-84
dente di voce: – fate luogo.
– Fate luogo voi, – rispose Lodovico. – La diritta è mia.
– Co’ vostri pari, è sempre mia.
– Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.
– Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.
– Voi mentite ch’io sia vile.
– Tu menti ch’io abbia mentito –. Questa risposta era di prammatica. – E, se tu fossi cavaliere, come son io, –
aggiunse quel signore, – ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.
– È un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’
fatti l’insolenza delle vostre parole.
– Gettate nel fango questo ribaldo, – disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.
– Vediamo! – disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.
– Temerario! – gridò l’altro, sfoderando la sua: – io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.
Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il com-85
battimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a di-sarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’e-ra finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
– Com’è andata? – È uno. – Son due. – Gli ha fatto un occhiello nel ventre. – Chi è stato ammazzato? – Quel prepotente. – Oh santa Maria, che sconquasso! – Chi cerca trova. – Una le paga tutte. – Ha finito anche lui. –
Che colpo! – Vuol essere una faccenda seria. – E quell’altro disgraziato! – Misericordia! che spettacolo! – Salvatelo, salvatelo. – Sta fresco anche lui. – Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti. – Scappi, scappi.
Non si lasci prendere.
Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel 86
frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: – è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.
Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benché l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldel-le e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render 87
questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, – consolatevi – gli disse: – almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo –. Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso.
– E l’altro? – domandò ansiosamente al frate.
– L’altro era spirato, quand’io arrivai. Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.
Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercas-se della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra 88
di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato.
Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patri-monio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.
La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro doles-se molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse 89
stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava im-plicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spro-priarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.
Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insi-nuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò sva-porare, dicendo di tempo in tempo: – è un troppo giusto dolore –. Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella 90
città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’af-flisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si rav-volse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.
Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. – Permettetemi, padre, – disse, – che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, 91
io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo –. Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimen-to di sdegno, non però senza qualche compiacenza.
Dopo aver pensato un momento, – venga domani, – disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più ac-crescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia.
Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi li-brato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico in-tralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo 92
un istante, disse tra sé: “sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scanda-lo, questa è riparazione”. Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: – io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tar-de scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio –.
Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi.
Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un 93
mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchia-to, – alzatevi, – disse, con voce alterata: – l’offesa… il fatto veramente… ma l’abito che portate… non solo questo, ma anche per voi… S’alzi, padre… Mio fratello…
non lo posso negare… era un cavaliere… era un uomo…
un po’ impetuoso… un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più… Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura –. E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: – io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!
– Perdono? – disse il gentiluomo. – Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti…
– Tutti! tutti! – gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.
Un – bravo! bene! – scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva 94
segno di volersi licenziare, e gli disse: – padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia –. E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, – queste cose, – disse,
– non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono –. Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli ba-ciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di 95
soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, rianda-va tra sé, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: – diavolo d’un frate! – (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) – diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello
–. La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.
Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser con-sacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.
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Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’e-sercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guer-reschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.
Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse 97
con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni.
Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: – oh padre Cristoforo! sia benedetto!
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CAPITOLO V
Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un’occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde, con quel tono d’interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto leggiero della testa all’indietro, disse: – ebbene? – Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse d’aver osato… ma il frate s’avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a tre piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: – quietatevi, povera figliuola. E voi, –
disse poi ad Agnese, – raccontatemi cosa c’è! – Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò: – o Dio benedetto! fino a quando…! – Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: – poverette! – disse: – Dio vi ha visitate. Povera Lucia!
– Non ci abbandonerà, padre? – disse questa, sin-ghiozzando.
– Abbandonarvi! – rispose. – E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch’Egli mi confida!
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Non vi perdete d’animo: Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io, per confondere un… Vediamo, pensiamo quel che si possa fare.
Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e unite tutte le potenze dell’animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi. “Mettere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha d’una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand’anche questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?… E resistergli? Come? Ah!
se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l’amico del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d’una volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche dell’inquieto, dell’imbroglione, dell’accattabrighe; e, quel ch’è più, potrei fors’anche, con un tentativo fuor di tempo, peg-giorar la condizione di questa poveretta”. Contrappesato 100
il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smo-verlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile.
Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.
Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso sull’uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per comunicare alle donne il suo progetto, il frate s’accorse di lui, e lo salutò in un modo ch’esprimeva un’affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.
– Le hanno detto…, padre? – gli domandò Renzo, con voce commossa.
– Pur troppo; e per questo son qui.
– Che dice di quel birbone…?
– Che vuoi ch’io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t’abbandonerà.
– Benedette le sue parole! – esclamò il giovane. – Lei non è di quelli che dan sempre torto a’ poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause perse…
– Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io sono un povero frate; 101
ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel poco che posso, non v’abbandonerò.
– Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni!
Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?… bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano… – A questo punto, alzando gli occhi al volto del padre, vide che s’era tutto rannuvolato, e s’accorse d’aver detto ciò che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s’andava intrigando e imbrogliando: – volevo dire… non intendo dire… cioè, volevo dire…
– Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l’opera mia, prima che fosse intrapresa!
Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu andavi in cerca d’amici… quali amici!… che non t’avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l’amico de’ tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna?
E quando pure… – A questo punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder d’autorità, s’atteggiò d’una compunzione solenne, gli occhi s’abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: –
quando pure… è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?… che dico in me, omiciattolo, fraticel-lo? Vuoi tu confidare in Dio?
– Oh sì! – rispose Renzo. – Quello è il Signore davve-102
ro.
– Ebbene; prometti che non affronterai, che non pro-vocherai nessuno, che ti lascerai guidar da me.
– Lo prometto. Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso d’addosso; e Agnese disse: – bravo figliuolo.
– Sentite, figliuoli, – riprese fra Cristoforo: – io anderò oggi a parlare a quell’uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete –. Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì.
S’avviò al convento, arrivò a tempo d’andare in coro a cantar sesta, desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare.
Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somi-glianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costu-mi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al 103
muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arci-gni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.
Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato.
Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro. Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchioda-ti, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati 104
a goder gli avanzi della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de’ bravi s’alzò, e gli disse: – padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon’aria per me; e se mi avesser tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male –.
Così dicendo, diede due picchi col martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand’inchino, acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l’ospite in un angusto cortile, e richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una cert’aria di maraviglia e di rispetto, disse: –
non è lei… il padre Cristoforo di Pescarenico?
– Per l’appunto.
– Lei qui?
– Come vedete, buon uomo.
– Sarà per far del bene. Del bene, – continuò mormo-rando tra i denti, e rincamminandosi, – se ne può far per tutto –. Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e stava contrastando dietro l’uscio col servitore, per ottenere d’essere lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l’uscio s’aprì. Un certo 105
conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, – ehi!
ehi! – gridò: – non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti –. Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso, n’avrebbe fatto di meno. Ma, poiché lo spensierato d’Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: – venga, padre, venga –. Il padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de’ commensali.
L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo sci-linguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rim-106
provero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di liberti-naggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, tempera-to però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più svisce-rato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chi-nare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.
– Da sedere al padre, – disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d’esser venuto in ora inopportuna. – Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza, – soggiunse poi, con voce più sommessa, all’orecchio di don Rodrigo.
– Bene, bene, parleremo; – rispose questo: – ma intanto si porti da bere al padre. Il padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto ch’era ricominciato, gridava: – no, per bacco, non mi farà questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del mio 107
vino, né un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de’ miei boschi –. Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un momento la questione che s’agitava caldamente tra i commensali. Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto pressante dell’uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.
– L’autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è contro di lei; – riprese a urlare il conte Attilio: – perché quell’uomo erudito, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Bu-glione…
– Ma questo – replicava, non meno urlando, il podestà, – questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto…
– Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime…?
– Con buona licenza di lor signori, – interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione 108
andasse troppo avanti: – rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.
– Bene, benissimo, – disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata di far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infer-vorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate.
– Ma, da quel che mi pare d’aver capito, – disse il padre, – non son cose di cui io mi deva intendere.
– Solite scuse di modestia di loro padri; – disse don Rodrigo: – ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.
– Il fatto è questo, – cominciava a gridare il conte Attilio.
– Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, – riprese don Rodrigo. – Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta…
– Ben date, ben applicate, – gridò il conte Attilio. –
Fu una vera ispirazione.
– Del demonio, – soggiunse il podestà. – Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.
– Sì, signore, da cavaliere, – gridò il conte: – e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a 109
un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno.
Quello che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d’un mascalzone.
– Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.
– Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissi-mo…
– Risponda un poco a questo sillogismo.
– Niente, niente, niente.
– Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un di-sarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo…
– Piano, piano, signor podestà.
– Che piano?
– Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una 110
schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi… ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone!
Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti basto-no: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada.
E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghi-gni, per farmi capire ch’è del mio parere, perché non so-stiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?
– Io… – rispose confusetto il dottore: – io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E
poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice… qui il padre…
– È vero; – disse don Rodrigo: – ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?
– Ammutolisco, – disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rasse-gnazione.
– Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre, – disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria.
– Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo, – rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.
– Scuse magre: – gridarono i due cugini: – vogliamo la sentenza!
– Quand’è così, – riprese il frate, – il mio debole pare-111
re sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate.
I commensali si guardarono l’un con l’altro maravi-gliati.
– Oh questa è grossa! – disse il conte Attilio. – Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.
– Lui? – disse don Rodrigo: – me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre?
Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?
In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sé medesimo:
“queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto”.
– Sarà, – disse il cugino: – ma il padre… come si chiama il padre?
– Padre Cristoforo – rispose più d’uno.
– Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.
– Animo, dottore, – scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, – animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.
– In verità, – rispose il dottore, tenendo brandita in 112
aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, – in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.
Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate.
Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un’altra. – A proposito, – disse, – ho sentito che a Milano correvan voci d’accomodamento.
Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole le-gittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe, suo ben affetto, e na-turalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell’impero, così le due parti s’adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l’imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello 113
stato.
– Non son lontano dal credere, – disse il conte Attilio,
– che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi…
– Non creda, signor conte, non creda, – interruppe il podestà. – Io, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato del conte duca, è informato d’ogni cosa…
– Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com’è, per la pace, ha fatto proposizioni…
– Così dev’essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e…
– E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo chiamano, e se…
– Il nome legittimo in lingua alemanna, – interruppe ancora il podestà, – è Vagliensteino, come l’ho sentito proferir più volte dal nostro signor castellano spagnolo.
Ma stia pur di buon animo, che…
– Mi vuole insegnare…? – riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli dié d’occhio, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il 114
podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele gonfie, il corso della sua eloquenza.
– Vagliensteino mi dà poco fastidio; perché il conte duca ha l’occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà fare il bell’umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le cattive. Ha l’occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il chiodo, come l’ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell’acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler cozzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent’anni, per sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che invidia; testa vuol esser: e teste come la testa d’un conte duca, ce n’è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei, – proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po’ maravigliato anche lui di non incontrar mai uno scoglio: – il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond’è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i di-spacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare con qualche cognizion di causa; perché quel brav’uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino 115
cosa bolle in pentola di tutte l’altre corti; e tutti que’ po-liticoni (che ce n’è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te l’ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que’ suoi fili tesi per tutto. Quel pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scava-re una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca…
Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche da’ versacci che faceva il cugino, si voltò all’improvviso, come se gli venisse un’ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco.
– Signor podestà, e signori miei! – disse poi: – un brindisi al conte duca; e mi sapranno dire se il vino sia degno del personaggio –. Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perché tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in parte come fatto a sé.
– Viva mill’anni don Gasparo Guzman, conte d’Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore! – esclamò, alzando il bicchiere.
Privato, chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que’ tempi, per significare il favorito d’un principe.
– Viva mill’anni! – risposer tutti.
– Servite il padre, – disse don Rodrigo.
– Mi perdoni; – rispose il padre: – ma ho già fatto un 116
disordine, e non potrei…
– Come! – disse don Rodrigo: – si tratta d’un brindisi al conte duca. Vuol dunque far credere ch’ella tenga dai navarrini?
Così si chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro.
A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far con parole.
– Che ne dite eh, dottore? – domandò don Rodrigo.
Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: – dico, proferisco, e sentenzio che questo è l’Olivares de’ vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vinco-no le cene d’Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza.
– Ben detto! ben definito! – gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola, carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan tutti d’accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che se ci fosse stato 117
disparere. Parlavan tutti insieme. – Non c’è carestia, –
diceva uno: – sono gl’incettatori…
– E i fornai, – diceva un altro: – che nascondono il grano. Impiccarli.
– Appunto; impiccarli, senza misericordia.
– De’ buoni processi, – gridava il podestà.
– Che processi? – gridava più forte il conte Attilio: –
giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.
– Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla.
– Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stro-mento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza eco-nomica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.
Don Rodrigo intanto dava dell’occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza né di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel col-118
loquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica.
Poiché la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d’affrontarla subito, e di liberarsene; s’alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s’avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s’era subito alzato con gli altri; gli disse: – eccomi a’ suoi comandi –; e lo condusse in un’altra sala.
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CAPITOLO VI
– In che posso ubbidirla? – disse don Rodrigo, pian-tandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: – vengo a propor-le un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo…
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la coscienza, l’onore…
– Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende.
Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s’impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: – se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire… – e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, – non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L’innocenza è potente al suo…
– Eh, padre! – interruppe bruscamente don Rodrigo: –
il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.
Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: 121
il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: – lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch’io fo ora qui, non è né vile né spregevole. M’ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria… qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma…
– Sa lei, – disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, – sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh! – e continuò, con un sorriso forzato di scherno: – lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno che i principi.
– E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente…
– In somma, padre, – disse don Rodrigo, facendo atto d’andarsene, – io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un gentiluomo.
Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, 122
come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: – la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.
– Ebbene, – disse don Rodrigo, – giacché lei crede ch’io possa far molto per questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore…
– Ebbene? – riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permet-tevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole.
– Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.
A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due.
– La vostra protezione! – esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: – la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta.
Avete colmata la misura; e non vi temo più.
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– Come parli, frate?…
– Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.
– Come! in questa casa…!
– Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla!
Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno…
Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profe-ta, gridò: – escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltro-ne incappucciato.
Queste parole così chiare acquietarono in un momen-124
to il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villania, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, asso-ciata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere.
Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda.
– Villano rincivilito! – proseguì don Rodrigo: – tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo.
Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.
Quando il frate ebbe serrato l’uscio dietro a sé, vide nell’altra stanza dove entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch’era venuto a riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da quarant’anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del padre, il quale era stato tutt’un’altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo bri-125
gata nuova, aveva però ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perché, sebben di massime e di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due qualità: un’alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del cerimoniale, di cui conosceva, meglio d’ogni altro, le più antiche tradizioni, e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si sarebbe mai arrischiato d’accennare, non che d’esprimere la sua disapprovazione di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione, qualche rimprovero tra i denti a’ suoi colleghi di servizio; i quali se ne ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi dell’antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n’eran fatte; dimodoché riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza risentimento. Ne’ giorni poi d’invito e di ricevimento, il vecchio diventava un personaggio serio e d’importanza.
Il padre Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli accostò mi-steriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: –
padre, ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle.
– Dite presto, buon uomo.
– Qui no: guai se il padrone s’avvede… Ma io so mol-126
te cose; e vedrò di venir domani al convento.
– C’è qualche disegno?
– Qualcosa per aria c’è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull’intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose…!
cose di fuoco! Sono in una casa…! Ma io vorrei salvar l’anima mia.
– Il Signore vi benedica! – e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo dinanzi, nell’attitudine d’un figliuolo. – Il Signore vi ricompenserà, – proseguì il frate: – non mancate di venir domani.
– Verrò, – rispose il servitore: – ma lei vada via subito e… per amor del cielo… non mi nomini –. Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l’altra parte dell’andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell’ultima parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore gli additò l’uscita; e il frate, senza dir altro, partì.
Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lo-darlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver 127
dei fatti da raccontare.
Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più liberamente, e s’avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito, e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione. “Ecco un filo, – pensava, –
un filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo!” Così ruminando, alzò gli occhi verso l’occi-dente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno.
Allora, benché sentisse le ossa gravi e fiaccate da’ vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo, per poter riportare un avviso, qual si fosse, a’ suoi protetti, e arrivar poi al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco.
Intanto, nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de’ quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il desinare; Renzo sul punto d’andarsene ogni momento, per levarsi dalla vista di lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta, in apparenza, all’aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava matu-rando un progetto; e, quando le parve maturo, ruppe il 128
silenzio in questi termini:
– Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi fidate di vostra madre, – a quel vostra Lucia si riscosse, – io m’impegno di cavarvi di quest’impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo, quantunque sia quell’uomo che è –. Lucia rimase lì, e la guardò con un volto ch’esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e Renzo disse subitamente: – cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si può fare.
– Non è vero, – proseguì Agnese, – che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?
– C’è dubbio? – disse Renzo: – maritati che fossimo…
tutto il mondo è paese; e, a due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante volte Bortolo mio cugino m’ha fatto sollecitare d’andar là a star con lui, che farei fortuna, com’ha fatto lui: e se non gli ho mai dato retta, gli è… che serve? perché il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme, si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell’unghie di questo ribaldo, lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N’è vero, Lucia?
– Sì, – disse Lucia: – ma come…?
– Come ho detto io, – riprese la madre: – cuore e destrezza; e la cosa è facile.
– Facile! – dissero insieme que’ due, per cui la cosa era divenuta tanto stranamente e dolorosamente difficile.
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– Facile, a saperla fare, – replicò Agnese. – Ascoltate-mi bene, che vedrò di farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia.
– Come sta questa faccenda? – domandò Renzo.
– Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d’accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all’improvviso, che non abbia tempo di scappare. L’uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell’e fatto, sacrosanto come se l’avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strilla-re, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.
– Possibile? – esclamò Lucia.
– Come! – disse Agnese: – state a vedere che, in trent’anni che ho passati in questo mondo, prima che nasce-ste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno contro la volontà de’ suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all’erta; ma i due diavoli seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e furon marito e moglie: benché la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre giorni.
Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci riuscire: ché, siccome non 130
ricorrevano a un tale espediente, se non persone che avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d’essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza.
– Se fosse vero, Lucia! – disse Renzo, guardandola con un’aria d’aspettazione supplichevole.
– Come! se fosse vero! – disse Agnese. – Anche voi credete ch’io dica fandonie. Io m’affanno per voi, e non sono creduta: bene bene; cavatevi d’impiccio come potete: io me ne lavo le mani.
– Ah no! non ci abbandonate, – disse Renzo. – Parlo così, perché la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia madre.
Queste parole fecero svanire il piccolo sdegno d’Agnese, e dimenticare un proponimento che, per verità, non era stato serio.
– Ma perché dunque, mamma, – disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, – perché questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo?
– In mente? – rispose Agnese: – pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne avrà voluto parlare.
– Perché? – domandarono a un tratto i due giovani.
– Perché… perché, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene.
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– Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand’è fatta? – disse Renzo.
– Che volete ch’io vi dica? – rispose Agnese. – La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose… Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che gliel abbiate, né anche il papa non glielo può levare.
– Se è cosa che non istà bene, – disse Lucia, – non bisogna farla.
– Che! – disse Agnese, – ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se fosse contro la volontà de’
tuoi parenti, per prendere un rompicollo… ma, contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le difficoltà è un birbone; e il signor curato…
– L’è chiara, che l’intenderebbe ognuno, – disse Renzo.
– Non bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa, – proseguì Agnese: – ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il padre? “Ah figliuola!
è una scappata grossa; me l’avete fatta”. I religiosi devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui.
Lucia, senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però capacitata: ma Renzo, tutto rincorato, disse: – quand’è così, la cosa è fatta.
– Piano, – disse Agnese. – E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se ne sta rin-132
tanato in casa? E farlo star lì? ché, benché sia pesante di sua natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall’acqua santa.
– L’ho trovato io il verso, l’ho trovato, – disse Renzo, battendo il pugno sulla tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E seguitò espo-nendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto.
– Son imbrogli, – disse Lucia: – non son cose lisce.
Finora abbiamo operato sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo l’ha detto.
Sentiamo il suo parere.
– Lasciati guidare da chi ne sa più di te, – disse Agnese, con volto grave. – Che bisogno c’è di chieder pareri?
Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto. Al padre racconteremo tutto, a cose fatte.
– Lucia, – disse Renzo, – volete voi mancarmi ora?
Non avevamo noi fatto tutte le cose da buon cristiani?
Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il giorno e l’ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora aiutarci con un po’ d’ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la risposta –. E, salu-tando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un’aria d’intelligenza, partì in fretta.
Le tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano di vita percorso da lui fin allora, non s’era mai trovato nell’occasione d’assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, 133
da far onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. Ma non c’era quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva so-pravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: – volete restar servito? –, complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone.
– Vi ringrazio, – rispose Renzo: – venivo solamente per dire una parolina a Tonio; e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo andar a desinare all’osteria, e lì parleremo –. La proposta fu per Tonio tanto 134
più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L’invitato non istette a domandar altro, e andò con Renzo.
Giunti all’osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta solitudine, giacché la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: – se tu vuoi farmi un piccolo servizio, io te ne voglio fare uno grande.
– Parla, parla; comandami pure, – rispose Tonio, mescendo. – Oggi mi butterei nel fuoco per te.
– Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo, che lavoravi, l’anno passato.
– Ah, Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M’hai fatto andar via il buon umore.
– Se ti parlo del debito, – disse Renzo, – è perché, se tu vuoi, io intendo di darti il mezzo di pagarlo.
– Dici davvero?
– Davvero. Eh? saresti contento?
– Contento? Per diana, se sarei contento! Se non foss’altro, per non veder più que’ versacci, e que’ cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta che c’incon-triamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo, per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi 135
in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E
poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta. Ma…
– Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate.
– Di’ su.
– Ma…! – disse Renzo, mettendo il dito alla bocca.
– Fa bisogno di queste cose? tu mi conosci.
– Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentando-segli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell’e fatto. M’hai tu inteso?
– Tu vuoi ch’io venga per testimonio?
– Per l’appunto.
– E pagherai per me le venticinque lire?
– Così l’intendo.
– Birba chi manca.
– Ma bisogna trovare un altro testimonio.
– L’ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere?
– E da mangiare, – rispose Renzo. – Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà fare?
– Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello.
– Domani…
– Bene.
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– Verso sera…
– Benone.
– Ma…! – disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca.
– Poh…! – rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto.
– Ma, se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio…
– Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto.
Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in pace.
– Domattina, – disse Renzo, – discorreremo con più comodo, per intenderci bene su tutto.
Con questo, uscirono dall’osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando la fandonia che racconterebbe alle donne, e Renzo, a render conto de’ concerti presi.
In questo tempo Agnese, s’era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa andava opponendo a ogni ragione, ora l’una, ora l’altra parte del suo dilemma: o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non dirla al padre Cristoforo?
Renzo arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn? interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili.
Lucia tentennava mollemente il capo; ma i due infer-vorati le badavan poco, come si suol fare con un fan-137
ciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la ragione d’una cosa, e che s’indurrà poi, con le preghiere e con l’autorità, a ciò che si vuol da lui.
– Va bene, – disse Agnese: – va bene; ma… non avete pensato a tutto.
– Cosa ci manca? – rispose Renzo.
– E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà entrare; ma voi! voi due! pensate!
avrà ordine di tenervi lontani, più che un ragazzo da un pero che ha le frutte mature.
– Come faremo? – disse Renzo, un po’ imbrogliato.
– Ecco: ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda… vedrete.
– Benedetta voi! – esclamò Renzo: – l’ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto.
– Ma tutto questo non serve a nulla, – disse Agnese, –
se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato.
Renzo mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere.
– Io non so che rispondere a queste vostre ragioni, –
diceva: – ma vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser vostra moglie, – e non c’era verso che potesse proferir quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso: – io voglio esser vostra moglie, 138
ma per la strada diritta, col timor di Dio, all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d’aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perché far misteri al padre Cristoforo?
La disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestìo affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all’orecchio di Lucia: – bada bene, ve’, di non dirgli nulla.
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CAPITOLO VII
Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini.
– La pace sia con voi, – disse, nell’entrare. – Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.
Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento.
Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sor-prese dolorose, da tanti tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
– Vorrei sapere, – gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; – vorrei sapere che 140
ragioni ha dette quel cane, per sostenere… per sostenere che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.
– Povero Renzo! – rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: – se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.
– Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole?
– Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente.
– Ma qualcosa ha dovuto dire: cos’ha detto quel tizzo-ne d’inferno?
– Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfug-gono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irre-prensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figurato nemmen di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma… ma pur troppo ho dovuto intendere ch’è irremovi-bile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo… oh! credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu…! non vorrai tu conce-141
dere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi… sappiate tutti ch’io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impen-sato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch’io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.
Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti.
– Avete sentito cos’ha detto d’un non so che… d’un filo che ha, per aiutarci? – disse Lucia. – Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci…
– Se non c’è altro…! – interruppe Agnese. – Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo…
– Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! – interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
– Oh Renzo! – esclamò Lucia.
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– Cosa volete dire? – esclamò Agnese.
– Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui…
– No, no, per amor del cielo…! – cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
– Non son discorsi da farsi, neppur per burla, – disse Agnese.
– Per burla? – gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. – Per burla! vedrete se sarà burla.
– Oh Renzo! – disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi:
– non v’ho mai visto così.
– Non dite queste cose, per amor del cielo, – riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. – Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E
quand’anche… Dio liberi!… contro i poveri c’è sempre giustizia.
– La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza… e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà…! e poi in tre salti…!
L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: – non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che 143
aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse… Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re…
– E bene! – gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: – io non v’avrò; ma non v’avrà né anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del…
– Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così, – esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpa-va le spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: – questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!
– E io che male v’ho fatto, perché mi facciate morire?
– disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti.
– Voi! – rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira tuttavia: – voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!
– Sì sì, – rispose precipitosamente Lucia: – verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.
– Me lo promettete? – disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt’a un tratto, più umano.
– Ve lo prometto.
– Me l’avete promesso.
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– Signore, vi ringrazio! – esclamò Agnese, doppia-mente contenta.
In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.
– Ve l’ho promesso, – rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: – ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre…
– Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito?
– No no, – disse Lucia, cominciando a rispaventarsi.
– Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia…
– Perché volete far de’ cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno.
– Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima.
– Ve lo prometto, da povero figliuolo.
– Ma, questa volta, mantenete poi, – disse Agnese.
Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere 145
stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.
Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel’augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell’ora, si trattenesse più a lungo.
La notte però fu a tutt’e tre così buona come può essere quella che succede a un giorno pieno d’agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a un’impresa importante, e d’esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon’ora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand’operazione della sera, proponendo e scio-gliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora l’uno ora l’altra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.
– Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera? – domandò Agnese a Renzo.
– Le zucche! – rispose questo: – sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.
– Manderò Menico.
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– Va bene, – rispose Renzo; e partì, per accudire al-l’affare, come aveva detto.
Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch’e-ra un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, – per un certo servizio, – diceva.
Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. – Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo…
– Ho capito, – disse Menico: – quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dà, ogni tanto, qualche santino.
– Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de’ compagni, al lago, a veder pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far quell’altro tuo giochetto solito…
Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole.
– Poh! zia; non son poi un ragazzo.
– Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta… guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te.
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– Datemele ora, ch’è lo stesso.
– No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n’avrai anche di più.
Nel rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Un mendico, né rifinito né cen-cioso come i suoi pari, e con un non so che d’oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert’occhiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con un’indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa sfacciataggi-ne, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese s’affrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lì diede un’altra occhiata in fretta, come poté. Gridatogli dietro: – ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! – tornò indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere.
Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, e guardavan sott’occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente, verso il 148
mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese s’alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s’affacciava all’uscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: – nessuno –: parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che né l’una né l’altra ne sapessero ben chiaramente il perché. Ma ne rimase a tutt’e due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.
Convien però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que’ ronzatori misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazio-ni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de’
nemici e de’ suoi soldati, torvo nella guardatura, co’ capelli corti e ritti, co’ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l’eroe, con le gambiere, co’ cosciali, con la corazza, co’ bracciali, co’ guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de’ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un’ampia toga nera; tutto nero, fuor-149
ché un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo de’ sena-tori, e non lo portavan che l’inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d’estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de’ suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s’arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan.
Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch’era tratte-nuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che que’ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: – e il conte Attilio? – domandò, sempre camminando, don Rodrigo.
– È uscito con que’ signori, illustrissimo.
– Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito.
Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si 150
cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva.
Come inferiori, l’inchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; ché, in que’ contorni, non ce n’era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, d’aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corri-spondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che s’incontrasse col signor castellano spagnolo, l’inchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado l’uno dell’altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch’è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, 151
don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
– Cugino, quando pagate questa scommessa? – disse, con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.
– San Martino non è ancor passato.
– Tant’è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario, prima che…
– Questo è quel che si vedrà.
– Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo d’aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un’altra.
– Sentiamo.
– Che il padre… il padre… che so io? quel frate in somma v’ha convertito.
– Eccone un’altra delle vostre.
– Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti.
Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo –. E qui, parlando col naso, accompagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: – in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d’ogni erba un fascio, aveva messo gli occhi…
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– Basta, basta, – interruppe don Rodrigo, mezzo sog-ghignando, e mezzo annoiato. – Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch’io.
– Diavolo! che aveste voi convertito il padre!
– Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà –. La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano né incamminati, né assolutamente fissati.
La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L’immagini più recenti della passeggiata trionfale, degl’inchini, dell’accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contri-buito non poco a rendergli l’animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. “Cose grosse”, disse tra sé il servitore a cui fu dato l’ordine; perché l’uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de’
bravi, quello a cui s’imponevano le imprese più rischio-se e più inique, il fidatissimo del padrone, l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Così, impegnandosi a ogni delitto che gli ve-153
nisse comandato, colui si era assicurata l’impunità del primo. Per don Rodrigo, l’acquisto non era stato di poca importanza; perché il Griso, oltre all’essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felice-mente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell’opinione.
– Griso! – disse don Rodrigo: – in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.
– Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone.
– Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purché la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male.
– Signore, un po’ di spavento, perché la non faccia troppo strepito… non si potrà far di meno.
– Spavento… capisco… è inevitabile. Ma non le si tor-ca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?
– Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.
– Sotto la tua sicurtà. E… come farai?
– Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare: e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella 154
casa… vossignoria non saprà niente di queste cose… una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.
– Va bene; e poi?
Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l’impresa, senza che rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, d’impor silenzio alla povera Agnese, d’in-cutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi; e tutte l’altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perché, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se n’andava, per metter mano all’esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: – senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell’unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così, l’ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più sicuramente l’effetto. Ma non l’andate a cercare, per non guastare 155
quello che più importa: tu m’hai inteso.
– Lasci fare a me, – rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d’ossequio e di millanteria; e se n’andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s’era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s’eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dell’impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si poté fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, s’accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di là, commentando tra sé una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di prendere un po’ d’aria, e s’incamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli 156
altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro all’osteria del paesetto; uno che si mettesse sull’uscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare.
Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il sole cadeva; quando Renzo en-trò dalle donne, e disse: – Tonio e Gervaso m’aspettan fuori: vo con loro all’osteria, a mangiare un boccone; e, quando sonerà l’ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento –. Lucia sospirò, e ripeté: – coraggio, – con una voce che smentiva la parola.
Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che in-gombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifa-gni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava, da una parte e dall’altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine 157
sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch’era innanzi agli altri, fu lì per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un’impresa scabrosa alle mani, non fece vista d’accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l’altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l’apertura lasciata da quella cariatide.
I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce, cioè que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede), e me-scendosi or l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch’era tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran “sei” che n’era scoppia-to fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d’occhio al compagno, poi a quel dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo inso-spettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne’ loro aspetti un’interpretazione di tutti que’ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’oste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sé in una stanza 158
vicina, e ordinò da cena.
– Chi sono que’ forestieri? – gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.
– Non li conosco, – rispose l’oste, spiegando la tovaglia.
– Come? né anche uno?
– Sapete bene, – rispose ancora colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola, – che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragione-voli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate.
– Come potete sapere…? – ripigliava Renzo; ma l’oste, già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squa-drato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: – Chi sono que’ galantuomini?
– Buona gente qui del paese, – rispose l’oste, scodel-lando le polpette nel piatto.
– Va bene; ma come si chiamano? chi sono? – insi-stette colui, con voce alquanto sgarbata.
– Uno si chiama Renzo, – rispose l’oste, pur sottovo-159
ce: – un buon giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L’altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n’abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L’altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno.
Con permesso.
E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l’interro-gante; e andò a portare il piatto a chi si doveva. – Come potete sapere, – riattaccò Renzo, quando lo vide ricom-parire, – che siano galantuomini, se non li conoscete?
– Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce all’azioni.
Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E
che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? – Così dicendo, se ne tornò in cucina.
Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice ch’era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?
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La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma l’invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un po’ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora d’andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate.
– Che bella cosa, – scappò fuori di punto in bianco Gervaso, – che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno…! – Renzo gli fece un viso brusco. – Vuoi stare zitto, bestia? – gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un po’ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a Renzo, come quand’era entrato. Questo, fatti ch’ebbe pochi passi fuori dell’osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co’ suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s’accorsero d’essere osservati, si fermarono an-ch’essi, si parlaron sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. – Sarebbe però un bell’onore, senza contar la mancia, – diceva uno de’ malandrini, – se, tornando al palazzo, potessimo raccontare d’avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da 161
noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare.
– E guastare il negozio principale! – rispondeva l’altro. – Ecco: s’è avvisto di qualche cosa; si ferma a guar-darci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lascia-moli andar tutti a pollaio.
C’era in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le van-ghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno. Quando Renzo vide che i due indiscreti s’eran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora all’uno, ora al-l’altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch’era già notte.
Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno), l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce d’un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per 162
rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio all’opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contra-stavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova appari-zione: ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto: talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s’era appena badato; l’immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusi-no d’ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divi-sa da lui, piuttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: – son qui, andiamo –; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo né forza di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d’attraversarlo: che s’andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due promessi rimaser na-scosti dietro l’angolo di essa; Agnese con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpe-163
tua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sé, e senza il quale non si poteva far nulla, s’affacciaron bravamente alla porta, e picchiarono.
– Chi è, a quest’ora? – gridò una voce dalla finestra, che s’aprì in quel momento: era la voce di Perpetua. –
Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. È forse accaduta qualche disgrazia?
– Son io, – rispose Tonio, – con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato.
– È ora da cristiani questa? – disse bruscamente Perpetua. – Che discrezione? Tornate domani.
– Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri.
– Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire a quest’ora?
– Gli ho ricevuti, anch’io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l’ora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.
– No, no, aspettate un momento: torno con la risposta.
Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: – coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente, – si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, ve-164
nendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un momento.
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CAPITOLO VIII
“Carneade! Chi era costui?” ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?” Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui me-ditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegiri-co in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo 166
Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio.
– A quest’ora? – disse anche don Abbondio, com’era naturale.
– Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo…
– Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pi-gliare! Fatelo venire… Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?
– Diavolo! – rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: – dove siete? – Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome.
– Buona sera, Agnese, – disse Perpetua: – di dove si viene, a quest’ora?
– Vengo da… – e nominò un paesetto vicino. – E se sapeste… – continuò: – mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.
– Oh perché? – domandò Perpetua; e voltandosi a’
due fratelli, – entrate, – disse, – che vengo anch’io.
– Perché, – rispose Agnese, – una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare… credereste? s’osti-nava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suo-lavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro…
– Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?
– Non me lo domandate, che non mi piace metter 167
male.
– Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!
– Basta… ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei.
– Guardate se si può inventare, a questo modo! –
esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: – in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere… Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo –. Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narra-zione appassionata.
In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli.
Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno.
Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono al-l’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
– Deo gratias, – disse Tonio, a voce chiara.
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– Tonio, eh? Entrate, – rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna.
Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.
– Ah! ah! – fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.
– Dirà il signor curato, che son venuto tardi, – disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamen-te, Gervaso.
– Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?
– Oh! mi dispiace.
– L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere… Ma perché vi siete condotto dietro quel… quel figliuolo?
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– Così per compagnia, signor curato.
– Basta, vediamo.
– Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, – disse Tonio, levandosi un invol-tino di tasca.
– Vediamo, – replicò don Abbondio: e, preso l’involti-no, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.
– Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Te-cla.
– È giusto, – rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: – va bene?
– Ora, – disse Tonio, – si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.
– Anche questa! – disse don Abbondio: – le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?
– Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto.
Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito… dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così… dalla vita alla morte…
– Bene bene, – interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva 170
voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: – ora, sarete contento? – e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: – signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie –. Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, but-171
tando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, bal-zando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e questo… – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pro-nunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: – Perpetua!
Perpetua! tradimento! aiuto! – Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno.
Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: – Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! – Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: – apra, apra; non faccia schiamazzo –. Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: – andiamo, andiamo, per l’amor di Dio –. Tonio, carpone, andava spaz-zando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltel-lava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento.
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In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…
voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.
L’assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: – aiuto! aiuto! – Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: – cosa c’è?
– Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, – gridò verso lui don Abbondio. – Vengo subito, – rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra ‘l sonno, e più che mezzo sbigot-173
tito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferu-glio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello.
Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l’orecchio, si rizzano. – Cos’è? Cos’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi? – Molte donne consigliano, pregano i mari-ti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arren-dessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere.
Ma, prima che quelli fossero all’ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d’altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro.
Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all’osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti d’aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati– e in fatti, non in-contrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra 174
povera casetta: la più quieta di tutte, giacché non c’era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: – andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini –, s’incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n’era allontanata la nostra brigatella, andando anch’essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l’occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno.
Nessun risponde: ripicchia un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora, va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Tutto s’eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l’uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all’uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e’ poteva ben aspettare. Sconficca pian pianis-simo anche quell’uscio: nessuno di dentro dice: chi va 175
là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: – st –, chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, ac-ciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino, entra nell’altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c’è nessuno. Torna indietro, va all’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grigna-poco, ch’era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinché il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre.
Spinge mollemente l’uscio che mette alla prima stanza; l’uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l’occhio; è buio: vi mette l’orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lan-terna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. – Che diavolo è questo? –
dice allora: – che qualche cane traditore abbia fatto la 176
spia? – Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia al-l’uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolo-si, che s’avvicinano in fretta; s’immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all’erta. In fatti, il calpestìo si ferma appunto al-l’uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l’amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perché… il perché lo sapete. Prende la mani-glia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. “Che è questo?” pensa; e spinge l’uscio con paura: quello s’apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: – zitto! o sei morto –. Lui in vece caccia un urlo: uno di que’ malandrini gli mette una mano alla bocca; l’altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt’a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all’uno e all’altro furfante parve di sentire in que’ tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov’era il grosso della 177
compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall’al-to al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s’urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all’uscio.
Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s’era fatto vedere un po’ da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di por-ci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che s’avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto.
– Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti –. Dopo questa breve aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli andaron dietro in buon ordine.
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Lasciamoli andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d’allontanar l’altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto, la serva s’era ricordata dell’uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c’era che ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei, e andarle dietro, cercando di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto di que’ tali matrimoni andati a monte.
Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva:
– sicuro: adesso capisco: va benissimo: è chiara: e poi?
e lui? e voi? – Ma intanto, faceva un altro discorso con sé stessa. “Saranno usciti a quest’ora? o saranno ancor dentro? Che sciocchi che siamo stati tutt’e tre, a non concertar qualche segnale, per avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta: ora non c’è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un po’ di tempo perduto”. Così, a corse-relle e a fermatine, eran tornate poco distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto, s’era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando, tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: – aiuto!
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aiuto!
– Misericordia! cos’è stato? – gridò Perpetua, e volle correre.
– Cosa c’è? cosa c’è? – disse Agnese, tenendola per la sottana.
– Misericordia! non avete sentito? – replicò quella, svincolandosi.
– Cosa c’è? cosa c’è? – ripeté Agnese, afferrandola per un braccio.
– Diavolo d’una donna! – esclamò Perpetua, rispin-gendola, per mettersi in libertà; e prese la rincorsa.
Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo, si sente l’urlo di Menico.
– Misericordia! – grida anche Agnese; e di galoppo dietro l’altra. Avevan quasi appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua arriva, un momento prima dell’altra; mentre vuole spinger l’uscio, l’uscio si spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo.
– Cosa c’è? cosa c’è? – domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone, e scantonarono.
– E voi! come! che fate qui voi? – domandò poscia al-l’altra coppia, quando l’ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò altro, entrò in fretta 180
nell’andito, e corse, come poteva al buio, verso la scala.
I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava tutt’affannata. – Ah siete qui! –
disse questa, cavando fuori la parola a stento: – com’è andata? cos’è la campana? mi par d’aver sentito…
– A casa, a casa, – diceva Renzo, – prima che venga gente –. E s’avviavano; ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con voce mezza fioca, dice: – dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento!
– Sei tu che…? – cominciava Agnese.
– Cosa c’è d’altro? – domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava.
– C’è il diavolo in casa, – riprese Menico ansante. –
Gli ho visti io: m’hanno voluto ammazzare: l’ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che ve-niate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori.
Renzo, ch’era il più in sé di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar subito, prima che la gente accor-resse; e che la più sicura era di far ciò che Menico con-sigliava, anzi comandava, con la forza d’uno spaventato.
Per istrada poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più chiara. – Cammina avanti, – gli disse. – Andiam con lui, – disse alle donne.
Voltarono, s’incamminarono in fretta verso la chiesa, at-traversaron la piazza, dove per grazia del cielo, non c’e-ra ancora anima vivente; entrarono in una stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo 181
buco che videro in una siepe, dentro, e via per i campi.
Non s’eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad accorrere sulla piazza, e ingros-sava ogni momento. Si guardavano in viso gli uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie di feritoia, cacciò dentro un: – che diavolo c’è? – Quando Ambrogio sentì una voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch’era accorso molto popolo, rispose: – vengo ad aprire –. Si mise in fretta l’arnese che aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della chiesa, e l’aprì.
– Cos’è tutto questo fracasso? – Cos’è? – Dov’è? –
Chi è?
– Come, chi è? – disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con l’altra, il lembo di quel tale arnese, che s’era messo così in fretta: – come!
non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto –. Si voltan tutti a quella casa, vi s’avvicinano in folla, guardano in su, stanno in orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c’era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto.
– Chi è là dentro? – Ohe, ohe! – Signor curato! – Signor curato!
Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga 182
degl’invasori, s’era ritirato dalla finestra, e l’aveva ri-chiusa, e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto.
– Cos’è stato? – Che le hanno fatto? – Chi sono costoro? – Dove sono? – gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto.
– Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.
– Ma chi è stato? – Dove sono andati? – Che è accaduto?
– Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore –. E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle spalle, e se n’andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a formar le parole.
Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quello scompiglio de’ bravi, quando il Griso s’affannava a raccoglierli. Quand’ebbe ripreso fiato, gridò: – che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è!
– Che? – Che? – Che? – E comincia una consulta tu-183
multuosa. – Bisogna andare. – Bisogna vedere. – Quanti sono? – Quanti siamo? – Chi sono? – Il console! il console!
– Son qui, – risponde il console, di mezzo alla folla: –
son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov’è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti…
Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: – correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso! – A quest’avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl’invasori erano spariti. S’entra nel cortile; si va all’uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: – Agnese!
Lucia! Il pellegrino! Dov’è il pellegrino? L’avrà sognato Stefano, il pellegrino. – No, no: l’ha visto anche Carlan-drea. Ohe, pellegrino! – Agnese! Lucia! – Nessuno risponde. – Le hanno portate via! Le hanno portate via! –
Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire i rapitori: che era un’infamità; e sarebbe una 184
vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulci-ni da un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d’usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccasse a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chioma-ti come due re de’ Franchi della prima razza, e somi-gliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que’
medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell’accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentar le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara 185
la speranza di morir di malattia.
I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l’uno ora l’altro, a guardare se nessuno gl’inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l’incalzare continuo di que’
rintocchi, i quali, quanto, per l’allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all’intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com’era andata, domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt’e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l’avviso del padre, e raccontò quello ch’egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l’avviso. Gli ascoltatori compresero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron rabbrividire; si fermaron tutt’e tre a un tratto, si guardarono in viso l’un con l’altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt’e tre posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo ta-citamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per dimostrargli la compassione che sentivano dell’angoscia da lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; 186
e quasi per chiedergliene scusa. – Ora torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, – gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, ag-giungendo: – basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora… – Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, inteneri-to; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmen-te, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che.
– E la casa? – disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante, nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sbocca-rono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.
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Renzo s’affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto s’aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d’argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che non ci mancava nessuno, – Dio sia benedetto! – disse, e fece lor cenno ch’entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico sagrestano, ch’egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere que’ poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell’autorità del padre, della sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava susurrando all’orecchio: – ma padre, padre! di notte… in chiesa… con donne… chiudere… la regola… ma padre! – E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, “vedete un poco!” pensava il padre Cristoforo, “se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo…” –
Omnia munda mundis, – disse poi, voltandosi tutt’a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l’effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide 188
d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: – basta! lei ne sa più di me.
– Fidatevi pure, – rispose il padre Cristoforo; e, all’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare, s’accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: – figliuoli! ringraziate il Signore, che v’ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento…! – E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacché non sospettava ch’essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivasse-ro i malandrini. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d’una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte de-gl’imbrogli e de’ sotterfugi.
– Dopo di ciò, – continuò egli, – vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi, – continuò volgendosi 189
alle due donne, – potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione –. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. – Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.
Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo.
Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire!
– Prima che partiate, – disse il padre, – preghiamo 190
tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto –. Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso.
Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: – noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tri-bolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!… è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.
Alzatosi poi, come in fretta, disse: – via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’ac-compagni: andate –. E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: – il cuor mi dice che ci rivedremo presto.
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata 191
anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vo-gando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il ton-fo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese ri-schiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre.
Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la 192
fronte, come per dormire, e pianse segretamente.
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e bian-cheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi am-mirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.
Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’
monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha 193
mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.
Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda.
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CAPITOLO IX
L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. – Di che cosa? – rispose quello: – siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro, – e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattri-nelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via.
Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indiriz-zate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebro-so di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva. Per render 195
ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontarne in suc-cinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover’uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l’hanno fatto trovare in altra parte. Uno storico milanese (Josephi Ripamontii, Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, Cap. III, pag. 358 et seq.) che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deducia-mo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’in-duzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca.
I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un’osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse 196
a governare la sua bestia.
Dopo una sera quale l’abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio di una brezzolina più che au-tunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre di se-dersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de’ con-tingenti bisogni d’un avvenire incerto, e il poco appetito.
A tutt’e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s’aspettavan di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: – a rivederci,
– e partì.
Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di 197
guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia.
– Oh! fra Cristoforo! – disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d’un grand’amico.
Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: – non c’è che la signora: se la signora vuol prendersi quest’impegno…
Tirata quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a tutt’e due: –
donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v’abbia provvedute in miglior maniera. Volete venir con me?
Le donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: – bene; io vi conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perché la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle 198
chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con una bella giovine… con donne voglio dire.
Così dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese, la quale non poté tenersi di non fare altrettanto; e tutt’e tre si mossero, quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora.
– La signora, – rispose quello, – è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.
Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata 199
allora da un antico torracchione mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso, che forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s’avviò al monastero, dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d’ore, tornasse da lui, a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo.
Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed era ora, perché la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi dall’interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la signora. – È ben disposta per voi altre, –
disse, – e vi può far del bene quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me –. Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di mettervi il piede, il guardiano, accennando l’uscio, disse sottovoce alle donne: – è qui, – come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo per-200
sona, stava come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò da quella parte, e vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospet-tarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccu-pazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli 201
oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso man-cante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La gran-dezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.
Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant’altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere.
Era essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languida-mente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne’
vòti; e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando.
– Reverenda madre, e signora illustrissima, – disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al petto: – que-202
sta è quella povera giovine, per la quale m’ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.
Le due presentate facevano grand’inchini: la signora accennò loro con la mano, che bastava, e disse, voltandosi, al padre: – è una fortuna per me il poter fare un piacere a’ nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma, –
continuò; – mi dica un po’ più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si possa fare per lei.
Lucia diventò rossa, e abbassò la testa.
– Deve sapere, reverenda madre… – incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò, con un’occhiata, le parole in bocca, e rispose: – questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de’ gravi pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d’un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche…
– Quali pericoli? – interruppe la signora. – Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma.
Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto.
– Sono pericoli, – rispose il guardiano, – che all’orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati…
– Oh certamente, – disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel 203
rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l’avesse paragonato con quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.
– Basterà dire, – riprese il guardiano, – che un cavalier prepotente… non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo ch’erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.
– Accostatevi, quella giovine, – disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. – So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest’affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso –. In quanto all’accostarsi, Lucia ubbidì subito; ma rispondere era un’altra faccenda. Una domanda su quella materia, quand’anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l’avrebbe imbrogliata non poco: proferita da quella signora, e con una cert’aria di dubbio maligno, le levò ogni coraggio a rispondere. – Signora… madre… reverenda… – balbettò, e non dava segno d’aver altro a dire.
Qui Agnese, come quella che, dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credé autorizzata a venirle in aiuto. – Illustrissima signora, – disse, – io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l’acqua santa: voglio dire, il dia-204
volo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato fosse stato un po’ più un uomo di quelli che m’intendo io… so che parlo d’un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare…
– Siete ben pronta a parlare senz’essere interrogata, –
interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. – State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’
loro figliuoli!
Agnese mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca, per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine, dandole d’occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma.
– Reverenda signora, – disse Lucia, – quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovine che mi discorreva, – e qui diventò rossa rossa, – lo prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di metterci al sicuro, giacché siam ridotte a far questa faccia di chieder ricovero, e ad incomodare le persone dab-205
bene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.
– A voi credo, – disse la signora con voce raddolcita.
– Ma avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non che abbia bisogno d’altri schiarimenti, né d’altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano, – aggiunse subito, rivolgendosi a lui, con una compitezza studiata. –
Anzi, – continuò, – ci ho già pensato; ed ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del monastero ha maritata, pochi giorni sono, l’ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que’ pochi servizi che faceva lei. Veramente… – e qui accennò al guardiano che s’avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: –
veramente, attesa la scarsezza dell’annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola… e per una premura del padre guardiano… In somma do la cosa per fatta.
Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l’interruppe: – non occorron cerimonie: anch’io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell’assistenza de’
padri cappuccini. Alla fine, – continuò, con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d’ironico e d’amaro, –
alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?
Così detto, chiamò una conversa (due di queste erano, per una distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato), e le ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e 206
con Agnese. Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n’andò a scriver la lettera di ragguaglio all’amico Cristoforo. “Gran cervel-lino che è questa signora!” pensava tra sé, per la strada:
“curiosa davvero! Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo non s’aspetterà certamente ch’io l’abbia servito così presto e bene. Quel brav’uomo! non c’è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto l’affare a buon porto, in un batter d’occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s’accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa”.
La signora, che, alla presenza d’un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi 207
scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primo-genito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabil-mente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza.
Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: – bello eh? – Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: – che madre badessa! – Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidente-mente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini fu-208
turi. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, – tu sei una ragazzina, –
le si diceva: – queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso –. Qualche altra volta il principe, ri-prendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, –
ehi! ehi! – le diceva; – non è questo il fare d’una par tua: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone auste-ro; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.
A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scap-209
pare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asseri-re che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Né s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il me-stolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiu-rate a tirar la poverina nel laccio; ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di catti-210
vo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero.
Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava ma-gnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto.
All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrap-ponevan esse le immagini varie e luccicanti, di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omoge-nee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quel-211
le sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne compariva sempre in-fallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’e-salava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, 212
andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia 213
di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insi-nuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un eccle-siastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto.
Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de’ momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscri-vere una tal supplica. E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d’esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse final-214
mente il desiderio di sfogar l’animo, e d’accattar consiglio e coraggio. C’era un’altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l’an-no da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt’altro in testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d’informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacché non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine.
La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d’artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, e, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d’una gran collera del principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, la-215
sciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato.
Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l’uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott’anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com’ora si direbbe, il suo piano. “O mi vorranno forza-re”, pensava, “e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata”. Ma, come accade spesso di simili pre-videnze, non avvenne né una cosa né l’altra. I giorni passavano, senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore sta-bilite, era ammessa alla compagnia de’ parenti e del pri-216
mogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timida-mente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insi-steva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po’
d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l’avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.
Tali sensazioni d’oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata, e s’occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più 217
scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d’una visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c’era invito. I servitori s’unifor-mavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio e al-l’intenzioni de’ padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendi-carne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della camerie-218
ra, e da queste passò in quelle del principe.
Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere né immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.
Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto.
Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata.
Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto 219
pericoloso.
Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più 220
di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene.
Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, os-sequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozio-ne; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, pro-vocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere ama-bile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.
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In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente.
Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improv-visa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiar-lo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore.
S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.
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CAPITOLO X
Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’
giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: – perdono! – Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge 223
il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche…
caso mai… che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacché a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei…
– Ah sì! – esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.
– Ah! lo capite anche voi, – riprese incontanente il principe. – Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura –. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: –
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la principessa e il principino subito –. E seguitò poi con Gertrude: – voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.
A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita.
Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle meno-mamente.
Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e mara-vigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, – ecco, –
disse, – la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l’ha voluto lei spon-taneamente. È risoluta, m’ha fatto intendere che è risoluta… – A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: –
che è risoluta di prendere il velo.
– Brava! bene! – esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la 225
quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età l’avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno.
– Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa, – disse il principe. –
Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi… perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria.
– Andiamo pure, – disse la principessa.
– Vo a dar gli ordini, – disse il principino.
– Ma… – proferì sommessamente Gertrude.
– Piano, piano, – riprese il principe: – lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?
– Domani, – rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo.
– Domani, – disse solennemente il principe: – ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle 226
monache, a fissare un giorno per l’esame –. Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso.
L’occupazioni si succedevano senza interruzione, s’inca-stravano l’una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l’ultima mano, che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl’inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata vocazione.
La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’
complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora della trottata.
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Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: – ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirit-tona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ri-tirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.
Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapo-re, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dile-228
guando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello.
– Finalmente, – disse il principe, – ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.
Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
– Come! – disse il principe: – v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia –. Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento 229
de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere.
La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce stril-lante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si 230
preparasse per la gita di Monza.
– Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita.
Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti!
non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest’ora dovrebbe esser fuor della cuccia.
All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
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Quando vennero a avvertir ch’era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: – orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima.
Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano… – È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. – V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboc-cata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.
Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All’entrare 232
in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi, che accor-revano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro.
Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E
quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e pe-netrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’accoglienza e di gioia.
Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con 233
la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c’era chi le potesse negar nulla.
– Son qui…, – cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevoca-bilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c’è cascata la brava.
Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: –
son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente –. La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sa-234
rebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proi-biva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclamazioni.
Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre compli-mentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, – signor principe, –
disse: – per ubbidire alle regole… per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso… pure devo dirle… che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,… la superiora, quale io sono indegnamente,… è obbligata d’avvertire i genitori… che se, per caso… forzassero la volontà della figlia, incorre-rebbero nella scomunica. Mi scuserà…
– Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto… Ma lei non può dubitare…
– Oh! pensi, signor principe,… ho parlato per obbligo preciso,… del resto…
– Certo, certo, madre badessa.
Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’in-chinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra dentro la soglia claustrale. Dato luogo a un po’ d’altre 235
ciarle, – Oh via, – disse il principe: – Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza –.
Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talché, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, poté chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta.
Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina.
Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de’ contorni; af-236
finché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. – Bisognerà pensare a una madrina, – disse il principe: – perché domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell’esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri –. Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: – ci sarebbe… –
Ma il principe interruppe: – No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei –. E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: – ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.
Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. – Ottima scelta, – dis-237
se il principe, che desiderava e aspettava appunto quella.
Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi.
Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. – Orsù, figliuola, – le disse: – finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera.
Tutto quel che s’è fatto finora, s’è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe 238
un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi preci-pitato la cosa, che avessi… che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e… – Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: – via, via, tutto dipende da voi, dal vostro buon giudizio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto –. E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de’ godimenti ch’eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto.
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L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupa-zioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d’una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta.
Dopo i primi complimenti, – signorina, – le disse, –
io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad ac-certarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch’io le faccia qualche interrogazione.
– Dica pure, – rispose Gertrude.
Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. – Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.
La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una sto-240
ria… L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. – Mi fo monaca, – disse, nascondendo il suo turbamento, – mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
– Da quanto tempo le è nato codesto pensiero? – domandò ancora il buon prete.
– L’ho sempre avuto, – rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro se stessa.
– Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. – Il motivo, – disse, – è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.
– Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche… mi scusi… capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora…
– No, no, – rispose precipitosamente Gertrude: – la cagione è quella che le ho detto.
Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insi-stette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pen-241
siero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione.
Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E
qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando le sale per uscire, s’abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del 242
cuore umano.
Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di flut-tuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all’aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l’aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrez-za, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare al-l’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva amaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario del-243
le monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l’accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspettarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’
regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scan-daloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre.
È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualun-244
que precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. Rimasticava quell’amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l’opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rode-va. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplo-rava una gioventù destinata a struggersi in un lento mar-tirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que’ doni.
La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben voluto tiran-neggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione con-245
tro il suo sangue: e ogni po’ di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico.
Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere, o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c’erano appunto state messe da quelle.
Qualche consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quell’altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l’al-246
ghe, che aveva prese, per una rabbia d’istinto.
Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappa-tella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità sal-vatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’ecci-tava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più srego-lati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgan-gheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di più; quando la sua di-247
sgrazia volle che un’occasione si presentasse.
Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati con-cessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’
tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellera-ti, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o giran-dolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà in-gegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cam-biamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne.
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Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella con-tinuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt’e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora.
Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e, che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e 249
ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino.
Dopo molte maraviglie, perché nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: – s’è rifugiata in Olanda di sicuro, – si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la signora fosse di questo parere. Non già che mo-strasse di non credere, o combattesse l’opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; né c’era cosa da cui s’astenesse più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che 250
nessuna persona vivente non ebbe mai!
Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora mol-tiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in certi particolari, con una intrepi-dezza, che riuscì e doveva riuscire più che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomen-ti. I giudizi poi che quella frammischiava all’interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno strani.
Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure s’avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l’interrogata. Avvedendosi poi d’aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svaga-menti del cervello, cercò di correggere e d’interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non poté fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come un confuso spavento. E appena poté trovarsi sola con la madre, se n’aprì con lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que’ dubbi, e spiegò tutto il mistero. – Non te ne far maraviglia, – disse: – quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un po’
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del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s’ha bisogno di loro; far vista d’ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai sentito come m’ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così.
E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t’abbia preso a ben volere, e voglia proteg-gerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t’accaderà ancora d’aver che fare con de’ signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai.
Il desiderio d’obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollie-vo nel far del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro, e trat-tate come se fossero addette al servizio del monastero.
La madre e la figlia si rallegravano insieme d’aver trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che c’era un uomo troppo premuroso d’aver notizie d’una di loro, e nell’animo del quale, alla passione e alla picca di prima s’era aggiunta anche la stizza d’essere stato pre-venuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell’ora in cui 252
stava attendendo l’esito della sua scellerata spedizione.
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CAPITOLO XI
Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’
musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intar-late, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano.
S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti. “In quanto ai sospetti”, pensava, “me ne rido. Vorrei un po’
sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di 254
nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io fo ciarle o fatti. E poi… se mai nascesse qualche imbroglio… che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,… anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado “. Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’
dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. “Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che… il viso più umano qui son io, per bacco… che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se prega…”.
Mentre fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro. “E la bussola? Diavolo! dov’è la bussola? Tre, cinque, otto: ci son tutti; c’è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto”.
Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, – ebbene, – gli disse, o gli gridò: – signore spaccone, signor capitano, signor lascifa-reame?
– L’è dura, – rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, – l’è dura di ricever de’ rimproveri, 255
dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.
– Com’è andata? Sentiremo, sentiremo, – disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.
– Tu non hai torto, e ti sei portato bene, – disse don Rodrigo: – hai fatto quello che si poteva; ma… ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste.
– Anche a me, signore, – disse il Griso, – è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa!
toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m’è parso di poter rilevare che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.
– Non siete stati riconosciuti almeno?
Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fu poi fatta, come 256
abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’imprope-ri precipitati coi quali lo aveva accolto.
Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rap-to di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.
La mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: – san Martino!
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– Non so cosa vi dire, – rispose don Rodrigo, arrivan-dogli accanto: – pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perche, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina.
Ma… basta, ora vi racconterò tutto.
– Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare,
– disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano.
– Quel frate, – continuò, – con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno –. Don Rodrigo riferì il dialogo. – E voi avete avuto tanta sofferenza? –
esclamò il conte Attilio: – e l’avete lasciato andare com’era venuto?
– Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?
– Non so, – disse il conte Attilio, – se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri.
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– Non mi fate peggio.
– Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.
– Cosa pensate di fare?
– Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate.
Ci penserò, e… il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor conte zio!
Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito.
Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quell’importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. – Di belle ciarle, – diceva, – faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m’importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto.
Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch’io sia stato burlato 259
così barbaramente.
– Avete fatto benissimo, – rispondeva il conte Attilio.
– Codesto vostro podestà… gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà… è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzio-nato, bisogna pure che…
– Ma voi, – interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, – voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!
– Sapete, cugino, – disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, – sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà…
– Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?
– L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul 260
conte zio del Consiglio segreto: e sapete che effetto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.
Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione.
Lo scompiglio di quella notte era stato tanto clamoro-so, la sparizione di tre persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insi-stenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempe-stata da quello e da quell’altro, perché dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapez-zandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamen-tandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla 261
cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che gril-la e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e tra-pela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è.
Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d’esser diven-tato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente al-l’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta.
Chi parlò meno, fu Menico; perché, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un’impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti 262
e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perché, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni.
Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa, e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non si rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le 263
congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Car-landrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridas-se, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini.
L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran 264
ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. – Fuggiti insieme! – gridò: – insieme! E quel frate birbante! Quel frate! – la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. –
Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono… voglio sapere, voglio trovare… questa sera, voglio saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare… Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E
quel birbone…! quel frate…!
Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.
Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale 265
ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e impo-nendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di sco-vare: il fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando, verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbatté, prima d’arrivare a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano.
Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire 266
immantinente il Griso a Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa.
Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato.
– Signore… – disse, tentennando, il Griso.
– Che? non ho io parlato chiaro?
– Se potesse mandar qualchedun altro…
– Come?
– Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi.
– Ebbene?
– Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e… Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io… è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto… li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza… ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.
– Che diavolo! – disse don Rodrigo: – tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanar-267
si!
– Credo, signor padrone, d’aver date prove…
– Dunque!
– Dunque, – ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, – dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.
– E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio… lo Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’
birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E
poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.
Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,
Leva il muso, odorando il vento infido,
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se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho preso, perche mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti.
L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. “Le gride son tante!” pensava: “e il dottore 269
non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome”. Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo, un al-tr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.
Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’
impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva.
Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.
Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente.
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Abbandonar la casa, tralasciare il mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si rav-vedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un’immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e ri-suscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da ro-taie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan riga-gnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da 271
quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: – di grazia, quel signore. – Che volete, bravo giovine?
– Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura?
L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abi-tante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, ché non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: – figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’u-no: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate –. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: – siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti ar-riverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riu-scirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattro-cento passi, vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo 272
giovine –. E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupe-fatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I ba-stioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacché, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi 273
d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. “Grand’abbondanza”, disse tra sé, “ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna”. Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. “Vediamo un po’ che affare è questo”, disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissi-mo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. – È pane davvero! – disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna 274
questo? – Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. “Lo piglio?” deliberava tra sé: “poh!
l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò”. Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt’e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt’e tre in una figura strana. I vestiti o gli strac-ci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via 275
una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per rag-giungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva.
– Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, –
disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo.
– Io non li butto via; cascan da sé: com’ho a fare? –
rispose quello.
– Ih! buon per te, che ho le mani impicciate, – riprese la donna, dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. – Via, via, – disse l’uomo: – torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace.
In tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: – dove si va a prendere il pane?
– Più avanti, – rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: – questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.
– Un po’ per uno, tormento che sei, – disse il marito:
– abbondanza, abbondanza.
Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, 276
Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, nega-vano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per arrivare al convento.
Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto log-giato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’
cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci ralle-griamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far mol-277
te corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era.
– Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo.
– Date qui, – disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.
– No, no, – disse Renzo: – gliela devo consegnare in proprie mani.
– Non è in convento.
– Mi lasci entrare, che l’aspetterò.
– Fate a mio modo, – rispose il frate: – andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra –. E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore.
“Andiamo a vedere”, disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte.
Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.
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CAPITOLO XII
Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvici-no); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sper-perìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’ordinario; perché le insopportabili gravez-ze, imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando 279
lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fre-280
mito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano.
S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispe-cie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.
Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva 281
fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.
Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti inese-guiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dime-nare, infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e bron-tolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era redenzione, bisognava rimena-re, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero molta paura; bisognava potere: e un po’
più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto.
Facevan vedere ai magistrati l’iniquità e l’insopportabili-tà del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la 282
pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano av-vantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvan-taggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informa-ron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnole-scamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, stra-scinati tutti verso una deliberazione da una necessità 283
sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest’altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita riso-nare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di 284
tanti discorsi.
Non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. – Ecco se c’è il pane! – gridarono cento voci insieme. – Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame, – dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: – lascia vedere –. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. – Giù quella gerla, – si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. –
Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, – dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontaria-285
mente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c’eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co’ fiocchi. – Al forno! al forno! – si grida.
Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbeti-che, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono (El prestin di scansc.). A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada.
Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a af-follarsi di fuori, e a gridare: – pane! pane! aprite! aprite!
Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. – Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, – grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodoché quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.
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– Ma figliuoli, – predicava di lì il capitano, – che fate qui? A casa, a casa. Dov’è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammon-tati? Niente di bene, né per l’anima, né per il corpo. A casa, a casa.
Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com’erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. – Fateli dare addietro ch’io possa riprender fiato, – diceva agli alabardieri: –
ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.
– Indietro! indietro! – gridano gli alabardieri, buttan-dosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; dànno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vòto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch’essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono en-287
trati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio!
– Figliuoli, – grida: molti si voltano in su; – figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa.
– Pane! pane! aprite! aprite! – eran le parole più distinte nell’urlìo orrendo, che la folla mandava in risposta.
– Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smet-tete con que’ ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi… Ah canaglia!
Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protube-ranza sinistra della profondità metafisica. – Canaglia!
canaglia! – continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz’aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la 288
strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata.
Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare.
Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
– Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora! –
s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’
cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’
tetti, come i gatti.
La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne’
magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li ro-289
vesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: – aspetta, aspetta, – si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due proces-sioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n’andassero. E quelli se n’andavano, non tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell’impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e 290
l’impunità sicura.
A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece.
– Ora è scoperta, – gridava uno, – l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!
– Vi dico io che tutto questo non serve a nulla, – diceva un altro: – è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori.
Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
– Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un 291
povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli –. Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo.
– Io? – diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: – io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o doman l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c’è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca.
– Quello che protegge i fornai, – gridava una voce so-nora, che attirò l’attenzione di Renzo, – è il vicario di provvisione.
– Son tutti birboni, – diceva un vicino.
– Sì; ma il capo è lui, – replicava il primo.
Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona. Chi occupava un tal posto doveva necessaria-mente, in tempi di fame e d’ignoranza, esser detto l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.
– Scellerati! – esclamava un altro: – si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vec-292
chio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.
– Pane eh? – diceva uno che cercava d’andar in fretta:
– sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia.
Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.
“Questa poi non è una bella cosa”, disse Renzo tra sé:
“se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane?
Ne’ pozzi?”
Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: – largo, largo, – passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. “Cos’è quest’altra storia?” pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c’erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d’osservar gli avvenimenti non poté fare che il 293
montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta.
Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vòto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione.
L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbra-cia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. – Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!
Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisi-co, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da 294
principio, e gli tornava ogni momento. Lo tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n’era uno che sem-brasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò caro.
Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: – io vo; tu, vai? vengo; andiamo, – si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione.
Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritor-nare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E
trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso.
Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il colle-gio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande 295
statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!
Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sa-grava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare in-296
dietro, chi diceva: – avanti, avanti –. C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: – c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco –. Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. – Dal vicario! dal vicario! – è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.
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CAPITOLO XIII
Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco, e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosa-mente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrasta-va. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta.
– Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo!
vivo o morto!
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Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo so-prassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta… Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza.
Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberata-mente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola 299
che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconfic-carla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia.
Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara di-sordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequen-te nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.
I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all’estremità della folla.
L’ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, ac-cozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mor-300
morìo; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciur-ma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irresolu-tezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si cura-vano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli.
Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affos-sati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.
– Oibò! vergogna! – scappò fuori Renzo, inorridito a 301
quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. – Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!
– Ah cane! ah traditor della patria! – gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole.
– Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dàlli, dàlli! – Cento voci si spargono all’intorno. – Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dàlli, dàlli!
Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un – largo, largo, – che si sentì gridar lì vicino: – largo! è qui l’aiuto: largo, ohe!
Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mug-302
ghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: – animo! andiamo!
– La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggian-do. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura.
Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: – Ferrer! Ferrer!
– Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia.
– È qui Ferrer! – Non è vero, non è vero! – Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. –
No, no! – È qui, è qui in carrozza. – Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! – Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. – No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! – Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario!
E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guar-303
dare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano.
In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, rimordendo-gli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquie-tarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acqui-stata.
Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura.
Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un con-304
certo istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio acciden-tale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bi-sognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’isti-gatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli 305
sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.
Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’appari-zione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’
compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procello-sa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’os-so in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi.
I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e 306
cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai fu-riosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. – Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer! – E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, mi-nacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s’impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il vicario,
– per andar subito… in prigione: ehm, avete inteso?
– È quel Ferrer che aiuta a far le gride? – domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale.
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– Già: il gran cancelliere – gli fu risposto.
– È un galantuomo, n’è vero?
– Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.
Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer.
Volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza.
Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabi-li e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a spen-derlo anche in quest’occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzio di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S’aiutava dunque co’ gesti, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripeteva-308
no le sue parole: – pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia –. Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: “por mi vida, que de gente!” – Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane!
– Sì; pane, pane, – rispondeva Ferrer: – abbondanza; lo prometto io, – e metteva la mano al petto.
– Un po’ di luogo, – aggiungeva subito: – vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita: – e soggiungeva sottovoce: – si es culpable –.
Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: – adelante, Pedro, si puedes.
Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco.
– Di grazia, – diceva anche lui, – signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare.
Intanto i benevoli più attivi s’adopravano a far fare il luogo chiesto così gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: – in là, via, un po’ di luogo, signori –; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della carrozza, perché potesse passare senza arrotar piedi, né ammaccar mostacci; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repen-309
taglio l’auge d’Antonio Ferrer.
Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheg-giare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di toglie-re un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; – venite pure avanti, – diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. – Adelante, presto, con juicio, – gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scia-lacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer.
La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra 310
e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici; ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettìo d’un fuoco arti-fiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta la strada. – Sì, signori; pane, abbondanza.
Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato… si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asi es… così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox!
ox! guardaos: non si facciano male, signori. Pedro, adelante con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione.
Cosa? – domandava poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo sportello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevere il “cosa?” era stato tirato indietro da 311
uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari.
Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio voto.
Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere.
Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforza-ti e scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva insieme.
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Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e scese sul predellino.
La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: – pane e giustizia –; e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d’aprire, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il deside-ratissimo ospite. – Presto, presto, – diceva lui: – aprite bene, ch’io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate venire addosso… per l’amor del cielo! Serbate un po’ di largo per tra poco. Ehi! ehi! signori, un momento, – diceva poi ancora a quelli di dentro: – adagio con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! – Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita.
Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla 313
meglio. Di fuori, quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto.
– Presto, presto, – diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno an-santi, gridando: – sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!
– Presto, presto, – ripeteva Ferrer: – dov’è questo benedett’uomo?
Il vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: – sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto.
– Venga usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto –. Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: “aqui està el busilis; Dios nos valga!”
La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vica-314
rio; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiat-ta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni.
La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto inge-gnati a preparare e a mantener come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza poté, questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella.
Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sé tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; inter-rompendolo però ogni tanto con qualche parolina spa-gnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. – Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia.
Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. È troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. An-315
ch’io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted.
La passerà male, la passerà male… si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco.
Animo; estamos ya quasi fuera.
Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacché sostenuti e di-retti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e pre-sentaron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: – beso a usted las manos –: parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle.
Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perché l’ufiziale non intendeva il latino.
A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, 316
tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: – ohe! ohe! – senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello.
– Levantese, levantese; estàmos ya fuera, – disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: – ah! – esclamò, battendo la mano sulla sua zucca monda, – que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito?
Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe. – Ah! per me, non voglio più im-picciarmene, – diceva il vicario: – me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’ere-mita, lontano, lontano da questa gente bestiale.
– Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad, – rispose gravemente il gran cancelliere.
– Sua maestà non vorrà la mia morte, – replicava il 317
vicario: – in una grotta, in una grotta; lontano da costoro.
Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi.
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CAPITOLO XIV
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a dira-marsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada.
Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s’allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d’amici, per ciarlare de’
gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s’andava facendo dall’altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d’una fine così fredda e così imperfetta d’un così grand’apparato, parte bronto-lavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pi-giando quella povera porta, ch’era stata di nuovo appun-tellata alla meglio. All’arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n’andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a’ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c’eran due o tre persone 319
ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosti-cava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva:
– non abbiate paura, che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo –; chi più stizzosamente mormorava che non s’eran fatte le cose a dovere, ch’era un inganno, e ch’era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d’un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c’era stato bisogno d’aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file de’ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un po’ di strada con la folla, e n’uscì, alla prima cantonata, per respirare anche lui un po’ liberamente.
Fatto ch’ebbe pochi passi al largo, in mezzo all’agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra, cercando un’insegna d’osteria; giacché, per andare al con-320
vento de’ cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, – signori miei! – gridò, in tono d’esordio: – devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s’è visto chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte.
– Pur troppo, – disse una voce.
– Lo dicevo io, – riprese Renzo: – già le storie si rac-contano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un 321
diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare.
Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io.
Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una grida con tanto d’arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d’ognuno c’era sotto il suo nome bell’e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co’
miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com’era l’intenzione di que’
322
tre signori, tra i quali c’era anche Ferrer, questo signor dottore, che m’aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s’ubbidi-sca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s’è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l’arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’
meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?
Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall’esordio, una gran parte de’ radunati, sospeso ogni altro discorso, s’eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d’applausi, di
– bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, – fu come 323
la risposta dell’udienza. Non mancaron però i critici. –
Eh sì, – diceva uno: – dar retta a’ montanari: son tutti avvocati –; e se ne andava. – Ora, – mormorava un altro,
– ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non s’avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi –. Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l’altra. – A rivederci a domani. – Dove? – Sulla piazza del duomo. – Va bene. – Va bene. – E qualcosa si farà. – E qualcosa si farà.
– Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo? – disse Renzo.
– Son qui io a servirvi, quel bravo giovine, – disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. – Conosco appunto un’osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.
– Qui vicino? – domandò Renzo. – Poco distante, –
rispose colui.
La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringra-ziandolo della sua cortesia.
– Di che cosa? – diceva colui: – una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? – E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un’altra domanda. – Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?
324
– Vengo, – rispose Renzo, – fino, fino da Lecco.
– Fin da Lecco? Di Lecco siete?
– Di Lecco… cioè del territorio.
– Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da’
vostri discorsi, ve n’hanno fatte delle grosse.
– Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po’ di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma… basta, qualche giorno si saprà; e allora… Ma qui vedo un’insegna d’osteria; e, in fede mia, non ho voglia d’andar più lontano.
– No, no! venite dov’ho detto io, che c’è poco, – disse la guida: – qui non istareste bene.
– Eh, sì; – rispose il giovine: – non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l’uno e l’altro. Alla provvidenza! – Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. – Bene; vi condurrò qui, giacché vi piace così, – disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
– Non occorre che v’incomodiate di più, – rispose Renzo. – Però, – soggiunse, – se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.
– Accetterò le vostre grazie, – rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s’accostò all’uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v’entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là 325
d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fia-schi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: “noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private”. Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida, “maledetto!” disse tra sé: “che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!”
Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: “non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò”. Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
– Cosa comandan questi signori? – disse ad alta voce.
– Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero, – disse Renzo: – e poi un boccone –. Così dicendo, si buttò a 326
sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un – ah! – sonoro, come se volesse dire: fa bene un po’ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l’ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l’oste col vino. Il compagno s’era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescé subito da bere, dicendo: per bagnar le labbra –. E riempito l’altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
– Cosa mi darete da mangiare? – disse poi all’oste.
– Ho dello stufato: vi piace? – disse questo.
– Sì, bravo; dello stufato.
– Sarete servito, – disse l’oste a Renzo; e al garzone:
– servite questo forestiero –. E s’avviò verso il cammino. – Ma… – riprese poi, tornando verso Renzo: – ma pane, non ce n’ho in questa giornata.
– Al pane, – disse Renzo, ad alta voce e ridendo, – ci ha pensato la provvidenza –. E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: – ecco il pane della provvidenza!
All’esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: – viva il pane a buon mercato!
– A buon mercato? – disse Renzo: – gratis et amore.
– Meglio, meglio.
– Ma, – soggiunse subito Renzo, – non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch’io l’abbia, come si 327
suol dire, sgraffignato. L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.
– Bravo! bravo! – gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de’ quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
– Credono ch’io canzoni; ma l’è proprio così, – disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: – vedete come l’hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n’era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han l’ossa un po’ tenere, saranno stati freschi –. E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: – da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. S’è fatto un gran gridare!
– Preparate un buon letto a questo bravo giovine, –
disse la guida: – perché ha intenzione di dormir qui.
– Volete dormir qui? – domandò l’oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
– Sicuro, – rispose Renzo: – un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.
– Oh, in quanto a questo! – disse l’oste: andò al banco, ch’era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell’altra.
– Cosa vuol dir questo? – esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: – è 328
il lenzolo di bucato, codesto?
L’oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: – fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria.
– Cosa? – disse Renzo: – cosa c’entrano codeste storie col letto?
– Io fo il mio dovere, – disse l’oste, guardando in viso alla guida: – noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi… quanto tempo ha di fermarsi in questa città… Son parole della grida.
Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d’ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: – ah ah! avete la grida! E io fo conto d’esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.
– Dico davvero, – disse l’oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
– Ah! ecco! – esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l’altra mano, con un dito teso, verso la grida: – ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa vuol dire 329
quella faccia d’ariano, con la corda al collo –. (In cima alle gride si metteva allora l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola). – Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don…
basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E
se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d’altri furfanti: perché se fosse solo… – e qui finì la frase con un gesto: – se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.
L’oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: – ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest’imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perché questo è fesso –. Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e sog-330
giunse: – senti, senti, oste, come crocchia.
Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l’attenzione di quelli che gli stavan d’intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
– Cosa devo fare? – disse l’oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui.
– Via, via, – gridaron molti di que’ compagnoni: – ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova oggi, legge nuova.
In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all’oste un’occhiata di rimprovero, per quell’interrogazione troppo scoperta, disse: – lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene.
– Ho fatto il mio dovere, – disse l’oste, forte; e poi tra se: “ora ho le spalle al muro”. E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
– Porta del medesimo, – disse Renzo: – che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.
– Del medesimo, – disse l’oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino.
“Altro che lepre!” pensava, istoriando di nuovo la cenere: “e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi af-fogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie”.
Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. – Bravi amici! – disse: – ora vedo 331
proprio che i galantuomini si dànno la mano, e si sosten-gono –. Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, –
gran cosa, – esclamò, – che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!
– Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? – disse ridendo uno di que’ giocatori, che vinceva.
– Sentiamo un poco, – rispose Renzo.
– La ragione è questa, – disse colui: – che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano.
Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.
– To’, – disse Renzo: – è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena an-ch’io, e qualche volta ne dico delle curiose… ma quando le cose vanno bene.
Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’ar-guto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo 332
significato! Perché, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?
– Ma la ragione giusta la dirò io, – soggiunse Renzo:
– è perché la penna la tengon loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche un’altra malizia; che, quando vogliono imbroglia-re un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po’ di… so io quel che voglio dire… – e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte con la punta dell’indice; – e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dell’usanze! Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente sa-prà regolarsi, se ne farà anche delle meglio: senza torce-re un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia.
Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se n’andavano; altra gente arrivava; l’oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva l’ora d’andarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d’aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune 333
di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. – Eh!
se comandassi io, – disse, – lo troverei il verso di fare andar le cose bene.
– Come vorreste fare? – domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po’ la bocca, come per star più attento.
– Come vorrei fare? – disse colui: – vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per i ricchi.
– Ah! così va bene, – disse Renzo.
– Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per… il vostro nome?
– Lorenzo Tramaglino, – disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i 334
nomi delle persone.
– Benissimo, – disse lo sconosciuto: – ma avete moglie e figliuoli?
– Dovrei bene… figliuoli no… troppo presto… ma la moglie… se il mondo andasse come dovrebbe andare…
– Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.
– È giusto; ma se presto, come spero… e con l’aiuto di Dio.. Basta; quando avessi moglie anch’io?
– Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione.
Come v’ho detto; sempre in ragion delle bocche, – disse lo sconosciuto, alzandosi.
– Così va bene, – gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: – e perché non la fanno una legge così?
– Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perché penso che la moglie e i figliuoli m’aspetteranno da un pezzo.
– Un altro gocciolino, un altro gocciolino, – gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. – Un altro gocciolino: non mi fate quest’affronto.
Ma l’amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri, disse di nuovo: – buona notte, – e se n’andò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo passar davanti 335
alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccan-do le parole in un certo modo particolare, disse: – ecco, l’avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso, proprio da amico; ma non l’ha voluto. Alle volte, la gente ha dell’idee curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l’ho fatto vedere. Ora, giacché la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male –. Così detto, lo prese, e lo votò in un sorso.
– Ho inteso, – disse il garzone, andandosene.
– Ah! avete inteso anche voi, – riprese Renzo: – dunque è vero. Quando le ragioni son giuste…!
Qui è necessario tutto l’amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d’imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch’era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que’ pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’
esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete.
Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudi-336
ni temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allonta-ni, se ne risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola.
Comunque sia, quando que’ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, l’uno in giù e l’altre in su, senza misura né regola: e, al punto a cui l’abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e s’eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che s’era presentato vivo e risoluto alla sua mente, s’annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que’ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica.
Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato.
– Ah oste, oste! – ricominciò, accompagnandolo con 337
l’occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata: – oste che tu sei! Non posso mandarla giù… quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio…! Non ti sei portato bene.
Che soddisfazione, che sugo, che gusto… di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figliuoli… Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone… per la ragione…
Ridono eh? Ho un po’ di brio, sì… ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n’è vero? dico bene? Guarda un po’ se que’ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino.
– Tutta gente che beve acqua, – disse un vicino di Renzo.
– Vogliono stare in sé, – soggiunse un altro, – per poter dir le bugie a dovere.
– Ah! – gridò Renzo: – ora è il poeta che ha parlato.
Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispon-di dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d’un quattrino? E quel cane assassino di don…? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr… so io, son due galantuomini; ma ce n’è pochi de’
galantuomini. I vecchi peggio de’ giovani; e i giovani…
peggio ancora de’ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia.
Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma… ne 338
ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!… Eppure, anche Ferrer… qualche parolina in latino… siés baraòs tra-polorum… Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!… Là ci volevano que’ galantuomini… quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve’, allora. Tenerlo lì quel signor curato… So io a chi penso!
A questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi n’era l’oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevan cominciato a prendersi spasso dell’eloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n’era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l’uno or l’altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno d’a-verselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt’altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che dove-339
va esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.
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CAPITOLO XV
L’oste, vedendo che il gioco andava in lungo, s’era accostato a Renzo; e pregando, con buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l’andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co’ buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po’ più distintamente il bisogno di ciò che si-gnificavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po’ di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n’era andato: a un di presso come l’ultimo moccolo rimasto acceso d’un’illuminazio-ne, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d’alzarsi; sospirò, barcollò; alla terza, sorretto dall’oste, si rizzò. Quello, reggendolo tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un lume, con l’altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l’uscio di scala. Lì Renzo, al chiasso de’ saluti che coloro gli urlavan dietro, si voltò in fretta; e se il suo soste-nitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, 341
e, con l’altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo nell’aria certi saluti, a guisa d’un nodo di Salomone.
– Andiamo a letto, a letto, – disse l’oste, strascicando-lo; gli fece imboccar l’uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l’aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste, con due occhietti che ora scintillavan più che mai, ora s’eclissavano, come due lucciole; cercò d’equilibrarsi sulle gambe; e stese la mano al viso dell’oste, per prendergli il ganascino, in segno d’amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. –
Bravo oste! – gli riuscì però di dire: – ora vedo che sei un galantuomo: questa è un’opera buona, dare un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m’hai fatta, sul nome e cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch’io son furbo la mia parte…
L’oste, il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo. – Figliuolo caro, – disse, con una voce e con un fare tutto gentile: –
non l’ho fatto per seccarvi, né per sapere i fatti vostri.
Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio conten-tarli, e… Di che si tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a me: via; qui tra noi, a quattr’occhi, facciam le nostre cose; ditemi 342
il vostro nome, e… e poi andate a letto col cuor quieto.
– Ah birbone! – esclamò Renzo: – mariolo! tu mi torni ancora in campo con quell’infamità del nome, cognome e negozio!
– Sta’ zitto, buffone; va’ a letto, – diceva l’oste.
Ma Renzo continuava più forte: – ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta, aspetta, che t’accomodo io –. E
voltando la testa verso la scaletta, cominciava a urlare più forte ancora: – amici! l’oste è della…
– Ho detto per celia, – gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto: – per celia; non hai inteso che ho detto per celia?
– Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia… Son proprio celie –. E cadde bocconi sul letto.
– Animo; spogliatevi; presto, – disse l’oste, e al consiglio aggiunse l’aiuto; che ce n’era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle), l’oste l’agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c’e-ra il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto a fare i conti con tutt’altri che con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di concluder quest’altro affare.
– Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è vero? – disse.
– Buon figliuolo, galantuomo, – rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potuto levare.
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– Bene, – replicò l’oste: – saldate ora dunque quel poco conticino, perché domani io devo uscire per certi miei affari…
– Quest’è giusto, – disse Renzo. – Son furbo, ma galantuomo… Ma i danari? Andare a cercare i danari ora!
– Eccoli qui, – disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi.
– Dammi una mano, ch’io possa finir di spogliarmi, oste, – disse Renzo. – Lo vedo anch’io, ve’, che ho addosso un gran sonno.
L’oste gli diede l’aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli disse sgarbatamente – buona notte, – che già quello russava. Poi, per quella specie d’at-trattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell’atto a un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. – Pezzo d’asino! – disse nella sua mente al povero addormentato: – sei andato proprio a cercartela.
Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tan-gheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.
Così detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l’uscio a chiave. Sul pianerottolo 344
della scala, chiamò l’ostessa; alla quale disse che lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scen-desse in cucina, a far le sue veci. – Bisogna ch’io vada fuori, in grazia d’un forestiero capitato qui, non so come diavolo, per mia disgrazia, – soggiunse; e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: –
occhio a tutto; e sopra tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di tutti i colori. Basta, se qualche temerario…
– Oh! non sono una bambina, e so anch’io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire…
– Bene, bene; e badar che paghino; e tutti que’ discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perché, se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più grosse… Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire: vengo; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte. Io cercherò di tornare più presto che posso.
Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un’occhiata in giro, per veder se c’era novità di rilievo; staccò da un ca-vicchio il cappello e la cappa, prese un randello da un cantuccio, ricapitolò, con un’altra occhiata alla moglie, l’istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni, aveva ripreso, dentro di sé, il filo dell’apostrofe cominciata al letto del povero Renzo; e la 345
proseguiva, camminando in istrada.
“Testardo d’un montanaro!” Ché, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo, questa qualità si manifestava da sé, nelle parole, nella pronunzia, nell’aspetto e negli atti. “Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e do-vevi venir tu sulla fine, a guastarmi l’uova nel paniere.
Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio, per questa sera; e domattina t’avrei fatto intender la ragione. Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio!”
A ogni passo, l’oste incontrava o passeggieri scompa-gnati, o coppie, o brigate di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sé: “eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io facevo di tutto per sal-varti; e tu, bestia, in contraccambio, c’è mancato poco che non m’hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una mia curiosità! Cosa m’importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolom-meo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a voler le cose a modo 346
vostro. Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro!
Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pre-tendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per ispenderli così bene; da esser applica-ti, per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusato-re o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all’arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie”.
A queste parole, l’oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.
Lì, come a tutti gli altri ufizi, c’era un gran da fare: per tutto s’attendeva a dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare i pretesti e l’ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite a adoprarla. S’accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S’ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedi-rono staffette a’ paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a invigilare sulla distri-347
buzione e a tenere a freno gl’inquieti, con l’autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d’acqua vulneraria sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto l’oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come avete visto. Poté però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e patria, oltre cent’altre belle notizie congetturali; dimodoché, quando l’oste capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno a Renzo, ne sapevan già più di lui. Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo nome.
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– Avete fatto il vostro dovere a informar la giustizia
–; disse un notaio criminale, mettendo giù la penna, –
ma già lo sapevamo.
“Bel segreto!” pensò l’oste: “ci vuole un gran talento!” – E sappiamo anche, – continuò il notaio, –
quel riverito nome.
“Diavolo! il nome poi, com’hanno fatto?” pensò l’oste questa volta.
– Ma voi, – riprese l’altro, con volto serio, – voi non dite tutto sinceramente.
– Cosa devo dire di più?
– Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.
– Vien uno con un pane in tasca; so assai dov’è andato a prenderlo. Perché, a parlar come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.
– Già; sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?
– Cosa ho da provare io? io non c’entro: io fo l’oste.
– Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiu-riose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti contro l’arme di sua eccellenza.
– Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l’ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei 349
avuto bisogno di domandargli il suo nome.
– Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.
– Come vuole vossignoria ch’io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che parlan tutti insieme? Io devo attendere a’ miei interessi, che sono un pover’uo-mo. E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciol-ta, per il solito è anche lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e…
– Sì, sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il ruzzo. Cosa credete?
– Io non credo nulla.
– Che la canaglia sia diventata padrona di Milano?
– Oh giusto!
– Vedrete, vedrete.
– Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.
– Avete ancora molta gente in casa?
– Un visibilio.
– E quel vostro avventore cosa fa? Continua a schia-mazzare, a metter su la gente, a preparar tumulti per domani?
– Quel forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.
– Dunque avete molta gente… Basta; badate a non lasciarlo scappare.
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“Che devo fare il birro io?” pensò l’oste; ma non disse né sì né no.
– Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, – riprese il notaio.
– Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla giustizia.
– E non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.
– Io? per carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste.
– La solita canzone: non avete mai altro da dire.
– Che ho da dire altro? La verità è una sola.
– Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato.
– Cosa ho da informare? io non so nulla; appena appena ho la testa da attendere ai fatti miei.
– Badate a non lasciarlo partire.
– Spero che l’illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria.
Allo spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett’o-re, ed era ancora, poveretto! sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del letto gridava: – Lorenzo Tramaglino! – , lo fecero riscotere.
Si risentì, ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino 351
che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto.
– Ah! avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino? –
disse l’uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera avanti. – Animo dunque; levatevi, e venite con noi.
– Lorenzo Tramaglino! – disse Renzo Tramaglino: –
cosa vuol dir questo? Cosa volete da me? Chi v’ha detto il mio nome?
– Meno ciarle, e fate presto, – disse uno de’ birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio.
– Ohe! che prepotenza è questa? – gridò Renzo, ritirando il braccio. – Oste! o l’oste!
– Lo portiam via in camicia? – disse ancora quel birro, voltandosi al notaio.
– Avete inteso? – disse questo a Renzo: – si farà così, se non vi levate subito subito, per venir con noi.
– E perché? – domandò Renzo.
– Il perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia.
– Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio…
– Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete andarvene per i fatti vostri.
– Mi lascino andare ora, – disse Renzo: – io non ho che far nulla con la giustizia.
– Orsù, finiamola! – disse un birro.
– Lo portiamo via davvero? – disse l’altro.
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– Lorenzo Tramaglino! – disse il notaio.
– Come sa il mio nome, vossignoria?
– Fate il vostro dovere, – disse il notaio a’ birri; i quali misero subito le mani addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto.
– Eh! non toccate la carne d’un galantuomo, che…!
Mi so vestir da me.
– Dunque vestitevi subito, – disse il notaio.
– Mi vesto, – rispose Renzo; e andava di fatti racco-gliendo qua e là i panni sparsi sul letto, come gli avanzi d’un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo: – ma io non ci voglio andare dal capitano di giustizia. Non ho che far nulla con lui.
Giacché mi si fa quest’affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni.
– Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, – rispose il notaio. In altre circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d’una richiesta simile; ma non era momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d’una sollevazione non del tutto sedata, o princìpi d’una nuova: uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d’amore e d’accordo; giacché, se si fosse venuti a guerra aperta con lui, non poteva esser certo, 353
quando fossero in istrada, di trovarsi tre contr’uno. Perciò dava d’occhio a’ birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi, come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovi-nava bene, a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perché la giustizia avesse preso tant’animo, da venire a colpo sicuro, a metter le mani addosso a uno de’ buoni figliuoli che, il giorno avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti addormentati, poiché Renzo s’accorgeva anche lui d’un ronzìo crescente nella strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in lungo, e anche per tentare un colpo, disse: – vedo bene cos’è l’origine di tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un po’ allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta d’altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio nome. Chi diamine gliel ha detto?
– Bravo, figliuolo, bravo! – rispose il notaio, tutto manieroso: – vedo che avete giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che tant’altri. È
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la miglior maniera d’uscirne presto e bene: con codeste buone disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io, vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei. Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e poi io dirò… Lasciate fare a me… Basta; sbri-gatevi, figliuolo.
– Ah! lei non può: intendo, – disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con de’ cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo spiccia-re.
– Passeremo dalla piazza del duomo? – domandò poi al notaio.
– Di dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà, – disse quello, rodendosi dentro di sé, di dover lasciar cadere in terra quella domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni. “Quando uno nasce disgraziato!” pensava. “Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po’ di respiro che s’avesse, così extra formam, accademicamente, in via di discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell’e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l’appunto capitare in un momento così angustiato. Eh! non c’è scampo”, continuava a pensare, tendendo gli orecchi, e piegando la testa all’indietro: “non c’è rimedio; e’ risica d’essere una giornata peggio di ieri”. Ciò che lo fece pensar così, fu 355
un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non poté tenersi di non aprir l’impannata, per dare un’occhiatina. Vide ch’era un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà.
Chiuse l’impannata, e stette un momento in forse, se dovesse condur l’impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de’ due birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva. “Ma”, pensò subito,
“mi si dirà che sono un buon a nulla, un pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere!”
Renzo era levato; i due satelliti gli stavano a’ fianchi.
Il notaio accennò a costoro che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: – da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.
Anche Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra nelle tasche. – Ohe! – disse, guardando il notaio, con un viso molto significante: – qui c’era de’ soldi e una lettera. Signor mio!
– Vi sarà dato ogni cosa puntualmente, – disse il notaio, dopo adempite quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.
– No, no, no, – disse Renzo, tentennando il capo: –
questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.
– Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate 356
presto, – disse il notaio, levandosi di seno, e consegnan-do, con un sospiro, a Renzo le cose sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra’ denti: – alla larga! bazzicate tanto co’ ladri, che avete un poco imparato il mestiere –. I birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli occhi, e diceva intanto tra sé: “se tu arrivi a metter piede dentro quella soglia, l’hai da pagar con usura, l’hai da pagare”.
Mentre Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un de’ birri, che s’avvias-se per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi l’altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice: – e quest’oste benedetto dove s’è cacciato? – il notaio fa un altro cenno a’ birri; i quali afferrano, l’uno la destra, l’altro la sinistra del giovine, e in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini.
Consistevano questi (ci dispiace di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po’
più che il giro d’un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette.
La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che, girandoli, ristringe-va la legatura, a volontà; e con ciò aveva mezzo, non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi.
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Renzo si divincola, grida: – che tradimento è questo?
A un galantuomo…! – Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, – abbiate pazienza, – diceva: – fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di voi. Abbiate pazienza.
Mentre parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a’ legnetti. Renzo s’acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le morse, e esclamò: – pazienza!
– Bravo figliuolo! – disse il notaio: – questa è la vera maniera d’uscirne a bene. Cosa volete? è una seccatura; lo vedo anch’io; ma, portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacché vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s’avvede di quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un’ora voi siete in libertà: c’è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi parlerò io… Ve n’andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi altri, – continuò poi, voltandosi a’ birri, con un viso severo: – guardate bene di non fargli male, perché lo proteg-go io: il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo, un giovine civile, il quale, 358
di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s’avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso –. E, con tono imperativo, e con sopracciglio minaccioso, concluse: – m’avete inteso –. Voltatosi poi a Renzo, col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: – giudizio; fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo –. E la comitiva s’avviò.
Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, né che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, né che avesse intenzion d’aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani, metteva innanzi que’
bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da ap-profittarne. Dimodoché tutte quelle esortazioni non ser-virono ad altro che a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario.
Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre un altro a fare una cosa per sé sospetta, fosse andato suggerendo-gliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di dargli un parere disinteressato, da amico.
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Ma è una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe fare per levarli d’impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que’
ritrovati maestri, quelle belle malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e con-dotte con la pacatezza d’animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamen-te, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l’applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta, all’impazzata, senza garbo né grazia.
Di maniera che a uno che li veda ingegnarsi e arrabattar-si a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l’uomo che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sé, contro di loro.
Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a’ furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d’esser sempre i più forti, che è la più sicura.
Renzo adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non c’era però concorso straordinario; e benché sul viso di più d’un passeggiero si potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava diritto per la sua 360
strada; e sedizione propriamente detta, non c’era.
– Giudizio, giudizio! – gli susurrava il notaio dietro le spalle: – il vostro onore; l’onore, figliuolo –. Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con visi accesi, sentì che parlavan d’un forno, di farina nascosta, di giustizia, cominciò anche a far loro de’ cenni col viso, e a tossire in quel modo che indica tutt’altro che un raffreddore. Quelli guardarono più attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, volta-tisi al bisbiglìo, tornavano indietro, e facevan coda.
– Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione, –
continuava a susurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.
– Ahi! ahi! ahi! – grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. – È un malvivente, – bi-sbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: – è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia
–. Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, “se non m’aiuto ora, pensò, mio danno”. E subito alzò la voce: – figliuoli! mi mena-no in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia.
Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli!
Un mormorìo favorevole, voci più chiare di protezio-361
ne s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più.
Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: – cos’è stato?
– Uh corvaccio! – rispose colui. – Corvaccio! corvaccio! – risonò all’intorno. Alle grida s’aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in quel momento, d’esser fuori di quel serra serra.
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CAPITOLO XVI
– Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa; di qui, di là, – si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una speranza d’uscir da quell’unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. “Perché”, aveva pensato, “il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono”. E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri alle spalle. “Perché, se posso essere uccel di bosco”, aveva anche pensato, “non voglio di-ventare uccel di gabbia”. Aveva dunque disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de’
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suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su’ casi suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così obbligante, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche altro di quel conio; e risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, né il perché la domandasse. Disse a’ suoi liberatori:
– grazie tante, figliuoli: siate benedetti, – e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sé era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ri-364
cadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua.
Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant’è vero che all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente uno che veniva in fretta, pensò che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponde-rebbe subito, senz’altre chiacchiere; e sentendolo parlar da sé, giudicò che dovesse essere un uomo sincero. Gli s’accostò, e disse: – di grazia, quel signore, da che parte si va per andare a Bergamo?
– Per andare a Bergamo? Da porta orientale.
– Grazie tante; e per andare a porta orientale?
– Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi…
– Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito –. E diviato s’incamminò dalla parte che gli era stata indicata. L’altro gli guardò dietro un momento, e, accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse tra sé: “o n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui”.
Renzo arriva sulla piazza del duomo; l’attraversa, passa accanto a un mucchio di cenere e di carboni spenti, e 365
riconosce gli avanzi del falò di cui era stato spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il forno delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de’ cappuccini; dà un’occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice tra sé, sospirando: “m’aveva però dato un buon parere quel frate di ieri: che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po’ di bene”.
Qui, essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva passare, e vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la fantasia un po’ riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi motivi), provò una certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo d’asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato; fu tentato fortemente d’entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò:
“uccel di bosco, fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte”. Si voltò, per vedere se mai venissero da quella parte: non vide né quelli, né altri che paressero occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che volevan sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare; e adagio adagio, fi-schiando in semitono, arriva alla porta.
C’era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, v’accorrono, 366
come i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro.
Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Bergamo; questo gli basta per ora. Ogni tanto, si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e strofinando or l’uno or l’altro polso, ancora un po’ indolenziti, e segnati in giro d’una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tene-rezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si rammentava bene d’averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell’esibizioni che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi certezza. Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di cosa, la memoria, per quanto venis-367
se esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva dir altro che d’essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il pove-rino si smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de’ galantuomini; e scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de’ suoi affari: che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far sull’avvenire un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria, eran tutti malinco-nici.
Ma ben presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sé non ne poteva uscire.
Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece.
– Siete fuor di strada, – gli rispose questo; e, pensato-ci un poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada maestra.
Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a sinistra, e, come si dice, a zig 368
zag, parte seguendo l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò a per-suadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale.
Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto.
Questa, in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: ché la voce n’e-369
ra arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse incamminato.
– Devo andare in molti luoghi, – rispose: – e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano… Come si chiama? – “Qualcheduno ce ne sarà”, pensava intanto tra sé.
– Gorgonzola, volete dire, – rispose la vecchia.
– Gorgonzola! – ripeté Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. – È molto lontano di qui? – riprese poi.
– Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.
– E credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove!
– A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta –. E glielo nominò.
– Va bene; – disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in 370
paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera.
Già cammin facendo, aveva disegnato di far lì un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più sostanzioso. Il corpo avrebbe anche gradito un po’ di letto; ma prima che contentarlo in questo, Renzo l’avrebbe lasciato cader rifinito sulla strada. Il suo proposito era d’informarsi al-l’osteria, della distanza dell’Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che mettesse là, e di rincam-minarsi da quella parte, subito dopo essersi rinfrescato.
Nato e cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un’idea precisa; ma, allora come allora, l’affar più urgente era di passarlo, dovunque si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettessero: e d’aspettar poi l’al-ba, in un campo, in un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un’osteria.
Fatti alcuni passi in Gorgonzola, vide un’insegna, en-trò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan fatto passare quell’odio così estremo e fanatico.
– Vi prego di far presto, soggiunse: – perché ho bisogno di rimettermi subito in istrada –. E questo lo disse, non solo perché era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio… Alla larga!
371
L’oste rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: il posto de’ vergognosi.
C’erano in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una sollevazione, né soggiogata né vittoriosa, sospesa più che terminata dalla notte; una cosa tronca, la fine d’un atto piuttosto che d’un dramma.
Un di coloro si staccò dalla brigata, s’accostò al soprarri-vato, e gli domandò se veniva da Milano.
– Io? – disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere.
– Voi, se la domanda è lecita.
Renzo, tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono inarticolato, disse: – Milano, da quel che ho sentito dire… non dev’essere un luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necessità.
– Continua dunque anche oggi il fracasso? – domandò, con più istanza, il curioso.
– Bisognerebbe esser là, per saperlo, – disse Renzo.
– Ma voi, non venite da Milano?
– Vengo da Liscate, – rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perché c’era passato; e il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante 372
che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola.
– Oh! – disse l’amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma pazienza. – E a Liscate, –
soggiunse, – non si sapeva niente di Milano?
– Potrebb’essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa, – rispose il montanaro: – ma io non ho sentito dir nulla.
E queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire: ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l’oste venne a mettere in tavola.
– Quanto c’è di qui all’Adda? – gli disse Renzo, mezzo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.
– All’Adda, per passare? – disse l’oste.
– Cioè… sì… all’Adda.
– Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?
– Dove si sia… Domando così per curiosità.
– Eh, volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sé.
– Va bene: e quanto c’è?
– Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia.
– Sei miglia! non credevo tanto, – disse Renzo. – E
già, – riprese poi, con un’aria d’indifferenza, portata fino all’affettazione: – e già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare?
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– Ce n’è sicuro, – rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: – il vino è sincero?
– Come l’oro, – disse l’oste: – domandatene pure a tutta la gente del paese e del contorno, che se n’intende: e poi, lo sentirete –. E così dicendo, tornò verso la brigata.
“Maledetti gli osti!” esclamò Renzo tra sé: “più ne conosco, peggio li trovo”. Non ostante, si mise a mangiare con grand’appetito, stando, nello stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand’avvenimento nel quale egli aveva avuta non piccola parte, e d’osservare specialmente se, tra que’ parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse fidarsi di domandar la strada, senza timore d’esser messo alle strette, e forzato a ciarlare de’ fatti suoi.
– Ma! – diceva uno: – questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa.
– Mi pento di non esser andato a Milano stamattina, –
diceva un altro.
– Se vai domani, vengo anch’io, – disse un terzo; poi un altro, poi un altro.
– Quel che vorrei sapere, – riprese il primo, – è se que’ signori di Milano penseranno anche alla povera 374
gente di campagna, o se faranno far la legge buona solamente per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: gli altri, come se non ci fossero.
– La bocca l’abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione, – disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era avanzata: –
e quando la cosa sia incamminata… – Ma credette meglio di non finir la frase.
– Del grano nascosto, non ce n’è solamente in Milano,
– cominciava un altro, con un’aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti al-l’uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno incontro. Era un mercante di Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo, per i suoi traffichi, era solito passar la notte in quell’osteria; e siccome ci trovava quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s’affollano intorno; uno prende la briglia, un altro la staffa. – Ben arrivato, ben arrivato!
– Ben trovati.
– Avete fatto buon viaggio?
– Bonissimo; e voi altri, come state?
– Bene, bene. Che nuove ci portate di Milano?
– Ah! ecco quelli delle novità, – disse il mercante, smontando, e lasciando il cavallo in mano d’un garzone.
– E poi, e poi, continuò, entrando con la compagnia, – a quest’ora le saprete forse meglio di me.
– Non sappiamo nulla, davvero, – disse più d’uno, mettendosi la mano al petto.
– Possibile? – disse il mercante. – Dunque ne sentire-375
te delle belle… o delle brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino, e il mio solito boccone, subito; perché voglio andare a letto presto, per partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l’ora del desinare. E voi altri, – continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava Renzo, zitto e attento, – voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ieri?
– Di ieri sì.
– Vedete dunque, – riprese il mercante, – se le sapete le novità. Lo dicevo io che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano…
– Ma oggi, com’è andata oggi?
– Ah oggi. Non sapete niente d’oggi?
– Niente affatto: non è passato nessuno.
– Dunque lasciatemi bagnar le labbra; e poi vi dirò le cose d’oggi. Sentirete –. Empì il bicchiere, lo prese con una mano, poi con le prime due dita dell’altra sollevò i baffi, poi si lisciò la barba, bevette, e riprese: – oggi, amici cari, ci mancò poco, che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E non mi par quasi vero d’esser qui a chiacchierar con voi altri; perché avevo già messo da parte ogni pensiero di viaggio, per restare a guardar la mia povera bottega.
– Che diavolo c’era? – disse uno degli ascoltanti.
– Proprio il diavolo: sentirete –. E trinciando la pie-tanza che gli era stata messa davanti, e poi mangiando, continuò il suo racconto. I compagni, ritti di qua e di là della tavola, lo stavano a sentire, con la bocca aperta; 376
Renzo, al suo posto, senza che paresse suo fatto, stava attento, forse più di tutti, masticando adagio adagio gli ultimi suoi bocconi.
– Stamattina dunque que’ birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si trovarono a’ posti conve-nuti (già c’era un’intelligenza: tutte cose preparate); si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girare di strada in strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va avanti. Quando parve loro d’esser gente abbastanza, s’avviarono verso la casa del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; e io lo posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della servitù.
S’incamminaron dunque verso quella casa: bisognava veder che canaglia, che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che… i giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il sacco; ma… –
E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la punta del pollice alla punta del naso.
– Ma? – dissero forse tutti gli ascoltatori.
– Ma, – continuò il mercante, – trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e, dietro quella barricata, 377
una bella fila di micheletti, con gli archibusi spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparato… Cosa avreste fatto voi altri?
– Tornare indietro.
– Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che fin da ieri, avevan voluto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c’era chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio an-ch’io: in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, cru-sca, farina, pasta, tutto sottosopra.
– E i micheletti?
– I micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare e portar la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c’era buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritro-vato di ieri, di portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta venne fuori.
– Con che cosa?
– Di fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa insieme. Detto fatto…
– Ci han dato fuoco?
– Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un’ispi-378
razione dal cielo. Corse su nelle stanze, cercò d’un Cro-cifisso, lo trovò, l’attaccò all’archetto d’una finestra, prese da capo d’un letto due candele benedette, le accese, e le mise sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifis-so. La gente guarda in su. In un Milano, bisogna dirla, c’è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sé. La più parte, voglio dire; c’era bensì de’ diavoli che, per rubare, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere, dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ora chi arrivò all’improvviso. Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale; e monsignor Mazenta, arciprete, cominciò a predicare da una parte, e monsignor Settala, peniten-ziere, da un’altra, e gli altri anche loro: ma, brava gente!
ma cosa volete fare? ma è questo l’esempio che date a’
vostri figliuoli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma andate a vedere, che c’è l’avviso sulle cantonate.
– Era vero?
– Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir delle fandonie?
– E la gente cosa fece?
– A poco a poco se n’andarono; corsero alle cantonate; e, chi sapeva leggere, la c’era proprio la meta. Indovinate un poco: un pane d’ott’once, per un soldo.
– Che bazza!
– La vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata a male, tra ieri e stamattina? Da man-tenerne il ducato per due mesi.
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– E per fuori di Milano, non s’è fatta nessuna legge buona?
– Quel che s’è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che vi dire: per voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto, i fracassi son finiti. Non v’ho detto tutto; ora viene il buono.
– Cosa c’è ancora?
– C’è che, ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti; e subito s’è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d’esser nel numero. Milano, quand’io ne sono uscito, pareva un convento di frati.
– Gl’impiccheranno poi davvero?
– Eccome! e presto, – rispose il mercante.
– E la gente cosa farà? – domandò ancora colui che aveva fatta l’altra domanda.
– La gente? anderà a vedere, – disse il mercante. –
Avevan tanta voglia di veder morire un cristiano all’aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al signor vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con tutte le formalità, accompagnati da’ cappuccini, e da’ confratelli della buona morte; e gente che se l’è meritato. È una provvidenza, vedete; era una cosa necessaria. Cominciavan già a prender il vizio d’entrar nelle botteghe, e di servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano… Pensate se coloro volevano smettere, di loro spontanea volontà, una usanza 380
così comoda. E vi so dir io che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro.
– Davvero, – disse uno degli ascoltatori. – Davvero, –
ripeteron gli altri, a una voce.
– E, – continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, – l’era ordita da un pezzo: c’era una lega, sapete?
– C’era una lega?
– C’era una lega. Tutte cabale ordite da’ navarrini, da quel cardinale là di Francia, sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto, tende a far qualche tiro a Milano; perché vede bene, il furbo, che qui sta la forza del re.
– Già.
– Ne volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano in giro facce, che in Milano non s’eran mai vedute. Anzi mi dimenticavo di dirvene una che m’è stata data per certa. La giustizia aveva acchiappato uno in un’osteria… – Renzo, il quale non perdeva un ette di quel discorso, al tocco di questa corda, si sentì venir freddo, e diede un guizzo, prima che potesse pensare a contenersi. Nessuno però se n’avvide; e il dicitore, senza interrompere il filo del racconto, seguitò: –
uno che non si sa bene ancora da che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, né che razza d’uomo si fosse; ma certo era uno de’ capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il diavolo; e poi, non contento di questo, s’e-ra messo a predicare, e a proporre, così una galanteria, 381
che s’ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia, che l’aveva appostato, gli mise l’unghie addosso; gli trovarono un fascio di lettere; e lo me-navano in gabbia; ma che? i suoi compagni, che facevan la ronda intorno all’osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono, il manigoldo.
– E cosa n’è stato?
– Non si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha né casa né tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finché il diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano; perché, quando la pera è matura, convien che caschi. Per ora si sa di sicuro che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c’è descritta tutta la cabala; e si dice che n’anderà di mezzo molta gente. Peggio per loro; che hanno messo a soqquadro mezzo Milano, e volevano anche far peggio. Dicono che i fornai son birboni. Lo so anch’io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia. C’è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi comanda a tener buone spie, e andarlo a disot-terrare, e mandare anche gl’incettatori a dar calci all’aria, in compagnia de’ fornai. E se chi comanda non fa nulla, tocca alla città a ricorrere; e se non dànno retta alla prima, ricorrere ancora; ché a forza di ricorrere s’ottiene; e non metter su un’usanza così scellerata d’entrar nelle botteghe e ne’ fondachi, a prender la roba a man salva.
A Renzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill’anni d’esser fuori e lontano da quel-382
l’osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva detto a sé stesso: andiamo, andiamo. Ma quella paura di dar sospetto, cresciuta allora oltremodo, e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, l’aveva tenuto sempre inchiodato sulla panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone doveva poi finire di parlar di lui; e concluse tra sé, di moversi, appena sentisse attaccare qualche altro discorso.
– E per questo, – disse uno della brigata, – io che so come vanno queste faccende, e che ne’ tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere dalla curiosità, e son rimasto a casa mia.
– E io, mi son mosso? – disse un altro.
– Io? – soggiunse un terzo: – se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.
A questo punto, l’oste, ch’era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare, quantunque l’acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò diritto all’uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s’incamminò dalla parte opposta a quella per cui era venuto.
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CAPITOLO XVII
Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri erano in campo per dargli la caccia! quali ordini erano stati spe-diti di frugar ne’ paesi, nell’osterie, per le strade! Pensava bensì che finalmente i birri che lo conoscevano, eran due soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte; ma gli tornavano in mente certe storie che aveva sentite raccontare, di fuggitivi colti e scoperti per istrane com-binazioni, riconosciuti all’andare, all’aria sospettosa, ad altri segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque, nel momento che usciva di Gorgonzola, scoccasse-ro le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi, di-minuissero sempre più que’ pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la strada maestra, e si propose d’entrar nella prima viottola che gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte 384
apprensioni, non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada. “Ha detto sei miglia, colui, –
pensava: – se andando fuor di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare, passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione”.
Ben presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v’entrò. A quell’ora, se si fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada lo conduceva; e pensava.
“Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a viso a viso con quel mercante, di là dall’Adda (ah quando l’a-vrò passata quest’Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov’abbia pescate tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è andata così e così, e che il diavolo ch’io ho fatto, è stato d’aiutar Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que’ birboni che, a sentir voi, erano i miei amici, perché, in un certo momento, io dissi una parola da buon cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; 385
sappiate che, intanto che voi stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l’ho mai né visto né conosciuto. Aspetta che mi mova un’altra volta, per aiutar signori… È vero che bisogna farlo per l’anima: son prossimo anche loro. E quel gran fascio di lettere, dove c’era tutta la cabala, e che adesso è in mano della giustizia, come voi sapete di certo; scommettiamo che ve lo fo comparir qui, senza l’aiuto del diavolo? Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo qui… Una lettera sola?… Sì signore, una lettera sola; e questa lettera, se lo volete sapere, l’ha scritta un religioso che vi può insegnar la dottrina, quando si sia; un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra; e è scritta, questa lettera, come vedete, a un altro religioso, un uomo anche lui… Vedete ora quali sono i furfanti miei amici. E imparate a parlare un’altra volta; principalmente quando si tratta del prossimo”.
Ma dopo qualche tempo, questi pensieri ed altri simili cessarono affatto: le circostanze presenti occupavan tutte le facoltà del povero pellegrino. La paura d’essere inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio in pieno giorno, non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan questo molto più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s’era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò 386
che rendeva ogni cosa più grave, quell’andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.
Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffer-mava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l’aria, lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle, il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di picchiare, e di chieder ricovero. E forse, anche senza i cani, non ci si sarebbe risolto. “Chi è là? – pensava: – cosa volete a quest’ora? Come siete venuto qui?
Fatevi conoscere. Non c’è osterie da alloggiare? Ecco, andandomi bene, quel che mi diranno, se picchio: quand’anche non ci dorma qualche pauroso che, a buon conto, si metta a gridare: aiuto! al ladro! Bisogna aver subito qualcosa di chiaro da rispondere: e cosa ho da rispondere io? Chi sente un rumore la notte, non gli viene in testa altro che ladri, malviventi, trappole: non si pensa mai che un galantuomo possa trovarsi in istrada di notte, se non è un cavaliere in carrozza”. Allora serbava 387
quel partito all’estrema necessità, e tirava innanzi, con la speranza di scoprire almeno l’Adda, se non passarla, in quella notte; e di non dover andarne alla cerca, di giorno chiaro.
Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope.
Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argo-mento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più né un gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle no-velle sentite raccontar da bambino, così, per discacciar-le, o per acquietarle, recitava, camminando, dell’orazioni per i morti.
A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inol-trarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’an-388
noiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tre-molava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che duras-sero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza nottur-na batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse.
Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’
piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non 389
esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore.
Arrivò in pochi momenti all’estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un po’ sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse batter de’ remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa di meno dell’Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che l’Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza.
Perciò si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere. Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l’aurora, per forse sei ore che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così, c’era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già avevano fatto più del loro dovere.
Gli venne in mente d’aver veduto, in uno de’ campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini del milanese usan, l’estate, depo-390
sitar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto, senza chiave né catenaccio; Renzo l’aprì, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamac; ma non si curò di salirvi. Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe ben saporita.
Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi s’inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l’assistenza che aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d’essere andato a dormire come un cane, e peggio. “E
per questo, – soggiunse poi tra sé; appoggiando le mani sulla paglia, e d’inginocchioni mettendosi a giacere: –
per questo, m’è toccata, la mattina, quella bella svegliata”. Raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all’intorno, e se l’accomodò addosso, facendosene, alla meglio, una specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l’intenzione di dormire un bel sonno, parendogli d’averlo comprato anche più caro del dovere.
Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, 391
così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.
Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare sopra di esse il pensiero, era tutt’altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate, sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe intemperanza, del bel caso che aveva fatto de’ paterni consigli di lui; e contemplando l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come l’avrebbe potuta dimenticare?
Quell’Agnese, che l’aveva scelto, che l’aveva già considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever da lui il titolo di madre, n’aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata co’ fatti la premura.
Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene che voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga, incerta dell’avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte, povero Renzo! Quella che doveva 392
esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie di giorni! “Quel che Dio vuole, – rispondeva ai pensieri che gli davan più noia: –
quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi.
Vada tutto in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!”
Tra questi pensieri, e disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’era costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico misurava, perché, ogni mezz’ora, sentiva in quel vasto silenzio, rimbomba-re i tocchi d’un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta.
Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva che facesse da sé, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se c’era 393
nessuno. E non vedendo nessuno, cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito, e prese per quello.
Il cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d’un bigio ceruleo, che, giù giù verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù, all’orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s’andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse trovato lì andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammira-to quell’albeggiare così diverso da quello ch’era solito vedere ne’ suoi monti; ma badava alla sua strada, e camminava a passi lunghi, per riscaldarsi, e per arrivar presto. Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco, guardando in qua e in là, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con l’intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza, ma, senza avvedersene, in una manie-394
ra mezzo supplichevole, gli accenna che approdi. Il pescatore gira uno sguardo lungo la riva, guarda attentamente lungo l’acqua che viene, si volta a guardare indietro, lungo l’acqua che va, e poi dirizza la prora verso Renzo, e approda. Renzo che stava sull’orlo della riva, quasi con un piede nell’acqua, afferra la punta del battello, ci salta dentro, e dice: – mi fareste il servizio, col pagare, di tragittarmi di là? – Il pescatore l’aveva indovinato, e già voltava da quella parte. Renzo, vedendo sul fondo della barca un altro remo, si china, e l’afferra.
– Adagio, adagio, – disse il padrone; ma nel veder poi con che garbo il giovine aveva preso lo strumento, e si disponeva a maneggiarlo, – ah, ah, – riprese: – siete del mestiere.
– Un pochino, – rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con una maestria, più che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un’occhiata ombrosa alla riva da cui s’allontanavano, e poi una impaziente a quella dov’eran rivolti, e si coceva di non poterci andar per la più corta; ché la corrente era, in quel luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell’acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come accade in tutti gli affari un po’ imbrogliati, che le difficoltà alla prima si presentino all’ingrosso, e nell’eseguire poi, vengan fuori per minuto, Renzo, ora che l’Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell’ostacolo, gliene rimanesse un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accen-395
nando col capo quella macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva ben più distinta, disse: – è Bergamo, quel paese?
– La città di Bergamo, – rispose il pescatore.
– E quella riva lì, è bergamasca?
– Terra di san Marco.
– Viva san Marco! – esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.
Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sé, e poi con la bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il quale, data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di sotto, stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per di più ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un’occhiata espressiva; e disse poi: – buon viaggio –
, e tornò indietro.
Perché la così pronta e discreta cortesia di costui verso uno sconosciuto non faccia troppo maravigliare il lettore, dobbiamo informarlo che quell’uomo, pregato spesso d’un simile servizio da contrabbandieri e da banditi, era avvezzo a farlo; non tanto per amore del poco e incerto guadagno che gliene poteva venire, quanto per non farsi de’ nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni volta che potesse esser sicuro che non lo vedessero né gabellieri, né birri, né esploratori. Così, senza voler più bene ai primi che ai secondi, cercava di soddisfarli tutti, con quell’imparzialità, che è la dote ordinaria di chi 396
è obbligato a trattar con cert’uni, e soggetto a render conto a cert’altri.
Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. “Ah! ne son proprio fuori! – fu il suo primo pensiero. – Sta’ lì, maledetto paese”, fu il secondo, l’addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull’acqua che gli scorreva a’ piedi, e pensò “è passata sotto il ponte!”
Così, all’uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. “Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole”.
Voltò le spalle a que’ tristi oggetti, e s’incamminò, prendendo per punto di mira la macchia biancastra sul pendìo del monte, finché trovasse qualcheduno da farsi insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s’accostava a’ viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia da fare.
Quel viaggio non fu lieto. Senza parlare de’ guai che Renzo portava con sé, il suo occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da’ quali dovette accorgersi che troverebbe nel paese in cui s’inoltrava, la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne’ borghi, incontrava a ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, 397
montanari, artigiani, famiglie intere; e un misto ronzìo di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero de’ casi suoi.
“Chi sa, – andava meditando, – se trovo da far bene?
se c’è lavoro, come negli anni passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari, m’ha invitato tante volte; non m’abbandonerà. E poi, la Provvidenza m’ha aiutato finora; m’aiuterà anche per l’avvenire”.
Intanto l’appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo di miglio in miglio; e quantunque Renzo, quando cominciò a dargli retta, sentisse di poter reggere, senza grand’incomodo, per quelle due o tre che gli potevan rimanere; pensò, da un’altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al cugino, come un pitocco, e dirgli, per primo complimento: dammi da mangiare. Si levò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrere sur una mano, tirò la somma. Non era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però c’era ab-bondantemente da fare una mangiatina. Entrò in un’osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’in-ciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e l’altra mammel-la, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle 398
membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio.
Tutt’e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?
– La c’è la Provvidenza! – disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que’ pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada.
La refezione e l’opera buona (giacché siam composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perché, se a sostenere in quel giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch’io l’abbia saputo esprimere. Nel rimanente della strada, ripensando a’ casi suoi, tutto gli si spianava. La carestia doveva poi finire: tutti gli anni si miete: intanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: aveva, per di più, a casa un po’ di danaro, che si farebbe mandar subito. Con quello, alla peggio, campe-rebbe, giorno per giorno, finché tornasse l’abbondanza.
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“Ecco poi tornata finalmente l’abbondanza, – proseguiva Renzo nella sua fantasia: – rinasce la furia de’ lavori: i padroni fanno a gara per aver degli operai milanesi, che son quelli che sanno bene il mestiere; gli operai milanesi alzan la cresta; chi vuol gente abile, bisogna che la paghi; si guadagna da vivere per più d’uno, e da metter qualcosa da parte; e si fa scrivere alle donne che vengano… E poi, perché aspettar tanto? Non è vero che, con quel poco che abbiamo in serbo, si sarebbe campati là, anche quest’inverno? Così camperemo qui. De’ curati ce n’è per tutto. Vengono quelle due care donne: si mette su casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme! andar fino all’Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva, e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c’era un battello”.
Arriva al paese del cugino; nell’entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio, entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell’acqua cadente e delle rote, se stia lì un certo Bortolo Castagneri.
– Il signor Bortolo! Eccolo là.
“Signore? buon segno”, pensa Renzo; vede il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli dice: – son qui –. Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli ordigni, e dagli occhi de’ cu-400
riosi, in un’altra stanza, e gli dice: – ti vedo volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T’avevo invitato tante volte; non sei mai voluto venire; ora arrivi in un momento un po’ critico.
– Se te lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà, disse Renzo; e, con la più gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia.
– È un altro par di maniche, – disse Bortolo. – Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me; e io non t’abbandonerò. Veramente, ora non c’è ricerca d’operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum.
Povera Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia… Mi par di vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il muro…
– No, no; non ne parliamo.
– Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al mio tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che vedo: fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui si patisce un po’ la fame… A proposito, come stai d’appetito?
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– Ho mangiato poco fa, per viaggio.
– E a danari, come stiamo?
Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un piccol soffio.
– Non importa, – disse Bortolo: – n’ho io: e non ci pensare, che, presto presto, cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n’avanzerà anche per te.
– Ho qualcosina a casa; e me li farò mandare.
– Va bene; e intanto fa’ conto di me. Dio m’ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo a’ parenti e agli amici, a chi ne farò?
– L’ho detto io della Provvidenza! – esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino.
– Dunque, – riprese questo, – in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La città ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile.
Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano. Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s’è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo 402
che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s’è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà buona accoglienza. Un buon bergamascone all’antica, un uomo di cuor largo. Veramente, ora non t’aspettava; ma quando sentirà la storia… E poi gli operai sa tenerli di conto, perché la carestia passa, e il negozio dura.
Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?
– Come ci chiamano?
– Ci chiaman baggiani.
– Non è un bel nome.
– Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.
– Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.
– Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui.
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Bisognerebbe esser sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima!
– E un milanese che abbia un po’ di… – e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. – Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?
– Tutt’uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici?
“Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato”.
L’è usanza così.
– L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti?
– Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c’è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos’è poi finalmente?
Era ben un’altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.
– Già, è vero: se non c’è altro di male…
– Ora che sei persuaso di questo, tutto anderà bene.
Vieni dal padrone, e coraggio.
Tutto in fatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo, che crediamo inutile di farne particolar relazione. E fu veramente provvidenza; perché la 404
roba e i quattrini che Renzo aveva lasciati in casa, vedremo or ora quanto fosse da farci assegnamento.
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CAPITOLO XVIII
Quello stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e gli presenta un di-spaccio del signor capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizio-ne, per iscoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l’appunto, verum in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit, d’averlo nelle mani, e, legato a dovere, vi-delizet con buone manette, attesa l’esperimentata insuffi-cienza de’ manichini per il nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complici-bus sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa chiamare il con-406
sole del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non c’è, o non si lascia trovare. Si sfonda l’uscio; si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. La voce di quella spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d’un fatto così inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l’uno con l’altro, che è una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tant’è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria cognizione de’ fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Ma noi, co’ fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non aveva avuto parte nella 407
sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse opera sua, e ne trionfò co’ suoi fidati, e principalmente col conte Attilio. Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’
tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga durata: l’ordine venuto da Milano dell’esecuzione da farsi contro Renzo era già un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso tempo, se n’ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persister nell’impresa, a spuntar l’impegno, e promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal frate; al qual affare, il fortunato accidente dell’abiet-to rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che di sue avventure, e 408
dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere come fosse fatto.
Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendé più cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l’arrabbiato frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que’ vantaggi, li rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar né via né verso d’espugnar-lo, né con la forza, né per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro 409
compagnia, nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa.
Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, – e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d’un colpo fallito?
dove, nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l’odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso d’ogni mascalzone, anche in mezzo agl’inchini, si potrebbe leggere un amaro: l’hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni in-toppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e fati-cosa, benché vada all’ingiù.
A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non poteva andare avanti da sé, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed 410
era di chieder l’aiuto d’un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Ma questo partito aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolar prima; giacché nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell’uomo, potente ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l’uno e l’altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che, una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d’Attilio che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonatu-re, fecero inclinar sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l’ultima spinta, fu la notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando dall’ultimo.
Le due povere donne s’erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva te-411
nere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui, notizie di lì, e ne faceva parte all’ospiti.
– Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl’impiccheranno, parte davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c’è la casa del vicario di provvisione… Ehi, ehi, sentite questa! n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete.
Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: – è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete?
A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese; la quale, conturbata anche lei, però non tanto, poté star forte; e, per risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile; perché era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di certo, e dove.
– Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere 412
che l’accalappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l’unghie, il vostro giovine posato…
Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n’andò: figuratevi come rimanessero la madre e la figlia.
Più d’un giorno, dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come, sul perché, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sé, o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.
Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d’Agnese. Era un pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l’aveva pregato che, passando per Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccoman-dasse loro d’aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l’occasione di poterle aiutare; e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch’erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che s’era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d’allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c’era me-413
scolato un ringraziamento.
Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacen-dosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contrac-cambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni di prudenza. Era perché alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’e-ra tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non 414
le paresse sfacciata: l’amore!
Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: “a questa fo del bene”. Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!
Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co’ saluti del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive intorno a’
suoi guai, nessuna; perché, come abbiam detto al lettore, il cappuccino aveva sperato d’averle dal suo confratello di Milano, a cui l’aveva raccomandato; e questo rispose di non aver veduto né la persona, né la lettera; che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una privazione d’un conforto deside-415
rato e sperato, ma, come accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d’inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d’allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere l’ambasciatore promesso, la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell’asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a’ suoi monti. Lo trovò in fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar presto; e partì.
Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposa-rono parte della notte in un’osteria, secondo il solito; ri-partirono innanzi giorno; e arrivaron di buon’ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacché era lì, volle, prima d’andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.
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– Oh! la mia donna, che vento v’ha portata?
– Vengo a cercare il padre Cristoforo.
– Il padre Cristoforo? Non c’è.
– Oh! starà molto a tornare?
– Ma…? – disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa rasa.
– Dov’è andato?
– A Rimini.
– A?
– A Rimini.
– Dov’è questo paese?
– Eh eh eh! – rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una gran distanza.
– Oh povera me! Ma perché è andato via così all’improvviso?
– Perché ha voluto così il padre provinciale.
– E perché mandarlo via? che faceva tanto bene qui?
Oh Signore!
– Se i superiori dovessero render conto degli ordini che dànno, dove sarebbe l’ubbidienza, la mia donna?
– Sì; ma questa è la mia rovina.
– Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d’un buon predicatore (ce n’abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell’uomo fatto apposta); il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev’esser proprio così, vedete.
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– Oh poveri noi! Quand’è partito?
– Ierlaltro.
– Ecco! s’io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?
– Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perché non predica sempre a braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pul-piti delle città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da… da che so io? E
allora, bisogna mandarlo; perché noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.
– Oh Signore! Signore! – esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: – come devo fare, senza quell’uomo?
Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.
– Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce n’abbiamo degli altri, sapete?
pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co’ signori e co’ poveri. Volete il padre Atanasio?
volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così min-418
gherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?
– Oh per carità! – esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d’impazienza, che si prova a un’esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la propria convenienza: – cosa m’importa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover’uomo che non c’è più, era quello che sapeva le nostre cose, e aveva preparato tutto per aiutarci?
– Allora, bisogna aver pazienza.
– Questo lo so, – rispose Agnese: – scusate dell’incomodo.
– Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar qualcheduno de’ nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio.
– State bene, – disse Agnese; e s’incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.
Un po’ meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporaneamente il governo). Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi 419
godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamen-te aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gi-gante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.
Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: – credo di fare il mio 420
dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio d’un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze…
– Qualcheduna delle sue, m’immagino.
– Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa…
– Vediamo, vediamo.
– C’è da quelle parti un frate cappuccino che l’ha con Rodrigo e la cosa è arrivata a un punto che…
– Quante volte v’ho detto, all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che dànno a chi deve… a chi tocca… – E qui soffiò. –
Ma voi altri che potete scansarli…
– Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l’avrebbe scansato, se avesse potuto. È il frate che l’ha con lui, che l’ha preso a provocarlo in tutte la maniere…
– Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?
– Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri.
Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità… non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, per-malosa.
– Intendo, – disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di 421
malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.
– Ora, da qualche tempo, – continuò Attilio, – s’è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa…
– S’è cacciato in testa, s’è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie.
– Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trat-tenerne il signore zio; il serio è che il frate s’è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli contro tutto il paese…
– E gli altri frati?
– Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall’altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e…
– M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
– Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
– Come? Come?
– Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorità come vossignoria: e che lui se la ride de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che…
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– Oh frate temerario! Come si chiama costui?
– Fra Cristoforo da *** – disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: – è sempre stato di quell’umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate.
– Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, – diceva il conte zio, seguitando a soffiare.
– Ora poi, – continuava Attilio, – è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m’intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il… l’uomo: un’altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto.
– Chi è costui?
– Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che…
– Lorenzo Tramaglino! – esclamò il conte zio. – Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro… infatti…, aveva una lettera per un… Peccato che… Ma non importa; va bene. E
perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto 423
questo? perché lascia andar le cose tant’avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere?
– Dirò il vero anche in questo, – proseguiva Attilio. –
Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio… – (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) – s’è fatto scrupolo di darle una briga di più. E
poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de’ gangheri, così stucco delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in qualche maniera sommaria, che d’ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d’avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa…
– Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.
– È vero; ma io andavo sperando che la cosa svani-rebbe da sé, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n’anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma…
– Ora toccherà a me a raccomodarla.
– Così ho pensato anch’io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l’onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l’ha sempre col cordone di san Francesco; ma per ado-prarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è 424
necessario d’averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch’io non conosco: so che il padre provinciale ha, com’è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole…
– Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, – disse un po’ ruvidamente il conte zio.
– Ah è vero! – esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di compassione per sé stesso. – Son io l’uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d’aver fatto un altro male, –
soggiunse con un’aria pensierosa: – ho paura d’aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi da-rei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio…
– Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finché l’uno non metta giudizio.
Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che… mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che, – e qui im-maginatevi che soffio mise, – tutti questi benedetti affari di stato.
Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n’andò, accompagnato da un – e abbiamo giudizio, – ch’era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.
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CAPITOLO XIX
Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall’insinuazione d’Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall’altra parte, il ripiego era talmente adattato all’umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l’avrebbe trovato da sé. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sé, sarebbe stata un rimedio peggior del 426
male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand’anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’al-lontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello.
Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sper-ticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino.
Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una 427
certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ri-dotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto distinto; dell’Escu-riale di cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi.
Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a 428
sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: –
stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero… E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?
Il provinciale fece cenno di sì.
– Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico… questo soggetto… questo padre… Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo… Ma in tutte le famiglie un po’ numerose… c’è sempre qualche individuo, qualche testa… E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo… un po’ amico de’ contrasti… che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi… Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.
“Ho inteso: è un impegno, – pensava intanto il provinciale: – colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pul-429
pito, e non lasciarlo fermare sei mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna”.
– Oh! – disse poi: – mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso…
esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
– Intendo benissimo; vostra paternità deve… Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze… possibili: non dico di più.
Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo… vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose… cose… Lorenzo Tramaglino!
“Ahi!” pensò il provinciale; e disse: – questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli…
– Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie…! Son cose spinose, affari delicati… – E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: – ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se mai sua eccellenza… Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma… non so nien-430
te… e da Roma venirle…
– Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
– Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
– È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito…
– Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
– Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrasse-gni…
– Se lei sa positivamente, – disse il provinciale, – che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.
– Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho 431
detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe… Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
– Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
– Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato…
– Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare… tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato…
– Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rime-starle troppo… si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le… inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni… pur troppo eh, padre molto reverendo?…
Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pub-432
blico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, – tocca a noi, – continuò,
– a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro male-fatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon princi-piis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi…
potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava 433
fino dal principio del discorso. “Eh già! – pensava tra sé: – vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare”.
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, – intendo benissimo, – disse il provinciale, – quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo…
– È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di di-sordini, un’iliade di guai. Uno sproposito… mio nipote non crederei… ci son io, per questo… Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta… e allora non è più solamente mio nipote… Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo.
Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze…
– Cospicue.
– Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo… è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora… anche chi è amico della pace… Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere… di trovarmi… io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini…! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi… E poi, hanno de’ parenti al 434
secolo… e questi affaracci di puntiglio, per poco che va-dano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro…
mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro… Sua eccellenza… i miei signori colleghi… tutto diviene affar di corpo… tanto più con quell’altra circostanza… Lei sa come vanno queste cose.
– Veramente, – disse il padre provinciale, – il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero…
Mi si richiede appunto… Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro…
– No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sini-stri che potrebbero… mi sono spiegato.
– Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aiz-zatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano… Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso… L’onor dell’abito… non è cosa mia… è un deposito del quale… Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e… non dico vantarsene, trionfarne, ma…
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– Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato… secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere.
Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare –. E soffiò. – In quanto ai cicaloni, – riprese, –
che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo… noi che prevediamo… noi che ci tocca… non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
– Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo… non per noi, ma per l’abito…
– Sicuro, sicuro; quest’è giusto… Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso… qualcosa di straordinario… è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote… Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un im-piastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana… per levar proprio ogni 436
occasione…
– Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi…
– Molto a proposito, molto a proposito. E quando…?
– Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
– Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, – continuava poi, alzandosi da sedere, –
se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini…
– Conosciamo per prova la bontà della casa, – disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
– Abbiamo spento una favilla, – disse questo, soffer-mandosi, – una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.
Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.
Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano. C’è dentro l’obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove 437
predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d’affari che potesse avere avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il frate latore dev’essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sé: “oh Dio! cosa faranno que’ meschini, quando io non sarò più qui!” Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d’ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono, s’allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da’ suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta.
Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui 438
non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’
fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bru-ciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama “un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita”, e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. “Riferirò”, dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, “il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assi-curandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse…” Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti.
Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti 439
averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’at-traversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. “Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, 440
lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore”.
Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti,
“in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste”.
Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico sum-mentovato parla con una brevità misteriosa. “Anche alcuni principi esteri, – dice, – si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servis-se sotto i suoi ordini”.
Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto.
“Quella casa – cito ancora il Ripamonti, – era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate”. Oltre questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.
Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, 441
avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’
fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado.
Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né pri-442
vata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ no-443
stri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.
Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno tra-boccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per 444
una relazione indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità: giacché chi ha l’assunto di provvedere, e non n’ha la volontà, o non ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo segno, a’
casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s’avviò al castello dell’innominato.
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CAPITOLO XX
Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torren-taccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ci-glioni.
Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.
Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si 446
spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tra-giche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di sco-prirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggian-te; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.
Al rumore d’una cavalcatura che s’avvicinava, com-447
parve sulla soglia un ragazzaccio, armato come un sara-cino; e data un’occhiata, entrò ad informare tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di tegoli. Colui che pareva il capo s’alzò, s’affacciò all’uscio, e, riconosciuto un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d’un peso inutile, e salir più lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell’erta non era permesso d’andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso, dicendogli: – voi altri state ad aspettar-mi; e intanto starete un po’ allegri con questa brava gente –. Cavò finalmente alcuni scudi d’oro, e li mise in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo, cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero coi tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.
Un altro bravaccio dell’innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e s’accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quan-448
t’altri avrebbe incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto (lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane, e in ognuna delle quali c’era di guardia qualche bravo; e, dopo avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’innominato.
Questo gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse da lui, per quanto fosse de’ più vecchi e provati amici. Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo, né invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L’innominato che ne sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de’ tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise 449
poi a esagerare le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!… A questo, l’innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. Prese l’appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don Rodrigo, dicendo: – tra poco avrete da me l’avviso di quel che do-vrete fare.
Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato: perciò questo aveva lasciata correre così pronta-mente e risolutamente la sua parola. Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze.
Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. “Invecchiare! morire! e poi?” E, cosa notabile! l’im-450
magine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costerna-zione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio in-dividuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, 451
suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nascon-derla a se stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer se stesso ch’era ancor quello.
Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse Egidio dell’impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l’aspettasse, con la risposta d’Egidio: che l’impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carroz-452
za, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest’annunzio, l’innominato, comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla spedizione.
Se per rendere l’orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far conto de’ soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una promessa così decisa. Ma, in quell’asilo stesso dove pareva che tutto dovesse essere ostacolo, l’atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui.
Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che un primo passo in una strada d’abbominazione e di sangue. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell’innocente che aveva in custodia.
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione.
La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se 453
non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il giorno stabilito; l’ora convenuta s’avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell’ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima.
– Ho bisogno d’un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a’ miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand’importanza, che vi dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de’ cappuccini che v’ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche necessario che nessuno sappia che l’ho mandato a chiamare io. Non ho che voi per far segretamente quest’imbasciata.
Lucia fu atterrita d’una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto… Ma Gertrude, ammaestra-ta a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro, quattro pas-454
si, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che, quand’anche non l’avesse mai veduta, a insegnar-gliela, non la poteva sbagliare!… Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: – e bene; cosa devo fare?
– Andate al convento de’ cappuccini: – e le descrisse la strada di nuovo: – fate chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
– Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m’ha mai vista uscire, e mi domanderà dove vo?
– Cercate di passare senz’esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l’anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: –
e bene; anderò. Dio m’aiuti! – E si mosse.
Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: – sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia 455
la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: – fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto –. Lucia partì.
Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l’indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n’uscì, andò tutta raccolta e un po’ tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt’ora, affondata, a guisa d’un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que’ due, che diceva: – ecco una buona giovine che c’insegnerà la strada –. Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse: – quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
– Andando di lì, vanno a rovescio, – rispondeva la poverina: – Monza è di qua… – e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si di-456
vincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In tanto il Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera. L’altro che le aveva fatta quella domanda tradi-tora, rimasto nella strada, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c’era nessuno; saltò sur una riva, attaccando-si a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno sgherro d’Egidio; era stato, facendo l’indiano, sulla porta del suo padrone, per veder quando Lucia usciva dal monastero; l’aveva osservata bene, per poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto convenuto.
Chi potrà ora descrivere il terrore, l’angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalan-cava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di que’ visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza; quattro altre manacce ve l’appuntellava-no. Ogni volta che aprisse la bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre bocche d’inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan ripetendo: – zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male –. Dopo qualche momento d’una lotta così angosciosa, parve che s’acquietas-457
se; allentò le braccia, lasciò cader la testa all’indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l’occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mo-struoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s’abbandonò, e svenne.
– Su, su, coraggio, – diceva il Nibbio. – Coraggio, coraggio, – ripetevan gli altri due birboni; ma lo smarri-mento d’ogni senso preservava in quel momento Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
– Diavolo! par morta, – disse uno di coloro: – se fosse morta davvero?
– Oh! morta! – disse l’altro: – è uno di quegli sveni-menti che vengono alle donne. Io so che, quando ho voluto mandare all’altro mondo qualcheduno, uomo o donna che fosse, c’è voluto altro.
– Via! – disse il Nibbio: – attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro. Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; che in questo bosco dove s’entra ora, c’è sempre de’ birboni annidati. Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s’era inoltrata nel bosco.
Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a ri-458
sentirsi, come da un sonno profondo e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, – via, – le disse, più dolcemente che poté; –
state zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star noi.
– Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi condu-cete? Perché m’avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
– Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male.
Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
– No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
– Vi conosciamo noi.
– Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete voi? Perché m’avete presa?
– Perché c’è stato comandato.
– Chi? chi? chi ve lo può aver comandato?
– Zitta! – disse con un visaccio severo il Nibbio: – a noi non si fa di codeste domande.
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Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, – oh – diceva: – per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.
– Non possiamo.
– Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? …
– Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma 460

Solemn Manzoni JUN 2021

Opera Completa Promessi Sposi .IT
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutte a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendio lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute.Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, nè il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, nè a questo luogo nè altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi.Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi…. i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno…. ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante…. per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri…. A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi…. tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, nè scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive:Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorchè non si verifichi aver fatto delitto alcuno…. per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo…. et ancorchè non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perchè Sua Eccellenza è risoluta di voler essere obbedita da ognuno.Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente…. (pag. 11).All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, nè meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno…. i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell’anno 1598, informato, con non poco dispiacere dell’animo suo, che… ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), nè di loro, giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d’essere aiutati dai capi e fautori loro,…. prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perchè, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua…. essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione.Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda…. e risoluto di totalmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacchè, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d’una città; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo, etc. Governatore, etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perchè la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc. Governatore, etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s’era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.Nè fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c’era de’ bravi tuttavia.Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perchè, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sè stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorchè i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perchè i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che potè, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. «Signor curato,» disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in faccia.«Cosa comanda?» rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggio.«Lei ha intenzione,» proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, «lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!»«Cioè….» rispose, con voce tremolante, don Abbondio: «cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c’entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi…. e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere: e noi…. noi siamo i servitori del comune.»«Or bene,» gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, «questo matrimonio non s’ha da fare, nè domani, nè mai.»«Ma, signori miei,» replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuoi persuadere un impaziente, «ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca….»«Orsù,» interruppe il bravo, «se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, nè vogliam saperne di più. Uomo avvertito…. lei c’intende.»«Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli….»«Ma,» interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, «ma il matrimonio non si farà o….» e qui una buona bestemmia, «o chi lo farà non se ne pentirà, perchè non ne avrà tempo, e….» un’altra bestemmia.«Zitto, zitto,» riprese il primo oratore, «il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purchè abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.»Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand’inchino, e disse: «se mi sapessero suggerire….»«Oh! suggerire a lei che sa di latino!» interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. «A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti…. ehm…. sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?»«Il mio rispetto….»«Si spieghi meglio!»«….Disposto…. disposto sempre all’ubbidienza.» E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio.«Benissimo, e buona notte, messere,» disse l’un d’essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. «Signori….» cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere.Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze, e l’astuzia di questi. L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perchè, col fine d’aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz’altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l’interesse d’una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch’eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall’offenderle, per amor d’un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell’esecuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l’incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettar la vita in un’impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c’era pericolo; nell’opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa.L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegar per sè, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perchè non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’ intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gran burrasche.Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’ di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perchè la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattrocchi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sè, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri.Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.—Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli…. ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come…. Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi? Perchè non son andati piuttosto a parlare…. Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro ambasciata….—Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de’ suoi pensieri contro quell’altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, nè aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d’un’occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento, gli diede in cuor suo tutti que’ titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: «Perpetua! Perpetua!», avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolío e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.«Vengo,» rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.«Misericordia! cos’ha, signor padrone?»«Niente, niente,» rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.«Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.»«Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.»«Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?…»«Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.»«E lei mi vorrà sostenere che non ha niente!» disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.«Date qui, date qui,» disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.«Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone?» disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.«Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va…. ne va la vita!»«La vita!»«La vita.»«Lei sa bene, che ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai….»«Brava! come quando….»Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, «signor padrone,» disse, con voce commossa e da commovere, «io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perchè vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo….»Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo: onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: «per amor del cielo!»«Delle sue!» esclamò Perpetua. «Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!»«Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?»«Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?»«Oh vedete,» disse don Abbondio, con voce stizzosa: «vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.»«Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi….»«Ma poi, sentiamo.»«Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente….»«Volete tacere? volete tacere? Son pareri cedesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?»«Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perchè lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a….»«Volete tacere?»«Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le….»«Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?»«Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sè, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.»«Ci penserò io,» rispose, brontolando, don Abbondio: «sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare.» E s’alzò, continuando: «non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.»«Mandi almen giù quest’altro gocciolo,» disse Perpetua, mescendo. «Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.»«Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro.»Così dicendo, prese il lume, e, brontolando sempre: «una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà?» e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: «per amor del cielo!» e disparve.CAPITOLO II.Si racconta che il principe di Condé dormi profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, nè delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo…. Dio liberi! «Non si lasci scappar parola…. altrimenti…. ehm!» aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze;—e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose.—Ruminò pretesti da metter in campo; e, benchè gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanotto ignorante.—Vedremo,—diceva tra sè:—egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo.—Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate.Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo di bravería, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.—Che abbia qualche pensiero per la testa,—argomentò Renzo tra sè, poi disse: «son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.»«Di che giorno volete parlare?»«Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?»«Oggi?» replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, oggi…. abbiate pazienza, ma oggi non posso.»«Oggi non può! Cos’è nato?»«Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.»«Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica….»«E poi, e poi, e poi….»«E poi che cosa?»«E poi c’è degli imbrogli.»«Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?»«Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.»«Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa c’è.»«Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?»«Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa,» disse Renzo, cominciando ad alterarsi, «poichè me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?»«Tutto, tutto, pare a voi: perchè, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora…. basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovine; e i superiori…. basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.»«Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.»«Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?»«Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?»«Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,…»cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.«Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?»«Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.»«Orsù!…»«Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare…. tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!… quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi….»«Che discorsi son questi, signor mio?» proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato.«Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.»Renzo (pag. 22).«In somma….»«In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.»«Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?»«Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet….»«Le ho detto che non voglio latino.»«Ma bisogna pur che vi spieghi….»«Ma non le ha già fatte queste ricerche?»«Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.»«Perchè non le ha fatte a tempo? perchè dirmi che tutto era finito? perchè aspettare….»«Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma…. ma ora mi son venute…. basta, so io.»«E che vorrebbe ch’io facessi?»«Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.»«Per quanto?»—Siamo a buon porto,—pensò tra sè don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, «via,» disse: «in quindici giorni cercherò,… procurerò….»«Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici….» riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: «via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana….»«E a Lucia che devo dire?»«Ch’è stato un mio sbaglio.»«E i discorsi del mondo?»«Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.»«E poi, non ci sarà più altri impedimenti?»«Quando vi dico….»«Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.» E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente.Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L’accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.«Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.»«Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.»«Fatemi un piacere: quel benedett’uomo del signor curato m’ha impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perchè non può o non vuole maritarci oggi.»«Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?»—L’ho detto io, che c’era mistero sotto,—pensò Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: «via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.»«Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.»«È vero,» riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, «è vero,» soggiunse, «ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?»«Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perchè…. non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, nè a voi nè a nessuno; e lui non ci ha colpa.»«Chi è dunque che ci ha colpa?» domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta.«Quando vi dico che non so niente…. In difesa del mio padrone, posso parlare; perchè mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio….»—Prepotenti! birboni!—pensò Renzo:—questi non sono i superiori. «Via,» disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, «via, ditemi chi è.»«Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perchè…. non so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due.» Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.«Eh! eh! che novità è questa?» disse don Abbondio.«Chi è quel prepotente,» disse Renzo, con la voce d’un uomo ch’è risoluto d’ottenere una risposta precisa, «chi è quel prepotente che non vuol ch’io sposi Lucia?»«Che? che? che?» balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca.«Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch’io. Come si chiama colui?»«Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’anima vostra.»«Penso che lo voglio saper subito, sul momento.» E, così dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.«Misericordia!» esclamò con voce fioca don Abbondio.«Lo voglio sapere.»«Chi v’ha detto….»«No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.»«Mi volete morto?»«Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.»«Ma se parlo, son morto. Non m’ha da premere la mia vita?»«Dunque parli.»Quel «dunque» fu proferito con una tale energia, l’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non potè più nemmen supporre la possibilità di disubbidire.«Mi promettete, mi giurate,» disse «di non parlarne con nessuno, di non dir mai…?»«Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di colui.»A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca le tenaglie del cavadenti, proferì: «don….»«Don?» ripetè Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all’indietro.«Don Rodrigo!» pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perchè, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori.«Ah cane!» urlò Renzo. «E come ha fatto? Cosa le ha detto per…?»«Come eh? come?» rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. «Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c’entro per nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo.» E qui si fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere, accorgendosi sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò allegramente: «avete fatta una bella azione! M’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste…! Per amor del ciclo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere…. eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.»«Posso aver fallato,» rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: «posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso….»Così dicendo, s’era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, «giurate almeno….» gli disse.«Posso aver fallato; e mi scusi,» rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.«Giurate….» replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante.«Posso aver fallato,» ripetè Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacchè ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.«Perpetua! Perpetua!» gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse.È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perchè gli si offerse da sè. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: «Perpetua!» La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i «voi sola potete aver parlato,» e i «non ho parlato,» tutti i pasticci insomma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, «son servito;» e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e…. ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto…. egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo.—E Lucia?—Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzío che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: «lo sposo! lo sposo!»«Zitta, Bettina, zitta!» disse Renzo. «Vien qua; va su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio…. ma che nessun senta, nè sospetti di nulla, ve’…. dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito.» La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una commission segreta da eseguire.Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perchè si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio.«Vo un momento, e torno,» disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, «cosa c’è?» disse, non senza un presentimento di terrore.«Lucia!» rispose Renzo, «per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie.»«Che?» disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, «ah!» esclamò, arrossendo e tremando, «fino a questo segno!»Lucia (pag. 32).«Dunque voi sapevate…?» disse Renzo.«Pur troppo!» rispose Lucia; «ma a questo segno!»«Che cosa sapevate?»«Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.»Mentre ella partiva, Renzo susurrò: «non m’avete mai detto niente.»«Ah, Renzo!» rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate, e, accomodando l’aspetto e la voce, come potè meglio, disse: «il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla.» Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.«Un febbrone,» rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi.CAPITOLO III.Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt’e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva essere che doloroso: tutt’e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l’amore diverso che ognun d’essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perchè avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benchè ansiosa di sentir parlare la figlia, non potè tenersi di non farle un rimprovero. «A tua madre non dir niente d’una cosa simile!»«Ora vi dirò tutto,» rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.«Parla, parla!—Parlate, parlate!» gridarono a un tratto la madre e lo sposo.«Santissima Vergine!» esclamò Lucia: «chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno!» E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d’un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. «Per grazia del cielo,» continuò Lucia, «quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito….»«A chi hai raccontato?» domandò Agnese, andando incontro, non senza un po’ di sdegno, al nome del confidente preferito.«Al padre Cristoforo, in confessione, mamma,» rispose Lucia, con un accento soave di scusa. «Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perchè, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura….»Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. «Hai fatto bene,» disse, «ma perchè non raccontar tutto anche a tua madre?»Lucia aveva avute due buone ragioni: l’una, di non contristare nè spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.«E a voi,» disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: «e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!»«E che t’ha detto il padre?» domandò Agnese.«M’ha detto che cercassi d’affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai,» proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e arrossendo tutta, «fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo…. e questa mattina, ero tanto lontana da pensare….» Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.«Ah birbone! ah dannato! ah assassino!» gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.«Oh che imbroglio, per amor di Dio!» esclamava Agnese. Il giovine si fermò d’improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: «questa è l’ultima che fa quell’assassino.»«Ah! no, Renzo, per amor del cielo!» gridò Lucia. «No, no, per amor del cielo! Il Signore c’è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?»«No, no, per amor del cielo!» ripeteva Agnese.«Renzo,» disse Lucia, con un’aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: «voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi.»«Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora…!»Lucia si rimise a piangere: e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti.«Sentite, figliuoli; date retta a me,» disse, dopo qualche momento, Agnese. «Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perchè non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato…. so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli…. Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor…. Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.»«Lo conosco di vista,» disse Renzo.«Bene,» continuò Agnese: «quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli, (badate bene di non chiamarlo così!) l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perchè non bisogna mai andar con le mani vôte da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.»Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e v’andò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i discorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva, se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perchè voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: «date qui, e andate innanzi.» Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con un «venite, figliuolo,» e lo fece entrar con sè nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: «figliuolo, ditemi il vostro caso.»«Vorrei dirle una parola in confidenza.»«Son qui,» rispose il dottore: «parlate.» E s’accomodò sul seggiolone. Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girar con l’altra, ricominciò: «vorrei sapere da lei che ha studiato….»«Ditemi il fatto come sta,» interruppe il dottore.«Lei m’ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere….»«Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perchè avete già i vostri disegni in testa.»«Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perchè non faccia un matrimonio, c’è penale.»—Ho capito,—disse tra sè il dottore, che in verità non aveva capito.—Ho capito.—E subito si fece serio, ma d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. «Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e…. appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar con mano.»Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.«Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perchè è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco.» La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: «il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo?»«Un pochino, signor dottore.»«Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete.»E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno:«Se bene, per la grida pubblicata d’ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’Illustriss. et Eccellentiss. Signore il Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti tirannici che alcuni ardiscono di commettere contra questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l’Eccell. Sua, eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la presente.«E cominciando dagli atti tirannici, mostrando l’esperienza che molti, così nelle Città, come nelle Ville…. sentite? di questo Stato, con tirannide esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d’affitti…. eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?»«E il mio caso,» disse Renzo.«Sentite, sentite, c’è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell’altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l’uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh?»«Pare che abbian fatta la grida apposta per me.»«Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, e plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benchè siano proibite, nondimeno, convenendo metter mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte…. una piccola bagattella! all’arbitrio dell’Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo ir-re-mis-si-bil-men-te e con ogni rigore, eccetera. Ce n’è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.»Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover essere il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava.—Che sia matricolato costui,—pensava tra sè. «Ah! ah!» gli disse poi: «vi siete però fatto tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l’animo di fare, in un’occasione.»Per intender quest’uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel tempo, i bravi di mestiere; i facinorosi d’ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all’atto d’affrontar qualcheduno, ne’ casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l’impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et in caso d’inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all’arbitrio di Sua Eccellenza.Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere epura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti imposta.E parimente comanda a’ barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all’arbitrio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette trezze, zuffi, rizzi, nè capelli più lunghi dell’ordinario, così nella fronte come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell’armatura, e un distintivo de’ bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de’ nostri lettori milanesi, che non si rammenti d’aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto….«Ce n’è della roba, eh? E vedete le sottoscrizioni»…(pag. 39).«In verità, da povero figliuolo,» rispose Renzo, «io non ho mai portato ciuffo in vita mia.»«Non facciam niente,» rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. «Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli…. Purchè non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perchè, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio; serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: «oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io; e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.»«Diavolo!» esclamò il dottore, spalancando gli occhi. «Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?»«Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi,» e qui la voce di Renzo si commosse, «dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse…. basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo….»«Eh via!» interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, «eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.»«Le giuro….»«Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani.» E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. «Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.»«Ma senta, ma senta,» ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: «restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.»Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione.Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de’ grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d’aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l’opera sua, quando si trattasse di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch’era accaduto. «Sicuro,» disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la maniera; giacchè andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si senti un picchietto all’uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto: «Deo gratias.» Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l’imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.«Oh fra Galdino!» dissero le due donne.«Il Signore sia con voi,» disse il frate. «Vengo alla cerca delle noci.»«Va a prender le noci per i padri,» disse Agnese. Lucia s’alzò, e s’avviò all’altra stanza, ma, prima d’entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede alla madre un’occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità.Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: «e questo matrimonio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos’è stato?»«Il signor curato è ammalato, e bisogna differire,» rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. «E come va la cerca?» soggiunse poi, per mutar discorso.«Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui.» E, così dicendo, si levò la bisaccia d’addosso, e la fece saltar tra le due mani. «Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.»«Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s’ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto.»«E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna?»«No, in verità; raccontatemelo un poco.»«Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole.—Che fate voi a quella povera pianta? domandò il padre Macario.—Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna.—Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada,—padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento.—Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perchè andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede…. che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perchè, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perchè noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.»Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la bocca, per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’occhiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in auguri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s’avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: «vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di venir da noi poverette, subito subito; perchè non possiamo andar noi alla chiesa.»«Non volete altro? Non passerà un’ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio.»«Mi fido.»«Non dubitate.» E così detto, se n’andò, un po’ più curvo e più contento, di quel che fosse venuto.Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, nè troppo elevato. Servir gl’infimi, ed esser servito dai potenti, entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l’elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d’esser alle mani tra loro, gl’inzaccherassero la barba di fango. La parola «frate» veniva, in que’ tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d’ogni altr’ordine, eran oggetto de’ due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perchè, non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d’umiltà, s’esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da’ diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini.Partito fra Galdino, «tutte quelle noci!» esclamò Agnese: «in quest’anno!»«Mamma, perdonatemi,» rispose Lucia; «ma, se avessimo fatta un’elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente….»«Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto,» disse Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza.In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno.«Bel parere che m’avete dato!» disse ad Agnese. «M’avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli!» E raccontò il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione, annunziando che sperava d’aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impiccio. «Ma, se il padre,» disse, «non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell’altro.»Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. «Domani,» disse Lucia, «il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.»«Lo spero;» disse Renzo; «ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente.»Co’ dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a imbrunire.«Buona notte,» disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi d’andarsene.«Buona notte,» rispose Renzo, ancor più tristamente.«Qualche santo ci aiuterà,» replicò Lucia: «usate prudenza, e rassegnatevi.»La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: «a questo mondo c’è giustizia, finalmente!» Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.CAPITOLO IV.Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendii, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benchè non avesser nulla a sperar da lui, giacchè un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.—Ma perchè si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perchè, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo?—Bisogna soddisfare a tutte queste domande.Padre Cristoforo. (pag. 49).Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.Il padre Cristoforo non era sempre stato così, nè sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: «eh! io fo l’orecchio del mercante.» Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata: l’uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sè, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di cui allora si vergognava, l’aveva pure esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto.Lodovico aveva contratto abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, nè con l’educazione, nè con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perchè gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perchè, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse ancor capitato.Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacchè è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt’e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocchè, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra. Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse in un tono corrispondente di voce: «fate luogo.»«Fate luogo voi,» rispose Lodovico. «La diritta è mia.»«Co’ vostri pari, è sempre mia.»«Sì, se l’arroganza de’ vostri pari fosse legge per i pari miei.»I bravi dell’uno e dell’altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti.«Nel mezzo, vile meccanico; o ch’io t’insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini.»«Voi mentite ch’io sia vile.»«Tu menti ch’io abbia mentito.» Questa risposta era di prammatica. «E, se tu fossi cavaliere, come son io,» aggiunse quel signore, «ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.»«E un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole.»«Gettate nel fango questo ribaldo,» disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi.«Vediamo!» disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada.«Temerario!» gridò l’altro, sfoderando la sua: «io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue.»Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perchè Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sè, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte: e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.«Com’è andata?—È uno.—Son due.—Gli ha fatto un occhiello nel ventre.—Chi è stato ammazzato?—Quel prepotente.—Oh santa Maria, che sconquasso!—Chi cerca trova.—Una le paga tutte.—Ha finito anche lui.—Che colpo!—Vuol essere una faccenda seria.—E quell’altro disgraziato!—Misericordia! che spettacolo!—Salvatelo, salvatelo.—Sta fresco anche lui.—Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti.—Scappi, scappi. Non si lasci prendere.»Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto o portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: «è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli.»Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benchè l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l’impressione ch’egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, nè cosa si facesse; e, quando fu tornato in sè, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo, (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento) che accomodava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’infermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, «consolatevi» gli disse: «almeno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo.» Questa parola fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. «E l’altro?» domandò ansiosamente al frate.«L’altro era spirato, quand’io arrivai.»Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso.Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch’egli prendeva la famiglia sopra di sè. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati.La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il diritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si consideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia dell’ucciso, potente assai, e per sè, e per le sue aderenze, s’era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice soltanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’elemosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso.Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta, al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desiderio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto dolore.» Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’impiccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla paura, l’afflisse un momento; ma si consolò subito, col pensiero che anche quell’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo.Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia. «Permettetemi, padre,» disse, «che, prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelimente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo.» Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sè, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui senti, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, «venga domani,» disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sè:—sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandolo, questa è riparazione.—Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, nè veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a conciliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: «io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio.» Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorío di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato, «alzatevi,» disse, con voce alterata: «l’offesa…. il fatto veramente…. ma l’abito che portate…. non solo questo, ma anche per voi…. S’alzi, padre…. Mio fratello…. non lo posso negare…. era un cavaliere…. era un uomo…. un po’ impetuoso…. un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più…. Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura.» E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: «io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!»«Perdono?» disse il gentiluomo. «Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poichè lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti….»«Tutti! tutti!» gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.Un «bravo! bene!» scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: «padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia.» E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, «queste cose,» disse, «non fanno più per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perchè io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono.» Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. Invece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò invece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sè, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti:—diavolo d’un frate! (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole)—diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello.—La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano.Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene, assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e dell’umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo.Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che s’era imposti da sè: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, annunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loro energia primitiva.Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni.Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è arrivato, s’è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: «oh padre Cristoforo! sia benedetto!»CAPITOLO V.Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un’occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde, con quel tono d’interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto leggiero della testa all’indietro, disse: «ebbene?» Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse d’aver osato…. ma il frate s’avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a tre piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: «quietatevi, povera figliuola. E voi,» disse poi ad Agnese, «raccontatemi cosa c’è!» Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò: «o Dio benedetto! fino a quando…!» Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: «poverette!» disse: «Dio vi ha visitate. Povera Lucia!»«Non ci abbandonerà, padre?» disse questa, singhiozzando.«Abbandonarvi!» rispose. «E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch’Egli mi confida! Non vi perdete d’animo: Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io, per confondere un…. Vediamo, pensiamo quel che si possa fare.»Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e unite tutte le potenze dell’animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi.—Mettere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha d’una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand’anche questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?… E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l’amico del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d’una volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche dell’inquieto, dell’imbroglione, dell’accattabrighe; e, quelch’è più, potrei fors’anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa poveretta.—Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso sull’uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per comunicare alle donne il suo progetto, il frate s’accorse di lui, e lo salutò in un modo ch’esprimeva un’affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.«Le hanno detto…, padre?» gli domandò Renzo, con voce commossa.«Pur troppo; e per questo son qui.»«Che dice di quel birbone…?»«Che vuoi ch’io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t’abbandonerà.»«Benedette le sue parole!» esclamò il giovine. «Lei non è di quelli che dan sempre torto a’ poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause perse….»«Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel poco che posso, non v’abbandonerò.»«Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?… bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano….» A questo punto, alzando gli occhi al volto del padre, vide che s’era tutto rannuvolato, e s’accorse d’aver detto ciò che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s’andava intrigando e imbrogliando: «volevo dire…. non intendo dire…. cioè, volevo dire….»«Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l’opera mia, prima che fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu andavi in cerca d’amici…. quali amici!… che non t’avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l’amico de’ tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure….» A questo punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder d’autorità, s’atteggiò d’una compunzione solenne, gli occhi s’abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: «quando pure…. è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?… che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?»«Oh sì!» rispose Renzo. «Quello è il Signore davvero.»«Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti lascerai guidar da me.»«Lo prometto.»Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso d’addosso; e Agnese disse: «bravo figliuolo.»«Sentite, figliuoli,» riprese fra Cristoforo: «io anderò oggi a parlare a quell’uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete.» Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S’avviò al convento, arrivò a tempo d’andare in coro a cantar sesta, desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare.Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l’anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’ occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo…..se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. (pag. 65).Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne sur una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro.—Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d’esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore. Il padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de’ bravi s’alzò, e gli disse: «padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon’aria per me; e se mi avesser tenuta la porta chiusa, la sarebbe andata male.» Così dicendo, diede due picchi col martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand’inchino, acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l’ospite in un angusto cortile, e richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una cert’aria di maraviglia e di rispetto, disse: «non è lei…. il padre Cristoforo di Pescarenico?»«Per l’appunto.»«Lei qui?»«Come vedete, buon uomo.»«Sarà per far del bene. Del bene,» continuò mormorando tra i denti, e rincamminandosi, «se ne può far per tutto.» Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e stava contrastando dietro l’uscio col servitore, per ottenere d’esser lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l’uscio s’aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, «ehi! ehi!» gridò: «non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti.» Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso, n’avrebbe fatto di meno. Ma, poichè lo spensierato d’Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: «venga, padre, venga.» II padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de’ commensali.L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.«Da sedere al padre,» disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d’esser venuto in ora inopportuna. «Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza,» soggiunse poi, con voce più sommessa, all’orecchio di don Rodrigo.«Bene, bene, parleremo;» rispose questo: «ma intanto si porti da bere al padre.»II padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto ch’era ricominciato, gridava: «no, per bacco, non mi farà questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de’ miei boschi.» Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un momento la questione che s’agitava caldamente tra i commensali. Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto pressante dell’uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.«L’autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è contro di lei;» riprese a urlare il conte Attilio: «perchè quell’uomo erudito, quell’uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione….»«Ma questo» replicava, non meno urlando, il podestà, «questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacchè il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto….»«Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime…?»«Con buona licenza di lor signori,» interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti: «rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.»«Bene, benissimo,» disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata il far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate.«Ma, da quel che mi pare d’aver capito,» disse il padre, «non son cose di cui io mi deva intendere.»«Solite scuse di modestia di loro padri;» disse don Rodrigo: «ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.»«Il fatto è questo,» cominciava a gridare il conte Attilio.«Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino,» riprese don Rodrigo. «Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta….»«Ben date, ben applicate,» gridò il conte Attilio. «Fu una vera ispirazione.»«Del demonio,» soggiunse il podestà. «Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.»«Sì, signore, da cavaliere,» gridò il conte: «e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perchè le premano tanto le spalle d’un mascalzone.»«Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.»«Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo….»«Risponda un poco a questo sillogismo.»«Niente, niente, niente.»«Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo….»«Piano, piano, signor podestà.»«Che piano?»«Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si possono dar certi casi…. ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada.—E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perchè non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a persuader questo signore?»«Io….» rispose confusetto il dottore: «io godo di questa dotta disputa: e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice…. qui il padre….»«È vero;» disse don Rodrigo: «ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?»«Ammutolisco,» disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione.«Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre,» disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria.«Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo,» rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.«Scuse magre:» gridarono i due cugini: «vogliamo la sentenza.»«Quand’è così,» riprese il frate, «il mio debole parere sarebbe che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate.»I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati.«Oh questa è grossa!» disse il conte Attilio. «Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.»«Lui?» disse don Rodrigo: «me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica se non ha fatta la sua carovana?»In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sè medesimo:—queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto.«Sarà,» disse il cugino: «ma il padre…. come si chiama il padre?»«Padre Cristoforo,» rispose più d’uno.«Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.»«Animo, dottore,» scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, «animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.»«In verità,» rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, «in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.»Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate.Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un’altra. «A proposito,» disse, «ho sentito che a Milano correvan voci d’accomodamento.»Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell’impero, così le due parti s’adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l’imperator Ferdinando II, la prima perchè accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perchè gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato.«Non son lontano dal credere,» disse il conte Attilio, «che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi….»«Non creda, signor conte, non creda,» interruppe il podestà. «Io, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perchè il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato del conte duca, è informato d’ogni cosa….»«Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com’è, per la pace, ha fatto proposizioni….»«Così dev’essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e….»«E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? Le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo chiamano, e se….»«Il nome legittimo in lingua alemanna,» interruppe ancora il podestà, «è Vagliensteino, come l’ho sentito proferir più volte dal nostro signor castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che….»«Mi vuole insegnare…?» riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli diè d’occhio, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele gonfie, il corso della sua eloquenza. «Vagliensteino mi dà poco fastidio; perchè il conte duca ha l’occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà fare il bell’umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le cattive. Ha l’occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il chiodo, come l’ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il signor duca di Nevers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nevers non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell’acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler cozzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent’anni, per sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che invidia; testa vuol essere: e teste come la testa d’un conte duca, ce n’è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei,» proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po’ maravigliato anche lui di non incontrar mai uno scoglio: «il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond’è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare con qualche cognizion di causa; perchè quel brav’uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino cosa bolle in pentola di tutte l’altre corti; e tutti que’ politiconi (che ce n’è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te l’ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que’ suoi fili tesi per tutto. Quel pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca….»Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche da’ versacci che faceva il cugino, si voltò all’improvviso, come se gli venisse un’ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco. «Signor podestà, e signori miei!» disse poi: «un brindisi al conte duca; e mi sapranno dire se il vino sia degno del personaggio.» Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perchè tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in parte come fatto a sè.«Viva mill’anni don Gasparo Guzman, conte d’Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore!» esclamò, alzando il bicchiere.Privato, chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que’ tempi, per significare il favorito d’un principe.«Viva mill’anni!» risposer tutti.«Servite il padre,» disse don Rodrigo.«Mi perdoni;» rispose il padre: «ma ho già fatto un disordine, e non potrei….»«Come!» disse don Rodrigo: «si tratta d’un brindisi al conte duca. Vuol dunque far credere ch’ella tenga dai navarrini?»Così si chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro.A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far con parole.«Che ne dite eh, dottore?» domandò don Rodrigo.Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: «dico, proferisco, e sentenzio che questo è l’Olivares de’ vini: censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d’Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza.»«Ben detto! ben definito!» gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola, carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan tutti d’accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. «Non c’è carestia,» diceva uno: «sono gl’incettatori….»«E i fornai,» diceva un altro: «che nascondono il grano. Impiccarli.»«Appunto; impiccarli, senza misericordia.»«De’ buoni processi,» gridava il podestà.«Che processi?» gridava più forte il conte Attilio: «giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.»«Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla.»«Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti.»Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicchè le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.Don Rodrigo intanto dava dell’occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza nè di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poichè la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d’affrontarla subito, e di liberarsene; s’alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s’avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s’era subito alzato con gli altri; gli disse: «eccomi a’ suoi comandi;» e lo condusse in un’altra sala.CAPITOLO VI.«In che posso ubbidirla?» disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente, bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: «vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo…. la coscienza, l’onore….»«Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l’offende.»Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette, s’impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: «se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire….» e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, «non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L’innocenza è potente al suo….»«Eh, padre!» interruppe bruscamente don Rodrigo: «il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.»Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: «lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch’io fo ora qui, non è nè vile nè spregevole. M’ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria…. qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma….»«Sa lei,» disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, «sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh!» e continuò, con un sorriso forzato di scherno: «lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno che i principi.»«E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio che le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente….»«In somma, padre,» disse don Rodrigo, facendo atto d’andarsene, «io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un gentiluomo.»Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: «la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.»«Ebbene,» disse don Rodrigo, «giacchè lei crede ch’io possa far molto per questa persona; giacchè questa persona le sta tanto a cuore….»«Ebbene?» riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole.«Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.»A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due. «La vostra protezione!» esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.»«Come parli, frate?…»«Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.»«Come! in questa casa…!»«Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno….»Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento.Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: «escimi di tra piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.»Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All’idea di strapazzo e di villania era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda.«Villano rincivilito!» prosegui don Rodrigo: «tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo.»Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.Quando il frate ebbe serrato l’uscio dietro a sè, vide nell’altra stanza dove entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch’era venuto a riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da quarant’anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del padre, il quale era stato tutt’un’altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo brigata nuova, aveva però ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perchè, sebben di massime e di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due qualità: un’alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del cerimoniale, di cui conosceva, meglio d’ogni altro, le più antiche tradizioni, e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si sarebbe mai arrischiato d’accennare, non che d’esprimere la sua disapprovazione di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione, qualche rimprovero tra i denti a’ suoi colleghi di servizio; i quali se ne ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi dell’antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n’eran fatte; dimodochè riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza risentimento. Ne’ giorni poi d’invito e di ricevimento, il vecchio diventava un personaggio serio e d’importanza.Il padre Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: «padre, ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle.»«Dite presto, buon uomo.»«Qui no: guai se il padrone s’avvede…. Ma io so molte cose; e vedrò di venir domani al convento.»«C’è qualche disegno?»«Qualcosa per aria c’è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull’intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose…! cose di fuoco! Sono in una casa…! Ma io vorrei salvar l’anima mia.»«II Signore vi benedica!» e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la mano sul capo del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo dinanzi, nell’attitudine d’un figliuolo. «II Signore vi ricompenserà,» prosegui il frate: «non mancate di venir domani.»«Verrò,» rispose il servitore: «ma lei vada via subito e…. per amor del cielo…. non mi nomini.» Così dicendo, e guardando intorno, usci, per l’altra parte dell’andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell’ultima parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore gli additò l’uscita; e il frate, senza dir altro, partì.Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sè, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare.Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più liberamente, e s’avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito, e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione.—Ecco un filo, pensava, un filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo!—Così ruminando, alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benchè sentisse le ossa gravi e fiaccate da’ vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo, per poter riportare un avviso, qual si fosse, a’ suoi protetti, e arrivar poi al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco.Intanto, nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de’ quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il desinare; Renzo sul punto d’andarsene ogni momento, per levarsi dalla vista di lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta, in apparenza, all’aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava maturando un progetto; e, quando le parve maturo, ruppe il silenzio in questi termini:«Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi fidate di vostra madre,» a quel vostra Lucia si riscosse, «io m’impegno di cavarvi di quest’impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo, quantunque sia quell’uomo che è.» Lucia rimase lì, e la guardò con un volto ch’esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e Renzo disse subitamente: «cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si può fare.»«Verrà un giorno….» (pag. 78).«Non è vero,» proseguì Agnese, «che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?»«C’è dubbio?» disse Renzo: «maritati che fossimo…. tutto il mondo è paese; e, a due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte. Sapete quante volte Bortolo mio cugino m’ha fatto sollecitare d’andar là a star con lui, che farei fortuna, com’ha fatto lui: e se non gli ho mai dato retta, gli è…. che serve? perchè il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme, si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell’unghie di questo ribaldo, lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N’è vero, Lucia?»«Sì,» disse Lucia: «ma come…?»«Come ho detto io,» riprese la madre: «cuore e destrezza; e la cosa è facile.»«Facile!» dissero insieme que’ due, per cui la cosa era divenuta tanto stranamente e dolorosamente difficile.«Facile, a saperla fare,» replicò Agnese. «Ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia.»«Come sta questa faccenda?» domandò Renzo.«Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d’accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all’improvviso, che non abbia tempo di scappare. L’uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell’e fatto, sacrosanto come se l’avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.»«Possibile?» esclamò Lucia.«Come!» disse Agnese: «state a vedere che, in trent’anni che ho passati in questo mondo, prima che nasceste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno contro la volontà de’ suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all’erta; ma i due diavoli seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e furon marito e moglie: benchè la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre giorni.»Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci riuscire: chè, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d’essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza.«Se fosse vero, Lucia!» disse Renzo, guardandola con un’aria d’aspettazione supplichevole.«Come! se fosse vero!» disse Agnese. «Anche voi credete ch’io dica fandonie. Io m’affanno per voi, e non son creduta: bene bene; cavatevi d’impiccio come potete: io me ne lavo le mani.»«Ah no! non ci abbandonate,» disse Renzo. «Parlo così, perchè la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia madre.»Queste parole fecero svanire il piccolo sdegno d’Agnese, e dimenticare un proponimento che, per verità, non era stato serio.«Ma perchè dunque, mamma,» disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, «perchè questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo?»«In mente?» rispose Agnese: «pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne avrà voluto parlare.»«Perchè?» domandarono a un tratto i due giovani.«Perchè…. perchè, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà bene.»«Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand’è fatta?» disse Renzo.«Che volete ch’io vi dica?» rispose Agnese. «La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose…. Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato che gliel abbiate, nè anche il papa non glielo può levare.»«Se è cosa che non istà bene,» disse Lucia, «non bisogna farla.»«Che!» disse Agnese, «ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se fosse contro la volontà de’ tuoi parenti, per prendere un rompicollo…. ma, contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le difficoltà è un birbone; e il signor curato….»«L’è chiara, che l’intenderebbe ognuno,» disse Renzo.«Non bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa,» prosegui Agnese: «ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il padre?—Ah figliuola! è una scappata grossa; me l’avete fatta.—I religiosi devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui.»Lucia, senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però capacitata: ma Renzo, tutto rincorato, disse: «quand’è così, la cosa è fatta.»«Piano,» disse Agnese. «E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? chè, benchè sia pesante di sua natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall’acqua santa.»«L’ho trovato io il verso, l’ho trovato,» disse Renzo, battendo il pugno sulla tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto.«Son imbrogli,» disse Lucia: «non son cose lisce. Finora abbiamo operato sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo l’ha detto. Sentiamo il suo parere.»«Lasciati guidare da chi ne sa più di te,» disse Agnese, con volto grave. «Che bisogno c’è di chieder pareri? Dio dice: aiutati, ch’io t’aiuto. Al padre racconteremo tutto, a cose fatte.»«Lucia,» disse Renzo, «volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutte le cose da buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il giorno e l’ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora aiutarci con un po’ d’ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la risposta.» E, salutando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un’aria d’intelligenza, partì in fretta.Le tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano di vita percorso da lui fin allora, non s’era mai trovato nell’occasione d’assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, da far onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. Ma non c’era quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito, che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla taffería di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: «volete restar servito?» complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone.«Vi ringrazio,» rispose Renzo: «venivo solamente per dire una parolina a Tonio; e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo andar a desinare all’osteria, e lì parleremo.» La proposta fu per Tonio tanto più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacchè, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L’invitato non istette a domandar altro, e andò con Renzo.Giunti all’osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta solitudine, giacchè la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: «se tu vuoi farmi un piccolo servizio, io te ne voglio fare uno grande.»«Parla, parla; comandami pure,» rispose Tonio, mescendo. «Oggi mi butterei nel fuoco per te.»«Tu hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo, che lavoravi, l’anno passato.»«Ah, Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M’hai fatto andar via il buon umore.»«Se ti parlo del debito,» disse Renzo, «è perchè, se tu vuoi, io intendo di darti il mezzo di pagarlo.»«Dici davvero?»«Davvero. Eh? saresti contento?»«Contento? Per diana, se sarei contento! Se non foss’altro, per non veder più que’ versacci, e que’ cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta che c’incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo, per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta. Ma….»«Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate.»«Dì su.»«Ma…!» disse Renzo, mettendo il dito alla bocca.«Fa bisogno di queste cose? tu mi conosci.»«Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell’e fatto. M’hai tu inteso?»«Tu vuoi ch’io venga per testimonio?»«Per l’appunto.»«E pagherai per me le venticinque lire?»«Così l’intendo.»«Birba chi manca.»«Ma bisogna trovare un altro testimonio.»«L’ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere?»«E da mangiare,» rispose Renzo. «Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà fare?»«Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello.»«Domani….»«Bene.»«Verso sera….»«Benone.»«Ma!…» disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca.«Poh!…» rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto.«Ma, se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio….»«Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in pace.»«Domattina,» disse Renzo, «discorreremo con più comodo, per intenderci bene su tutto.»Con questo, uscirono dall’osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando la fandonia che racconterebbe alle donne, e Renzo a render conto de’ concerti presi.In questo tempo, Agnese s’era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa andava opponendo a ogni ragione, ora l’una, ora l’altra parte del suo dilemma: o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perchè non dirla al padre Cristoforo?Renzo arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn? interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili.Lucia tentennava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavan poco, come si suol fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la ragione d’una cosa, e che s’indurrà poi, con le preghiere e con l’autorità, a ciò che si vuol da lui.«Va bene,» disse Agnese: «va bene; ma…. non avete pensato a tutto.»«Cosa ci manca?» rispose Renzo.«E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più che un ragazzo da un pero che ha le frutte mature.»«Come faremo?» disse Renzo, un po’ imbrogliato.«Ecco: ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda…. vedrete.»«Benedetta voi!» esclamò Renzo: «l’ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto.»«Ma tutto questo non serve a nulla,» disse Agnese, «se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato.»Renzo mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere.«Io non so che rispondere a queste vostre ragioni,» diceva: «ma vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser vostra moglie,» e non c’era verso che potesse proferir quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso: «io voglio esser vostra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all’altare. Lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d’aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perchè far misteri al padre Cristoforo?La disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestío affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all’orecchio di Lucia: «bada bene, ve’, di non dirgli nulla.»CAPITOLO VII.Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi ordini.«La pace sia con voi,» disse, nell’entrare. «Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.»Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacchè il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento. Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti tentativi andati a voto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato, in quel momento, dalle ripulse di Lucia.«Vorrei sapere,» gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; «vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere…. per sostenere che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.»«Povero Renzo!» rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: «se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno.»«Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perchè non vuole?»«Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente.»«Ma qualcosa ha dovuto dire: cos’ha detto quel tizzone d’inferno?»«Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, nè il tuo, non ha figurato nemmen di conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma…. ma pur troppo ho dovuto intendere ch’è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo…. oh! credi pure, ch’io so mettermi ne’ tuoi panni, ch’io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! E una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu…! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi…. sappiate tutti ch’io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch’io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.»Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti.«Avete sentito cos’ha detto d’un non so che…. d’un filo che ha, per aiutarci?» disse Lucia. «Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci….»«Se non c’è altro…!» interruppe Agnese. «Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo….»«Chiacchiere! la finirò io: io la finirò!» interruppe Renzo questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.«Oh Renzo!» esclamò Lucia.«Cosa volete dire?» esclamò Agnese.«Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui….»«No, no, per amor del cielo….» cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.«Non son discorsi da farsi, neppur per burla,» disse Agnese.«Per burla?» gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. «Per burla! vedrete se sarà burla.»«Oh Renzo!» disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: «non v’ho mai visto così.»«Non dite queste cose, per amor del cielo,» riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. «Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand’anche…. Dio liberi!… contro i poveri c’è sempre giustizia.»«La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza…. e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà…! e poi in tre salti…!»L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: «non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse…. Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re….»«E bene!» gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: «io non v’avrò; ma non v’avrà nè anche lui: io qui senza di voi, e lui a casa del….»«Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così,» esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: «questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!»«E io che male v’ho fatto, perchè mi facciate morire?» disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti.«Voi!» rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira tuttavia: «voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!»«Sì sì,» rispose precipitosamente Lucia: «verrò dal curato, domani, ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.»«Me lo promettete?» disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt’a un tratto, più umano.«Ve lo prometto.»«Me l’avete promesso.»«Signore, vi ringrazio!» esclamò Agnese, doppiamente contenta.In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.«Ve l’ho promesso,» rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: «ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre….»«Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare uno sproposito?»«No, no,» disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. «Ho promesso, e non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia….»«Perchè volete far de’ cattivi auguri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno.»«Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima.»«Ve lo prometto, da povero figliuolo.»«Ma, questa volta, mantenete poi,» disse Agnese.Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel’augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell’ora, si trattenesse più a lungo.La notte però fu a tutt’e tre così buona come può essere quella che succede a un giorno pieno d’agitazioni e di guai, e che ne precede uno destinato a un’impresa importante, e d’esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon’ora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand’operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora l’uno ora l’ altra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.«Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera?» domandò Agnese a Renzo.«Le zucche!» rispose questo: «sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.»«Manderò Menico.»«Va bene,» rispose Renzo; e parti, per accudire all’affare, come aveva detto.Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch’era un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, «per un certo servizio,» diceva. Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. «Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo….»«Ho capito,» disse Menico: «quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dà, ogni tanto, qualche santino.»«Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de’ compagni, al lago, a veder pescare, nè a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, nè a far quell’altro tuo giochetto solito….»Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole.«Poh! zia; non son poi un ragazzo.»«Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta…. guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te.»«Datemele ora, ch’è lo stesso.»«No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n’avrai anche di più.»Nel rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Un mendico, nè rifinito nè cencioso come i suoi pari, e con un non so che d’oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert’occhiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con un’indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese s’affrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lì diede un’altra occhiata in fretta, come potè. Gridatogli dietro: «ehi ehi! dove andate, galantuomo? di qua! di qua!» tornò indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con un’umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, e guardavan sott’occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese s’alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s’affacciava all’uscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: «nessuno:» parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che nè l’una nè l’altra ne sapessero ben chiaramente il perchè. Ma ne rimase a tutt’e due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.Convien però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que’ ronzatori misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo.Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de’ nemici e de’ suoi soldati, torvo nella guardatura, co’ capelli corti e ritti, co’ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l’eroe, con le gambiere, co’ cosciali, con la corazza, co’ bracciali, co’ guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de’ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un’ampia toga nera; tutto nero, fuorchè un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino arrovesciata (era il distintivo de’ senatori, e non lo portavan che l’inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d’estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de’ suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s’arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch’era trattenuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che que’ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: «e il conte Attilio?» domandò, sempre camminando, don Rodrigo.«È uscito con que’ signori, illustrissimo.»«Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito.»Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva. Come inferiori, l’inchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; chè, in que’ contorni, non ce n’era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, d’aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che s’incontrasse col signor castellano spagnolo, l’inchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado l’uno dell’altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch’è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.«Cugino, quando pagate questa scommessa?» disse, con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.«San Martino non è ancor passato.»«Tant’è che la paghiate subito; perchè passeranno tutti i santi del lunario, prima che….»«Questo è quel che si vedrà.»«Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo d’aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un’altra.»«Sentiamo.»«Che il padre…. il padre…. che so io? quel frate in somma v’ha convertito.»«Eccone un’altra delle vostre.»«Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, nè con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo.» E qui, parlando col naso, e accompagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: «in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, amico più delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d’ogni erba un fascio, aveva messo gli occhi….»«Basta, basta,» interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. «Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch’io.»«Diavolo! che aveste voi convertito il padre!»«Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà.» La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano nè incamminati, nè assolutamente fissati.La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L’immagini più recenti della passeggiata trionfale, degl’inchini, dell’accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito non poco a rendergli l’animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso.—Cose grosse,—disse tra sè il servitore a cui fu dato l’ordine; perchè l’uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de’ bravi, quello a cui s’imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Così, impegnandosi a ogni delitto che gli venisse comandato, colui si era assicurata l’impunità del primo. Per don Rodrigo, l’acquisto non era stato di poca importanza; perchè il Griso, oltre all’essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell’opinione.«Griso!» disse don Rodrigo: «in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.»«Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone.»«Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purchè la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia fatto male.»«Signore, un po’ di spavento, perchè la non faccia troppo strepito…. non si potrà far di meno.»«Spavento…. capisco…. è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?»«Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.»«Sotto la tua sicurtà. E…. come farai?»«Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare: e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa…. vossignoria non saprà niente di queste cose…. una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicchè possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.»«Va bene! e poi?»Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finchè d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l’impresa, senza che rimanesse traccia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, d’impor silenzio alla povera Agnese, d’incutere a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi; e tutte l’altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perchè, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se n’andava, per metter mano all’esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: «senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell’unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così, l’ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più sicuramente l’effetto. Ma non l’andate a cercare, per non guastare quello che più importa: tu m’hai inteso.»«Lasci fare a me,» rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d’ossequio e di millanteria; e se n’andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s’era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s’eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dell’impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si potè fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, s’accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di là, commentando tra sè una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di prendere un po’ d’aria, e s’incamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro all’osteria del paesetto: uno che si mettesse sull’uscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare.Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: «Tonio e Gervaso m’aspettan fuori: vo con loro all’osteria, a mangiare un boccone; e, quando sonerà l’ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio. Lucia! tutto dipende da un momento.» Lucia sospirò, e ripetè: «coraggio,» con una voce che smentiva la parola.Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiato con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca, girava, da una parte e dall’altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch’era innanzi agli altri, fu li per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un’impresa scabrosa alle mani, non fece vista d’accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l’altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l’apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce, cioè que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano alla mora, gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede), e mescendosi or l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch’era tra loro. Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran «sei» che n’era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d’occhio al compagno, poi a quel dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne’ loro aspetti un’interpretazione di tutti que’ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’oste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sè in una stanza vicina, e ordinò da cena.«Chi sono que’ forestieri?» gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.«Non li conosco,» rispose l’oste, spiegando la tovaglia.«Come? nè anche uno?»«Sapete bene,» rispose ancora colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola, «che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate.»«Come potete sapere…?» ripigliava Renzo; ma l’oste, già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce: «Chi sono que’ galantuomini?»«Buona gente qui del paese,» rispose l’oste, scodellando le polpette nel piatto.«Va bene; ma come si chiamano? chi sono?» insistette colui, con voce alquanto sgarbata.«Uno si chiama Renzo,» rispose l’oste, pur sottovoce: «un buon giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L’altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n’abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L’altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con permesso.»E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l’interrogante; e andò a portare il piatto a chi si doveva. «Come potete sapere,» riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire, «che siano galantuomini, se non li conoscete?»«Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce alle azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto?» Così dicendo, se ne tornò in cucina.Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice ch’era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma l’invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un po’ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora d’andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate.«Che bella cosa,» scappò fuori di punto in bianco Gervaso, «che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno…!» Renzo gli fece un viso brusco. «Vuoi stare zitto, bestia?» gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un po’ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte si voltarono a Renzo, come quand’era entrato. Questo, fatti ch’ebbe pochi passi fuori dell’osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co’ suoi compagni, come se dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s’accorsero d’essere osservati, si fermarono anch’essi, si parlaron sottovoce, e tornarono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli sarebbero parse molto strane. «Sarebbe però un bell’onore, senza contar la mancia,» diceva uno de’ malandrini, «se, tornando al palazzo, potessimo raccontare d’avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi, senza che il signor Griso fosse qui a regolare.»«E guastare il negozio principale!» rispondeva l’altro. «Ecco: s’è avvisto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar tutti a pollaio.»C’era in fatti quel brulichío, quel ronzío che si sente in un villaggio, sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell’annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno. Quando Renzo vide che i due indiscreti s’eran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora all’uno, ora all’altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch’era già notte.Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce d’un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio all’opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto: talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s’era appena badato; l’immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d’ubbidire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piuttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: «son qui, andiamo;» quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo nè forza di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d’attraversarlo: chè s’andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l’angolo di essa; Agnese con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, s’affacciaron bravamente alla porta, e picchiarono.«Chi è, a quest’ora?» gridò una voce dalla finestra, che s’aprì in quel momento: era la voce di Perpetua. «Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. È forse accaduta qualche disgrazia?»«Son io,» rispose Tonio, «con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato.»«È ora da cristiani questa?» disse bruscamente Perpetua. «Che discrezione? Tornate domani.»«Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n’abbia messi insieme degli altri.»«Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perchè venire a quest’ora?»«Gli ho ricevuti, anch’io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l’ora non vi piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.»«No, no, aspettate un momento: torno con la risposta.»Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce a Lucia: «coraggio; è un momento; è come farsi cavar un dente,» si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un momento.CAPITOLO VIII.—Carneade! Chi era costui?—ruminava tra sè don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata.—Carneade questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?—Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!La cena non fu molto allegra… (pag. 102).Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perchè Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sè, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio.«A quest’ora?» disse anche don Abbondio, com’era naturale.«Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo….»«Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire…. Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?»«Diavolo!» rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: «dove siete?» Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e salutò Perpetua per nome.«Buona sera, Agnese,» disse Perpetua: «di dove si viene, a quest’ora?»«Vengo da….» e nominò un paesetto vicino. «E se sapeste…» continuò: «mi son fermata di più, appunto in grazia vostra.»«Oh perchè?» domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, «entrate,» disse, «che vengo anch’io.»«Perchè,» rispose Agnese, «una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare…. credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, nè con Anselmo Lunghigna, perchè non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro….»«Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?»«Non me lo domandate, che non mi piace metter male.»«Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!»«Basta…. ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei.»«Guardate se si può inventare, a questo modo!» esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: «in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere…. Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo.» Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole, una stradetta, che, finito quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli, ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.«Deo gratias,» disse Tonio, a voce chiara.«Tonio, eh? Entrate,» rispose la voce di dentro.Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna.«Ah! ah!» fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo.«Dirà il signor curato, che son venuto tardi,» disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente, Gervaso.«Sicuro ch’è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?»«Oh! mi dispiace.»«L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere…. Ma perchè vi siete condotto dietro quel…. quel figliuolo?»«Così per compagnia, signor curato.»«Basta, vediamo.»«Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo,» disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.«Vediamo,» replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto.«Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.»«È giusto,» rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: «va bene?»«Ora,» disse Tonio, «si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco.»«Anche questa!» disse don Abbondio: «le sanno tutte. Ih! com’è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?»«Come, signor curato! s’io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito…. dunque, giacchè ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così…. dalla vita alla morte….»«Bene bene,» interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sè una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccío de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sè non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: «ora, sarete contento?» e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: «signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie.» Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sè, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino, e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire «e questo….» che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: «Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!» Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: «Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa!» Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: «apra, apra; non faccia schiamazzo.» Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: «andiamo, andiamo, per l’amor di Dio.» Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento.In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…. voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.L’assediato, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: «aiuto! aiuto!» Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: «cosa c’è?»«Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa,» gridò verso lui don Abbondio. «Vengo subito,» rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque mezzo tra ‘l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello.Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l’orecchio, si rizzano. «Cos’è? Cos’è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi?» Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere.Ma, prima che quelli fossero all’ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d’altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all’osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti d’aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati; e in fatti, non incontrarono anima vivente, nè sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta di tutte, giacchè non c’era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: «andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini,» s’incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n’era allontanata la nostra brigatella, andando anch’essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori, fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l’occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora, va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Tutto s’eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sè, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta adagio adagio l’uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all’uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e’ poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell’uscio: nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: «st,» chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino, entra nell’altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci sia: non c’è nessuno. Torna indietro, va all’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch’era un bravo del contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinchè il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre. Spinge mollemente l’uscio che mette alla prima stanza; l’uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l’occhio; è buio: vi mette l’orecchio, per sentire se qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. «Che diavolo è questo?» dice allora: «che qualche cane traditore abbia fatto la spia?» Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all’uscio di strada, sentono un calpestío di passini frettolosi, che s’avvicinano in fretta; s’immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all’erta. In fatti, il calpestío si ferma appunto all’uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l’amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perchè…. il perchè lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato.—Che è questo?—pensa; e spinge l’uscio con paura: quello s’apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: «zitto! o sei morto.» Lui in vece caccia un urlo: uno di que’ malandrini gli mette una mano alla bocca; l’altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt’a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all’uno e all’altro furfante parve di sentire in que’ tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov’era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall’alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano, s’urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all’uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso: ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s’era fatto vedere un po’ da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che s’avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto. «Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti.» Dopo questa breve aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli andaron dietro in buon ordine.Lasciamoli andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d’allontanar l’altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto, la serva s’era ricordata dell’uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c’era che ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei, e andarle dietro, cercando però di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto di que’ tali matrimoni andati a monte. Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava attenta, o per ravviare il cicalío, diceva: «sicuro: adesso capisco: va benissimo: è chiara: e poi? e lui? e voi?» Ma intanto, faceva un altro discorso con sè stessa.—Saranno usciti a quest’ora? o saranno ancor dentro? Che sciocchi che siamo stati tutt’e tre, a non concertar qualche segnale, per avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta: ora non c’è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un po’ di tempo perduto.—Così, a corserelle e a fermatine, eran tornate poco distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto, s’era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando, tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: «aiuto! aiuto!»«Misericordia! cos’è stato?» gridò Perpetua, e volle correre.«Cosa c’è? cosa c’è?» disse Agnese, tenendola per la sottana.«Misericordia! non avete sentito?» replicò quella, svincolandosi.«Cosa c’è? cosa c’è?» ripetè Agnese, afferrandola per un braccio.«Diavolo d’una donna!» esclamò Perpetua, respingendola, per mettersi in libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo, si sente l’urlo di Menico.«Misericordia!» grida anche Agnese; e di galoppo dietro l’altra. Avevan quasi appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua arriva, un momento prima dell’altra; mentre vuole spinger l’uscio, l’uscio si spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel terribile scampanío, correvano in furia, a mettersi in salvo.«Cosa c’è? cosa c’è?» domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone, e scantonarono. «E voi! come! che fate qui voi?» domandò poscia all’altra coppia, quando l’ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò altro, entrò in fretta nell’andito, e corse, come poteva al buio, verso la scala.I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava tutt’affannata. «Ah siete qui!» disse questa, cavando fuori la parola a stento: «com’è andata? cos’è la campana? mi par d’aver sentito….»«A casa, a casa,» diceva Renzo, «prima che venga gente.» E s’avviavano; ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con voce mezza fioca, dice: «dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento!»«Sei tu che…?» cominciava Agnese.«Cosa c’è d’altro?» domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava.«C’è il diavolo in casa,» riprese Menico ansante. «Gli ho visti io: m’hanno voluto ammazzare: l’ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori.»Renzo, ch’era il più in sè di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d’uno spaventato. Per istrada poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più chiara. «Cammina avanti,» gli disse. «Andiam con lui,» disse alle donne. Voltarono, s’incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversaron la piazza, dove per grazia del cielo, non c’era ancora anima vivente; entrarono in una stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo buco che videro in una siepe, dentro, e via per i campi.Non s’eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie di feritoia, cacciò dentro un: «che diavolo c’è?» Quando Ambrogio sentì una voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzío, ch’era accorso molto popolo, rispose: «vengo ad aprire.» Si mise in fretta l’arnese che aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della chiesa, e l’aprì.«Cos’è tutto questo fracasso?—Cos’è?—Dov’è?—Chi è?»«Come, chi è?» disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con l’altra, il lembo di quel tale arnese, che s’era messo così in fretta: «come! non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto.» Si voltan tutti a quella casa, vi s’avvicinano in folla, guardano in su, stanno in orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c’era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto.«Chi è là dentro?—Ohe, ohe!—Signor curato!—Signor curato!»Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl’invasori, s’era ritirato dalla finestra, e l’aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto.«Cos’è stato?—Che le hanno fatto?—Chi sono costoro?—Dove sono?» gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto.«Non c’è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.»«Ma chi è stato?—Dove sono andati?—Che è accaduto?»«Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore.» E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle spalle, e se n’andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quello scompiglio de’ bravi, quando il Griso s’affannava a raccoglierli. Quand’ebbe ripreso fiato, gridò: «che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è!»«Che?—Che?—Che?» E comincia una consulta tumultuosa. «Bisogna andare.—Bisogna vedere.—Quanti sono?—Quanti siamo?—Chi sono?—Il console! il console!»«Son qui,» risponde il console, di mezzo alla folla: «son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov’è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti….»Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: «correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso!» A quest’avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl’invasori erano spariti. S’entra nel cortile; si va all’uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: «Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov’è il pellegrino? L’avrà sognato Stefano, il pellegrino.—No, no: l’ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino!—Agnese! Lucia!» Nessuno risponde. «Le hanno portate via! Le hanno portate via!» Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire i rapitori: che era un’infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa; ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d’usci, un apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sè sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccasse a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chiomati come due re de’ Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que’ medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell’accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentar le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia.I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l’uno ora l’altro, a guardare se nessuno gl’inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l’incalzare continuo di que’ rintocchi, i quali, quanto per l’allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all’intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com’era andata, domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt’e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l’avviso del padre, e raccontò quello ch’egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l’avviso. Gli ascoltatori compresero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron rabbrividire; si fermaron tutt’e tre a un tratto, si guardarono in viso l’un con l’altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt’e tre posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per dimostrargli la compassione che sentivano dell’angoscia da lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. «Ora torna a casa, perchè i tuoi non abbiano a star più in pena per te,» gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, aggiungendo: «basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora….» Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sè, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora sè stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che.«E la casa?» disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante, nessuno rispose, perchè nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.Renzo s’affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto s’aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d’argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che non ci mancava nessuno, «Dio sia benedetto!» disse, e fece lor cenno ch’entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico sagrestano, ch’egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere que’ poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell’autorità del padre, e della sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la porta adagio adagio. Allora il sagrestano non potè più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava susurrando all’orecchio: «ma padre, padre! di notte…. in chiesa…. con donne…. chiudere…. la regola…. ma padre!» E tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole,—vedete un poco!—pensava il padre Cristoforo,—se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo….—«Omnia munda mundis,» disse poi, voltandosi tutt’a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l’effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: «basta! lei ne sa più di me.»«Fidatevi pure,» rispose il padre Cristoforo; e, all’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare, s’accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: «figliuoli! ringraziate il Signore, che v’ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento…!» E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacchè non sospettava ch’essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d’una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi.«Dopo di ciò,» continuò egli, «vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati. Voi,» continuò volgendosi alle due donne, «potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione.» È un torrente a pochi passi da Pescarenico. «Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; rispondete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.»Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo.«Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate»…. (pag. 121).Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire!«Prima che partiate,» disse il padre, «preghiamo tutti insieme il Signore, perchè sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto.» Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: «noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di cuore per lui: ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!… è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi.»Alzatosi poi, come in fretta, disse: «via, figliuoli, non c’è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v’accompagni: andate.» E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: «il cuor mi dice che ci rivedremo presto.»Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglío più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s’avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messi gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natía, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda.CAPITOLO IX.L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. «Di che cosa?» rispose quello: «siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro,» e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorchè Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via.Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva. Per render ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontarne in succinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover’uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l’hanno fatto trovare in altra parte. Uno storico milanese[19] che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, nè lei, nè il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c’è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca.I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un’osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia.Dopo una sera quale l’abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio d’una brezzolina più che autunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre di sedersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de’ contingenti bisogni d’un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt’e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s’aspettavan di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: «a rivederci,» e partì.Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia.«Oh! fra Cristoforo!» disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d’un grand’amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perchè il guardiano faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: «non c’è che la signora: se la signora vuol prendersi quest’ impegno….»Tirata quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a tutt’e due: «donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v’abbia provvedute in miglior maniera. Volete venir con me?»Le donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: «bene; io vi conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perchè la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con una bella giovine…. con donne voglio dire.»Così dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese, la quale non potè tenersi di non fare altrettanto; e tutt’e tre si mossero, quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora.«La signora,» rispose quello, «è una monaca; ma non è una monaca come l’altre. Non è che sia la badessa, nè la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perchè dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione; e in Monza anche di più, perchè suo padre, quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v’accetti, vi posso dire che sarete sicure come sull’altare.»Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione mezzo rovinato e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso, che forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi, il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s’avviò al monastero; dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d’ore, tornasse da lui, a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed era ora, perchè la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi dall’interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la signora. «È ben disposta per voi altre,» disse, «e vi può far del bene quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me.» Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima di mettervi il piede, il guardiano, accennando l’uscio, disse sottovoce alle donne: «è qui,» come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò da quella parte, e vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro quelle una monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qual cosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.Queste cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era già avvezzo, come tant’altri, a quel non so che di strano, che appariva nella sua persona, come nelle sue maniere.Era essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne’ vòti; e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. «Reverenda madre, e signora illustrissima,» disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al petto: «questa è quella povera giovine, per la quale m’ha fatto sperare la sua valida protezione; e questa è la madre.»Quando fu vicino alla porta del borgo….. il guardiano si fermò…. (pag. 126).Le due presentate facevano grand’inchini: la signora accennò loro con la mano, che bastava, e disse, voltandosi, al padre: «è una fortuna per me il poter fare un piacere a’ nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma,» continuò: «mi dica un po’ più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si possa fare per lei.»Lucia diventò rossa, e abbassò la testa.«Deve sapere, reverenda madre….» incominciava Agnese: ma il guardiano le troncò, con un’occhiata, le parole in bocca, e rispose: «questa giovine, signora illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello. Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de’ gravi pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d’un asilo nel quale possa vivere sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand’anche….»«Quali pericoli?» interruppe la signora. «Di grazia, padre guardiano, non mi dica la cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto.»«Sono pericoli,» rispose il guardiano, «che all’orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennati….»«Oh certamente,» disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia? Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l’avesse paragonato con quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.«Basterà dire,» riprese il guardiano, «che un cavalier prepotente…. non tutti i grandi del mondo si servono dei doni di Dio a gloria sua, e in vantaggio del prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo ch’erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.»«Accostatevi, quella giovine,» disse la signora a Lucia, facendole cenno col dito. «So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser meglio informato di voi, in quest’affare. Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso.» In quanto all’accostarsi, Lucia ubbidì subito; ma rispondere era un’altra faccenda. Una domanda su quella materia, quand’anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l’avrebbe imbrogliata non poco: proferita da quella signora, e con una cert’aria di dubbio maligno, le levò ogni coraggio a rispondere. «Signora…. madre…. reverenda….» balbettò, e non dava segno d’aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che, dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credè autorizzata a venirle in aiuto. «Illustrissima signora,» disse, «io posso far testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l’acqua santa: voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perchè noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato fosse stato un po’ più un uomo di quelli che m’intendo io…. so che parlo d’un religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare….»«Siete ben pronta a parlare senz’essere interrogata,» interruppe la signora, con un atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. «State zitta voi: già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de’ loro figliuoli!»Agnese mortificata diede a Lucia un’occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca, per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine, dandole d’occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma.«Reverenda signora,» disse Lucia, «quanto le ha detto mia madre è la pura verità. Il giovine che mi discorreva,» e qui diventò rossa rossa, «lo prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!) vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di metterci al sicuro, giacchè siam ridotte a far questa faccia di chieder ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio; sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi povere donne.»«A voi credo,» disse la signora con voce raddolcita. «Ma avrò piacere di sentirvi da solo a solo. Non che abbia bisogno d’altri schiarimenti, nè d’altri motivi, per servire alle premure del padre guardiano,» aggiunse subito, rivolgendosi a lui, con una compitezza studiata. «Anzi,» continuò, «ci ho già pensato; ed ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del monastero ha maritata, pochi giorni sono, l’ultima sua figliuola. Queste donne potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a’ que’ pochi servizi che faceva lei. Veramente….» e qui accennò al guardiano che s’avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: «veramente, attesa la scarsezza dell’annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma parlerò io alla madre badessa, e una mia parola…. e per una premura del padre guardiano…. In somma do la cosa per fatta.»Il guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l’interruppe: «non occorron cerimonie: anch’io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale dell’assistenza de’ padri cappuccini. Alla fine,» continuò, con un sorriso, nel quale traspariva un non so che d’ironico e d’amaro, «alla fine, non siam noi fratelli e sorelle?»Così detto, chiamò una conversa, (due di queste erano, per una distinzione singolare, assegnate al suo servizio privato) e le ordinò che avvertisse di ciò la badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese. Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n’andò a scriver la lettera di ragguaglio all’amico Cristoforo.—Gran cervellino che è questa signora!—pensava tra sè, per la strada:—curiosa davvero! Ma chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo non s’aspetterà certamente ch’io l’abbia servito così presto e bene. Quel brav’uomo! non c’è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale, senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto l’affare a buon porto, in un batter d’occhio. Sarà contento quel buon Cristoforo, e s’accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa.—La signora, che, alla presenza d’un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani, che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render ragione dell’insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.Era essa l’ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de’ figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa d’alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi santini che rappresentavan monache; e que’ regali eran sempre accompagnati con gran raccomandazioni di tenerli ben di conto, come cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: «bello eh?» Quando il principe, o la principessa o il principino, che solo de’ maschi veniva allevato in casa, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: «che madre badessa!» Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, «tu sei una ragazzina,» le si diceva: «queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.» Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert’altre maniere troppo libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, «ehi! ehi!» le diceva; «non è questo il fare d’una par tua: se vuol che un giorno ti si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d’ora a star sopra di te: ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perchè il sangue si porta per tutto dove si va.»Tutte le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l’idea che già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre, facevan più effetto di tutte l’altre insieme. Il contegno del principe era abitualmente quello d’un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro de’ suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un’immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d’una necessità fatale.A sei anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di quel paese. Comunque sia, vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che lì, meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora. Nè s’ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi offerto il pegno d’una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero pienamente all’intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d’accordo con le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta all’altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella famigliarità un po’ rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina nel laccio: ce n’eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non s’accorgevan bene di tutti que’ maneggi, parte non distinguevano quanto vi fosse di cattivo, parte s’astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d’essere stata, con simili arti, condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue compagne d’educazione, ce n’erano alcune che sapevano d’esser destinate al matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente de’ suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto. All’immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichío che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e l’educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin de’ conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che l’avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva in fatti. L’idea della necessità del suo consenso, idea che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più tranquillamente l’immagini d’un avvenire gradito. Dietro quest’idea però, ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e, a questa idea, l’animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch’erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che, da principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta l’odio s’esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta l’uniformità dell’inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere un’intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire all’altre quella sua superiorità; talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de’ suoi timori e de’ suoi desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sè e con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s’inoltrava in quell’età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte l’inclinazioni, tutte l’idee, e qualche volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in que’ sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d’affettuoso, che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e a primeggiare nelle sue fantasie. S’era fatto, nella parte più riposta della mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d’ogni genere. Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l’avevano insegnata alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta, non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come l’altre. Negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.Era legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d’essere stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro deputato a ciò, affinchè fosse certo che ci andava di sua libera scelta: e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s’obbligasse per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de’ momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica. E a fine d’indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero) non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora per timore d’esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo, e d’accattar consiglio e coraggio. C’era un’altra legge, che una giovine non fosse ammessa a quell’esame della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era già scorso l’anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt’altro in testa: in vece di far gli altri passi, pensava alla maniera di tirare indietro il primo. In tali angustie, si risolvette d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a Gertrude d’informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione; giacchè non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e fatta ricapitare per via d’artifizi molto studiati. Gertrude stava con grand’ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa la fece venir nella sua cella, e, con un contegno di mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d’una gran collera del principe, e d’un fallo ch’ella doveva aver commesso, lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che andava a un combattimento, pure l’uscir di monastero, il lasciar quelle mura nelle quali era stata ott’anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l’aperta campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d’una gioia tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com’ora si direbbe, il suo piano.—O mi vorranno forzare,—pensava,—e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non pretendo altro che di non esser sacrificata.—Ma, come accade spesso di simili previdenze, non avvenne nè una cosa nè l’altra. I giorni passavano, senza che il padre nè altri le parlasse della supplica, nè della ritrattazione, senza che le venisse fatta proposta nessuna, nè con carezze, nè con minacce. I parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perchè. Si vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un’indegna: un anatema misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia, lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia de’ parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l’abbandono in cui era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po’ d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era un mezzo di riacquistar l’affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l’avrebbe voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da sè al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa apparenza del torto.Tali sensazioni d’oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti visioni delle quali Gertrude s’era già tanto occupata, e s’occupava tuttavia, nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera, come nel monastero; d’andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che, dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l’unica necessità che ci sarebbe stata d’uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno variata che nel monastero. A ogni annunzio d’una visita, Gertrude doveva salire all’ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì anche desinava, quando c’era invito. I servitori s’uniformavano, nelle maniere e ne’ discorsi, all’esempio e all’intenzioni de’ padroni: e Gertrude, che, per sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero qualche dimostrazione d’affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne, rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una noncuranza manifesta, benchè accompagnata da un leggiero ossequio di formalità. Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un rispetto, e sentiva per lei una compassione d’un genere particolare. Il contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più somigliante a quell’ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un’inquietudine diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira, la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del principe.Il terrore di Gertrude, al rumor de’ passi di lui, non si può descrivere nè immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando lo vide comparire con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’esser rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso.Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell’avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata.Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso.Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un nulla. L’immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perchè non poteva separarlo da essi, nè tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza che subito non le s’affacciassero i dolori presenti che n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a respingerne la rimembranza, a divezzarsene. Nè più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo.In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata e invelenita all’eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d’esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c’era entrata con tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo.CAPITOLO X.Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.Al legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentr’era caldo. Gertrude comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: «perdono!» Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo nè chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere d’una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’anche…. caso mai…. che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; giacchè a un cavalier d’onore, com’era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sè. La misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c’era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato; ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei….«Ah sì!» esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea.«Ah! lo capite anche voi,» riprese incontanente il principe. «Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perchè l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne prendo io la cura.» Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: «la principessa e il principino subito.» E seguitò poi con Gertrude: «voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso.»A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, «ecco,» disse, «la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per suo bene, l’ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m’ha fatto intendere che è risoluta….» A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: «che è risoluta di prendere il velo.»«Brava! bene!» esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età l’avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno.«Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa,» disse il principe. «Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi…. perchè non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria.»«Andiamo pure,» disse la principessa.«Vo a dar gli ordini,» disse il principino.«Ma….» proferì sommessamente Gertrude.«Piano, piano,» riprese il principe: «lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani?»«Domani,» rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo.«Domani,» disse solennemente il principe: «ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l’esame.» Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.In tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a sè stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso. L’occupazioni si succedevano senza interruzione; s’incastravano l’una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l’ultima mano, che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl’inchini della servitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata vocazione.La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna delle sue risposte era come un’accettazione e una conferma; ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’erano stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più del l’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: «ah furbetta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza.»Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sè: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dileguando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello.«Finalmente,» disse il principe, «ho avuto la consolazione di veder mia figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia.»Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.«Come!» disse il principe: «v’ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia.» Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, anche suo malgrado, s’impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s’era sentita d’avere.La donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perchè, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude, quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La giovinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perchè si preparasse per la gita di Monza.«Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perchè, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s’impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perchè s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in que’ momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorchè per il signor principe. Ma, un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta, lesta, signorina! Perchè mi guarda così incantata? A quest’ora dovrebbe esser fuor della cuccia.»All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparire del nibbio. Ubbidì, si vesti in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.Quando vennero a avvertir ch’era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: «orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano….» È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. «V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire che v’hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.»Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripetè più volte la formola della risposta. All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e li si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non c’era chi le potesse negar nulla.«Son qui…,» cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di compassione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c’è cascata la brava. Quella vista, risvegliando più vivi nell’animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: «son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente.» La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclamazioni. Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’attendeva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, «signor principe,» disse: «per ubbidire alle regole…. per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso…. pure devo dirle…. che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,… la superiora, quale io sono indegnamente,… è obbligata d’avvertire i genitori…. che se, per caso…. forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà….»«Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo giusto…. Ma lei non può dubitare….»«Oh! pensi, signor principe,… ho parlato per obbligo preciso,… del resto….»«Certo, certo, madre badessa.»Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come se a tutt’e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra dentro la soglia claustrale.«Oh via,» disse il principe: «Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compagnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza.» Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sè stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sè stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talchè, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, potè chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta.Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose insomma più notabili della città e de’ contorni; affinchè le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. «Bisognerà pensare a una madrina,» disse il principe: «perchè domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell’esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri.» Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: «ci sarebbe….» Ma il principe interruppe: «No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benchè l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei.» E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: «ognuna delle dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.»Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno un’antica amicizia. «Ottima scelta,» disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sè, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi.Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quell’occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. «Orsù, figliuola,» le disse: «finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera. Tutto quel che s’è fatto finora, s’è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perchè e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi…. che so io? In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e….» Ma qui, vedendo che Gertrude era diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva, come le foglie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò quel discorso, e, con aria serena, riprese: «via, via, tutto dipende da voi, dal vostro giudizio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da guastar sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne parli più; e restiam d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non far nascer dubbi nella testa di quell’uomo dabbene. Così anche voi ne sarete fuori più presto.» E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e de’ godimenti ch’eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto.L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertrude avesse una gran vocazione al chiostro: perchè così gli aveva detto il principe, quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d’una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di chi le ascolta.Dopo i primi complimenti, «signorina,» le disse, «io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica, lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch’io le faccia qualche interrogazione.»«Dica pure,» rispose Gertrude.Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. «Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo.»La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia…. L’infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, la più contraria al vero. «Mi fo monaca,» disse, nascondendo il suo turbamento, «mi fo monaca, di mio genio, liberamente.»«Da quanto tempo le è nato codesto pensiero?» domandò ancora il buon prete.«L’ho sempre avuto,» rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro sè stessa.«Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?»Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparire sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. «Il motivo,» disse, «è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo.»«Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche…. mi scusi…. capriccio? Alle volte, una cagione momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora….»«No, no,» rispose precipitosamente Gertrude: «la cagione è quella che le ho detto.»Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L’esaminatore fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.Attraversando le sale per uscire, s’abbattè nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell’animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all’aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l’aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichío e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a sè stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva amaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia, e quasi respinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l’accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspettarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’ regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripetè, e fu monaca per sempre.È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch’è stato intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. Rimasticava quell’amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l’opera; accusava sè di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que’ doni.La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perchè il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione contro il suo sangue; e ogni po’ di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere, o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c’erano appunto state messe da quelle.Qualche consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura quell’altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno e abbandonar l’alghe, che aveva prese, per una rabbia d’istinto.Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalío della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, nè occasione di far di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse.Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vôto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolío, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodochè le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt’e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora.Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperta una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perchè nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perchè scappò detto a una suora: «s’è rifugiata in Olanda di sicuro,» si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o combattesse l’opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; nè c’era cosa da cui s’astenesse più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al giorno l’immagine di quella donna veniva a cacciarsi d’improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai!Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella frammischiava all’interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure s’avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l’interrogata. Avvedendosi poi d’aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti del cervello, cercò di correggere e d’interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non potè fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come un confuso spavento. E appena potè trovarsi sola con la madre, se n’apri con lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que’ dubbi, e spiegò tutto il mistero. «Non te ne far maraviglia,» disse: «quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un po’ del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s’ha bisogno di loro; far vista d’ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai sentito come m’ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t’abbia preso a ben volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t’accaderà ancora d’aver che fare con de’ signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai.»La sventurata rispose…. (pag. 158).Il desiderio d’obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d’aver trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che c’era un uomo troppo premuroso d’aver notizie d’una di loro, e nell’animo del quale, alla passione e alla picca di prima s’era aggiunta anche la stizza d’essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell’ora in cui stava attendendo l’esito della sua scellerata spedizione.CAPITOLO XI.Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perchè era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano. S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti.—In quanto ai sospetti,—pensava—me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c’è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, nè un matto. E a Milano? Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno nè anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s’io fo ciarle o fatti. E poi…, se mai nascesse qualche imbroglio…. che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,… anche Attilio saprà consigliarmi: c’è impegnato l’onore di tutto il parentado.—Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perchè in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia.—Avrà tanta paura di trovarsi qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che…. il viso più umano qui son io, per bacco…. che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se prega….—Mentre fa questi bei conti, sente un calpestío, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro.—E la bussola? Diavolo! dov’è la bussola? Tre, cinque, otto: ci son tutti; c’è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto.—Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, «ebbene,» gli disse, o gli gridò: «signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?»«L’è dura,» rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, «l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.»«Com’è andata? Sentiremo, sentiremo,» disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.«Tu non hai torto, e ti sei portato bene,» disse don Rodrigo: e hai fatto quello che si poteva; ma…. ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste.»«Anche a me, signore,» disse il Griso, «è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m’è parso di poter rilevare che ci dev’essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.»«Non siete stati riconosciuti almeno?»Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben pensare anche da sè. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fa poi fatta, come abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si manderebbe a prenderla; giacchè per allora non conveniva fare altri movimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi precipitati coi quali lo aveva accolto.Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi, anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa.La mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: «San Martino!»«Non so cosa vi dire,» rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: «pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perchè, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma…. basta, ora vi racconterò tutto.»«Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare,» disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. «Quel frate,» continuò, «con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno.» Don Rodrigo riferì il dialogo. «E voi avete avuto tanta sofferenza?» esclamò il conte Attilio: «e l’avete lasciato andare com’era venuto?»«Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia?»«Non so,» disse il conte Attilio, «se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri.»«Non mi fate peggio.»«Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.»«Cosa pensate di fare?»«Non lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e… il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito.»Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un affare di quell’importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. «Di belle ciarle,» diceva, «faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m’importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch’io sia stato burlato così barbaramente.»«Avete fatto benissimo,» rispondeva il conte Attilio. «Codesto vostro podestà…. gran caparbio, gran testa vôta, gran seccatore d’un podestà…. è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che….»«Ma voi,» interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, «voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!»«Sapete, cugino,» disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, «sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà….»«Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?»«L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che effetto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò meglio disposto che mai.»Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione.Lo scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un tale avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro, perchè dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è. Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente all’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non potè dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; perchè, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un’impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perchè, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni.Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e uniti come s’usa, e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c’era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non si rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera: e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, potè di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vôta e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini. L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. «Fuggiti insieme!» gridò: «insieme! E quel frate birbante! Quel frate!» la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. «Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi sono…. voglio sapere, voglio trovare…. questa sera, voglio saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare…. Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone…! quel frate…!»Pescarenico (pag. 169).Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, potè riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando, verso le ventitrè, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbattè, prima d’arrivare a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso potè, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua strada fino a Milano.Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato.«Signore….» disse, tentennando, il Griso.«Che? non ho io parlato chiaro?»«Se potesse mandar qualchedun altro….»«Come?»«Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi.»«Ebbene?»«Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch’io ho addosso: e…. Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi portan rispetto; e anch’io…. è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto…. li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza…. ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi.»«Che diavolo!» disse don Rodrigo: «tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanarsi!»«Credo, signor padrone, d’aver date prove….»«Dunque!»«Dunque,» ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, «dunque vossignoria faccia conto ch’io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire.»«E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio…. lo Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuol che non sia contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.»Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,Leva il muso, odorando il vento infido.se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda, e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l’ ho preso, perchè mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti.L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, nè metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio.—Le gride son tante!—pensava:—e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome.—Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all’uomo più abile a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodochè, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un’immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: «di grazia, quel signore.»«Che volete, bravo giovine?»«Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura?»L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto nulla, in gran fretta, chè non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: «figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate.» Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette dicendo: «siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo giovine.» E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendio irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacchè, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodochè, se non avesse sentito un ronzío lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, nè, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina.—Grand’abbondanza,—disse tra sè,—ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna.—Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarle pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perchè, diamine! non era luogo da pani quello.—Vediamo un po’ che affare è questo,—disse ancora tra sè; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità.—È pane davvero!—disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia:—così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo?—Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito.—Lo piglio?—deliberava tra sè:—poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò.—Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt’e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt’e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa. L’uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodochè, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt’e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva.«Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei,» disse la madre, digrignando i denti verso il ragazzo.«Io non li butto via; cascan da sè: com’ho a fare?» rispose quello.«Ih! buon per te, che ho le mani impicciate,» riprese la donna, dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. «Via, via,» disse l’uomo: «torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace.»Intanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: «dove si va a prendere il pane?»«Più avanti,» rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: «questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.»«Un po’ per uno, tormento che sei,» disse il marito: «abbondanza, abbondanza.»Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch’era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell’andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per arrivare al convento.Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era.«Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo.»«Date qui,» disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.«No, no,» disse Renzo: «gliela devo consegnare in proprie mani.»«Non è in convento.»«Mi lasci entrare, che l’aspetterò.»«Fate a mio modo,» rispose il frate: «andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, per adesso, non s’entra.» E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichío era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore.—Andiamo a vedere,—disse tra sè; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s’incammina, noi racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento.CAPITOLO XII.Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla nè affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperío della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sè e per gli altri, eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’ordinario; perchè le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinío che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vôto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno nè in cielo, nè in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, nè di far venir derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava o cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue voci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sè una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatrè lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all’esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che danno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perchè il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, nè che avessero molta paura; bisognava potere: e, un po’ più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l’iniquità e l’insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s’erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell’abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacchè, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendio. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest’altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi.Non mancava altro che un’occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov’era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. «Ecco se c’è il pane!» gridarono cento voci insieme. «Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morir noi di fame,» dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della gerla, dà una stratta, e dice: «lascia vedere.» Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. «Giù quella gerla,» si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. «Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi,» dice il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c’eran coloro che avevan fatto disegno sopra un disordine più co’ fiocchi. «Al forno! al forno!» si grida.Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono[20]. A quella parte s’avventò la gente. Quelli della bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestío e un urlío insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada.Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: «pane! pane! aprite! aprite!»Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. «Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia,» grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodochè quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega.«Ma figliuoli,» predicava di lì il capitano, «che fate qui? A casa, a casa. Dov’è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di bene, nè per l’anima, nè per il corpo. A casa, a casa.»Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com’erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. «Fateli dare addietro ch’io possa riprender fiato,» diceva agli alabardieri: «ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro.»«Indietro! indietro!» gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano, si tirano indietro, come possono; danno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigío, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vôto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch’essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio!«Figliuoli,» grida: molti si voltano in su; «figliuoli, andate a casa. Perdono generale a chi torna subito a casa.»«Pane! pane! aprite! aprite!» eran le parole più distinte nell’urlío orrendo, che la folla mandava in risposta.«Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!… eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi…. Ah canaglia!»«Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente?»… (pag. 185).Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. «Canaglia! canaglia!» continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz’aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata.Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perchè smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacchè la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.«Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi! Ahimè! Ohi! Ora, ora!» s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti.La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno invece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne rimarrà. La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: «aspetta, aspetta,» si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverío che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n’andassero. E quelli se n’andavano, non tanto perchè fosser soddisfatti, quanto perchè gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato forno; perchè tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell’impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura.A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel ronzío confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece.«Ora è scoperta,» gridava uno, «l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era nè pane, nè farina, nè grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza!»«Vi dico io che tutto questo non serve a nulla,» diceva un altro: «è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto nella giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori.»Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.«Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli.» Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo.«Io?» diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: «io me la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o doman l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c’è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca.»«Quello che protegge i fornai,» gridava una voce sonora, che attirò l’attenzione di Renzo, «è il vicario di provvisione.»«Son tutti birboni,» diceva un vicino.«Sì; ma il capo è lui,» replicava il primo.Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona. Chi occupava un tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d’ignoranza, esser detto l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.«Scellerati!» esclamava un altro: «si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.»«Pane eh?» diceva uno che cercava d’andar in fretta: «sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia.»Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodochè potè contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta.—Questa poi non è una bella cosa,—disse Renzo tra sè:—se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?—Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: «largo, largo,» passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva.—Cos’è quest’altra storia?—pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c’erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d’osservar gli avvenimenti non potè fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s’andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c’era uno spazio vôto, e in mezzo, un mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione.L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s’addensa; la fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. «Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il pane!»Veramente, la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion de’ forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero gli era venuto da principio, e gli tornava, come abbiam visto, ogni momento. Lo tenne per altro in sè; perchè, di tanti visi, non ce n’era uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi che l’avrò caro.Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio (una piazzetta e un crocicchio non molto distante di lì), s’era messo l’assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: «io vo; tu, vai? vengo; andiamo,» si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest’altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso.Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furono stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella via de’ Fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva tornare indietro, chi diceva: «avanti, avanti.» C’era un incalzare e un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzío confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: «c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco.» Parve il rammentarsi comune d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. «Dal vicario! dal vicario!» è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov’era la casa nominata in un così cattivo punto.CAPITOLO XIII.Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco; e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine, da un momento all’altro. L’urlío crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel vôto cortile; ogni buco della casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta.«Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!»Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato, stava attento, attento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il tumulto s’acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sè, stringendo i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta…. Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacchè era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c’è avvezza.Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli picchiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacchè, per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all’estremità della folla. L’ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorío; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irresolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell’impresa; gli spettatori non cessavano d’animarla con gli urli.«Ferrer! Ferrer!»… (pag. 193).Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.«Oibò! vergogna!» scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benchè muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. «Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!»«Ah cane! ah traditor della patria!» gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. «Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dalli, dalli!» Cento voci si spargono all’intorno. «Cos’è? dov’è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov’è? dov’è? dalli, dalli!»Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un «largo, largo,» che si sentì gridar lì vicino: «largo! è qui l’aiuto: largo, ohe!»Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: «animo! andiamo!» La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura.Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a un’estremità, si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: «Ferrer! Ferrer!» Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega; chi benedice, chi bestemmia.«È qui Ferrer!—Non è vero, non è vero!—Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato.—No, no!—È qui, è qui in carrozza.—Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno!—Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario.—No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro!—Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario!»E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano nè più nè meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano.In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere, il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata.Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio: propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro: non vorrebbero che il tumulto avesse nè fine nè misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte. Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l’apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più nè forza, nè motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi.I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a loro parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. «Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c’è di quelli che schiamazzano più degli altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer!» E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s’impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il vicario, «per andar subito…. in prigione: ehm, avete inteso?»«È quel Ferrer che aiuta a far le gride?» domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale.«Già: il gran cancelliere» gli fu risposto.«È un galantuomo, n’è vero?»«Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste.»Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza.Era questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabili e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a spenderlo anche in quest’occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzío di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S’aiutava dunque co’ gesti, ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano le sue parole: «pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia.» Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si tirava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sè:—por mi vida, que de gente!—«Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane!»«Sì; pane, pane,» rispondeva Ferrer: «abbondanza; lo prometto io,» e metteva la mano al petto.«Un po’ di luogo,» aggiungeva subito: «vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita:» e soggiungeva sottovoce «si es culpable.» Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: «adelante, Pedro, si puedes.»Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’incomodi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco. «Di grazia,» diceva anche lui, «signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare.»Intanto i benevoli più attivi s’adopravano a far fare il luogo chiesto così gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevan ritirar le persone, con buone parole, con un metter le mani sui petti, con certe spinte soavi: «in là, via, un po’ di luogo, signori;» alcuni facevan lo stesso dalle due parti della carrozza, perchè potesse passare senza arrotar piedi, nè ammaccar mostacci; che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge d’Antonio Ferver.Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; «venite pure avanti,» diceva più d’uno al cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. «Adelante, presto, con juicio,» gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer.La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici; ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettío d’un fuoco artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover essere più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta la strada. «Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato…. si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asi es…. così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos: non si facciano male, signori. Pedro, adelante con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione. Cosa?» domandava poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo sportello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevere il «cosa?», era stato tirato indietro da uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari.Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio vôto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, potè collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere.Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e scombaciati nel mezzo, lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva insieme. Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa, s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo, uscì, e scese sul predellino.La folla, da una parte e dall’altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: «pane e giustizia;» e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che andavano alle stelle.Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d’aprire, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il desideratissimo ospite. «Presto, presto,» diceva lui: «aprite bene, ch’io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente, non mi lasciate venire addosso…. per l’amor del cielo! Serbate un po’ di largo per tra poco…. Ehi! ehi! signori, un momento,» diceva poi ancora a quelli di dentro: «adagio con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga!» Sarebbe infatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca inseguita.Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vôta, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto.«Presto, presto,» diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno ansanti, gridando: «sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!»«Presto, presto,» ripeteva Ferrer: «dov’è questo benedett’uomo?»Il vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come potè, verso Ferrer, dicendo: «sono nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c’è gente che mi vuol morto.»«Venga usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto.» Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sè:—aqui està el busilis; Dios nos valga!—La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vôta, fanno ora, con un alzar di mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni.La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto ingegnati a preparare e a mantener come una corsia nel mezzo della folla, che la carrozza potè, questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella.Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere, per occupare e attirare a sè tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. «Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà! Por ablandarlos. È troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. Anch’io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male…. si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera.»Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacchè sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: «beso a usted las manos:» parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perchè l’ufiziale non intendeva il latino.A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: «ohe! ohe!» senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello.«Levantese, levantese; estamos ya fuera,» disse Ferrer al vicario; il quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questo, dopo essersi condoluto con lui del pericolo, e rallegrato della salvezza: «ah!» esclamò, battendo la mano sulla sua zucca monda, «que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe.»«Ah! per me, non voglio più impicciarmene,» diceva il vicario: «me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale.»«Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad,» rispose gravemente il gran cancelliere.«Sua maestà non vorrà la mia morte,» replicava il vicario: «in una grotta, in una grotta; lontano da costoro.»Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi.CAPITOLO XIV.La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s’allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di stretta; chi, in cerca d’amici, per ciarlare de’ gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s’andava facendo dall’altro sbocco della strada, nella quale la gente restò abbastanza rada perchè quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi e postarsi alla casa del vicario. Accosto a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d’una fine così fredda e così imperfetta d’un così grand’apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch’era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All’arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se n’andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a’ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c’eran due o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava; là tutto un crocchio si moveva insieme; era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: «non abbiate paura, che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo;» chi più stizzosamente mormorava che non s’eran fatte le cose a dovere, ch’era un inganno, e ch’era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d’un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo aver aiutato il passaggio della carrozza, finchè c’era stato bisogno d’aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file de’ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e fuor di pericolo; fece un po’ di strada con la folla, e n’uscì, alla prima cantonata, per respirare anche lui un po’ liberamente. Fatto ch’ebbe pochi passi al largo, in mezzo all’agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra, cercando un’insegna d’osteria; giacchè, per andare al convento de’ cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non potè tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, «signori miei!» gridò, in tono d’esordio: «devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacchè oggi s’è visto chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cercar la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte.»«Pur troppo,» disse una voce.«Lo dicevo io,» riprese Renzo: «già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sè. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un diavolo là, non vorrà essere un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi danno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perchè c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una grida con tanto d’arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d’ognuno c’era sotto il suo nome bell’e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co’ miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com’era l’intenzione di que’ tre signori, tra i quali c’era anche Ferrer, questo signor dottore, che m’aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride, devono aver piacere che s’ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s’è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l’arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei?»Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall’esordio, una gran parte de’ radunati, sospeso ogni altro discorso, s’eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d’applausi, di «bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo,» fu come la risposta dell’udienza. Non mancaron però i critici. «Eh sì,» diceva uno: «dar retta a’ montanari: son tutti avvocati;» e se ne andava. «Ora,» mormorava un altro, «ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non s’avrà il pane a buon mercato, che è quello per cui ci siam mossi.» Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l’altra. «A rivederci a domani.—Dove?—Sulla piazza del duomo.—Va bene.—Va bene.—E qualcosa si farà.—E qualcosa si farà.»«Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormir da povero figliuolo?» disse Renzo.«Son qui io a servirvi, quel bravo giovine,» disse uno, che aveva ascoltata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. «Conosco appunto un’osteria che farà al caso vostro: e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo.»«Qui vicino?» domandò Renzo. «Poco distante,» rispose colui.La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.«Di che cosa?» diceva colui: «una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo?» E camminando, faceva a Renzo, in aria di discorso, ora una, ora un’altra domanda. «Non per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?»«Vengo,» rispose Renzo, «fino, fino da Lecco.»«Fin da Lecco? Di Lecco siete?»«Di Lecco…. cioè del territorio.»«Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da’ vostri discorsi, ve n’hanno fatte delle grosse.»«Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po’ di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma…. basta, qualche giorno si saprà; e allora…. Ma qui vedo un’insegna d’osteria; e, in fede mia, non ho voglia d’andar più lontano.»«No, no; venite dov’ho detto io, che c’è poco,» disse la guida: «qui non istareste bene.»«Eh, sì;» rispose il giovine: «non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l’uno e l’altro. Alla provvidenza!» Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. «Bene; vi condurrò qui, giacchè vi piace così,» disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.«Non occorre che v’incomodiate di più,» rispose Renzo.«Però, «soggiunse, «se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.»«Accetterò le vostre grazie,» rispose colui; e andò, come più pratico del luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s’accostò all’uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, apri, e v’entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente:—noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private.—Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida,—maledetto!—disse tra sè:—che tu m’abbia a venir sempre tra piedi, quando meno ti vorrei!—Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sè:—non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò.—Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.«Cosa comandan questi signori?» disse ad alta voce.«Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero,» disse Renzo: «e poi un boccone.» Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e mandò un «ah!» sonoro, come se volesse dire: fa bene un po’ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l’ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l’oste col vino. Il compagno s’era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescè subito da bere, dicendo: «per bagnar le labbra.» E riempito l’altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.«Cosa mi darete da mangiare?» disse poi all’oste.«Ho dello stufato: vi piace?» disse questo.«Sì, bravo; dello stufato.»«Sarete servito,» disse l’oste a Renzo; e al garzone: «servite questo forestiero.» E s’avviò verso il cammino. «Ma….» riprese poi, tornando verso Renzo: «ma pane, non ce n’ho in questa giornata.»«Al pane,» disse Renzo, ad alta voce e ridendo, «ci ha pensato la provvidenza.» E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: «ecco il pane della provvidenza!»All’esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: «viva il pane a buon mercato!»«A buon mercato?» disse Renzo: «gratis et amore.»«Meglio, meglio.»«Ma,» soggiunse subito Renzo: «non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch’io l’abbia, come si suol dire, sgraffignato. L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.»«Bravo! bravo!» gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno dei quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.«Credono ch’io canzoni; ma l’è proprio così,» disse Renzo alla sua guida; e, girando in mano quel pane, soggiunse: «vedete come l’hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n’era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han l’ossa un po’ tenere, saranno stati freschi.» E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: «da sè non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola tanto secca. S’è fatto un gran gridare!»«Preparate un buon letto a questo bravo giovine,» disse la guida: «perchè ha intenzione di dormir qui.»«Volete dormir qui?» domandò l’oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.«Sicuro,» rispose Renzo: «un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di bucato; perchè son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.»«Oh, in quanto a questo!» disse l’oste: andò al banco, ch’era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell’altra.«Cosa vuol dir questo?» esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: «è il lenzolo di bucato, codesto?»L’oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: «fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria.»«Cosa?» disse Renzo: «cosa c’entrano codeste storie col letto?»«Io fo il mio dovere,» disse l’oste, guardando in viso alla guida: «noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi…. quanto tempo ha di fermarsi in questa città…. Son parole della grida.»Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d’ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse: «ah ah! avete la grida! E io fo conto d’esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride.»«Dico davvero,» disse l’oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.«Ah! ecco!» esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l’altra mano, con un dito teso, verso la grida: «ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo.» (In cima alle gride si metteva allora l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola.) «Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don…. basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buoni buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d’altri furfanti: perchè se fosse solo….» e qui finì la frase con un gesto: «se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.»L’oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: «ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest’imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perchè questo è fesso.» Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: «senti, senti, oste, come crocchia.»Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l’attenzione di quelli che gli stavan d’intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.«Cosa devo fare?» disse l’oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui.«Via, via,» gridaron molti di que’ compagnoni: «ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova oggi, legge nuova.»In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all’oste un’occhiata di rimprovero, per quell’interrogazione troppo scoperta, disse: «lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene.»«Ho fatto il mio dovere,» disse l’oste, forte; e poi tra sè:—ora ho le spalle al muro.—E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco vôto, per consegnarlo al garzone.«Porta del medesimo,» disse Renzo: «che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.»«Del medesimo,» disse l’oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino.—Altro che lepre!—pensava, istoriando di nuovo la cenere:—e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi affogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie.—Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. «Bravi amici!» disse: «ora vedo proprio che i galantuomini si danno la mano, e si sostengono.» Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, «gran cosa,» esclamò, «che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!»«Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione?» disse ridendo uno di que’ giocatori, che vinceva.«Sentiamo un poco,» rispose Renzo.«La ragione è questa,» disse colui: «che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano.»Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.«To’» disse Renzo: «è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch’io, e qualche volta ne dico delle curiose…. ma quando le cose vanno bene.»Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?«Ma la ragione giusta la dirò io,» soggiunse Renzo: «è perchè la penna la tengon loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po’ di…. so io quel che voglio dire….» e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte con la punta dell’indice; «e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dell’usanze! Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia.»Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se n’andavano; altra gente arrivava; l’oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva l’ora d’andarsene; non aveva, a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d’aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. «Eh! se comandassi io,» disse, «lo troverei il verso di fare andar le cose bene.»«Come vorreste fare?» domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po’ la bocca, come per star più attento.«Come vorrei fare?» disse colui: «vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per i ricchi.»«Ah! così va bene,» disse Renzo.«Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire il pane in ragione delle bocche: perchè c’è degl’ingordi indiscreti, che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per…. il vostro nome?»«Lorenzo Tramaglino,» disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle persone.«Benissimo,» disse lo sconosciuto; «ma avete moglie e figliuoli?»«Dovrei bene…. figliuoli no…. troppo presto…. ma la moglie…. se il mondo andasse come dovrebbe andare…..»«Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.»«È giusto; ma se presto, come spero…. e con l’aiuto di Dio…. Basta; quando avessi moglie anch’io?»«Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v’ho detto; sempre in ragion delle bocche,» disse lo sconosciuto, alzandosi.«Così va bene,» gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: «e perchè non la fanno una legge così?»«Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perchè penso che la moglie e i figliuoli m’aspetteranno da un pezzo.»«Un altro gocciolino, un altro gocciolino,» gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. «Un altro gocciolino: non mi fate quest’affronto.»Ma l’amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio d’istanze e di rimproveri, disse di nuovo: «buona notte,» e se n’andò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare, disse: «ecco, l’avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso, proprio da amico; ma non l’ha voluto. Alle volte, la gente ha dell’idee curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l’ho fatto vedere. Ora, giacchè la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male.» Così detto, lo prese, e lo votò in un sorso.«Ho inteso,» disse il garzone, andandosene.«Ah! avete inteso anche voi,» riprese Renzo: «dunque è vero. Quando le ragioni son giuste…!»Qui è necessario tutto l’amore che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d’imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch’era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que’ pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’ esercitato non avrebbero fatto altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allontani, se ne risente subito; dimodochè se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno sproposito gli serve di scola.Comunque sia, quando que’ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, l’uno in giù e l’altre in su, senza misura nè regola: e, al punto a cui l’abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e s’eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero che s’era presentato vivo e risoluto alla sua mente, s’annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que’ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica…..tanto che divenne lo zimbello della brigata. (pag. 218).Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perchè, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato.«Ah oste, oste!» ricominciò, accompagnandolo con l’occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata: «oste che tu sei! Non posso mandarla giù…. quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio…! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto…. di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figliuoli…. Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone…. per la ragione…. Ridono eh? Ho un po’ di brio, sì…. ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n’è vero? dico bene? Guarda un po’ se que’ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino.»«Tutta gente che beve acqua,» disse un vicino di Renzo.«Vogliono stare in sè,» soggiunse un altro, «per poter dir le bugie a dovere.»«Ah!» gridò Renzo: «ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d’un quattrino? E quel cane assassino di don…? Sto zitto, perchè sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr…. so io, son due galantuomini; ma ce n’è pochi de’ galantuomini. I vecchi peggio de’ giovani; e i giovani…. peggio ancora de’ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni ma…. ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!… Eppure, anche Ferrer…. qualche parolina in latino…. siés baraòs trapolorum…. Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!… Là ci volevano que’ galantuomini…. quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve’, allora. Tenerlo lì quel signor curato…. So io a chi penso!»A questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi n’era l’oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevan cominciato a prendersi spasso dell’eloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n’era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l’uno or l’altro a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno d’averselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt’altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodochè anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: chè troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.CAPITOLO XV.L’oste, vedendo che il gioco andava in lungo, s’era accostato a Renzo; e pregando, con buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l’andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co’ buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po’ più distintamente il bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po’ di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n’era andato: a un di presso come l’ultimo moccolo rimasto acceso d’un’illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d’alzarsi; sospirò, barcollò; alla terza, sorretto dall’oste, si rizzò. Quello, reggendolo tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un lume, con l’altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l’uscio di scala. Lì Renzo, al chiasso de’ saluti che coloro gli urlavan dietro, si voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e con l’altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo nell’aria certi saluti, a guisa d’un nodo di Salomone.«Andiamo a letto, a letto,» disse l’oste, strascicandolo; gli fece imboccar l’uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l’aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste, con due occhietti che ora scintillavan più che mai, ora s’ecclissavano, come due lucciole; cercò d’equilibrarsi sulle gambe; e stese la mano al viso dell’oste, per prendergli il ganascino, in segno d’amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. «Bravo oste!» gli riuscì però di dire: «ora vedo che sei un galantuomo: questa è un’opera buona, dare un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m’hai fatta, sul nome e cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch’io son furbo la mia parte….»L’oste, il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo. «Figliuolo caro,» disse, con una voce e con un fare tutto gentile: «non l’ho fatto per seccarvi, nè per sapere i fatti vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e…. Di che si tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a me: via; qui tra noi, a quattr’occhi, facciam le nostre cose; ditemi il vostro nome, e…. e poi andate a letto col cuor quieto.»«Ah birbone!» esclamò Renzo: «mariolo! tu mi torni ancora in campo con quell’infamità del nome, cognome e negozio!»«Sta zitto, buffone; va a letto,» diceva l’oste.Ma Renzo continuava più forte: «ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta, aspetta, che t’accomodo io.» E voltando la testa verso la scaletta, cominciava a urlare più forte ancora: «amici! l’oste è della….»«Ho detto per celia,» gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto: «per celia; non hai inteso che ho detto per celia?»«Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia…. Son proprio celie.» E cadde bocconi sul letto.«Animo; spogliatevi; presto,» disse l’oste, e al consiglio aggiunse l’aiuto; che ce n’era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto, (e ce ne volle) l’oste l’agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c’era il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto a fare i conti con tutt’altri che con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di concluder quest’altro affare.«Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è v’ero?» disse.«Buon figliuolo, galantuomo,» rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potuto levare.«Bene,» replicò l’oste: «saldate ora dunque quel poco conticino, perchè domani io devo uscire per certi miei affari….»«Quest’è giusto,» disse Renzo. «Son furbo, ma galantuomo…. Ma i danari? Andare a cercare i danari ora!»«Eccoli qui,» disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi.«Dammi una mano, ch’io possa finir di spogliarmi, oste,» disse Renzo. «Lo vedo anch’io, ve’, che ho addosso un gran sonno.»L’oste gli diede l’aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta, addosso, e gli disse sgarbatamente «buona notte,» che già quello russava. Poi, per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell’atto a un dipresso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. «Pezzo d’asino!» disse nella sua mente al povero addormentato: «sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.»Così detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l’uscio a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l’ostessa; alla quale disse che lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a far le sue veci. «Bisogna ch’io vada fuori, in grazia d’un forestiero capitato qui, non so come diavolo, per mia disgrazia,» soggiunse; e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: «occhio a tutto; e sopra tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di tutti i colori. Basta, se qualche temerario….»«Oh! non sono una bambina, e so anch’io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire….»«Bene, bene; e badar che paghino; e tutti que’ discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perchè, se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più grosse…. Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire: vengo; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte. Io cercherò di tornare più presto che posso.»Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un’occhiata in giro, per veder se c’era novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un randello da un cantuccio, ricapitolò con un’altra occhiata alla moglie, l’istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni, aveva ripreso, dentro di sè, il filo dell’apostrofe cominciata al letto del povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada.—Testardo d’un montanaro!—Chè, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo, questa qualità si manifestava da sè, nelle parole, nella pronunzia, nell’aspetto e negli atti.—Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e dovevi venir tu sulla fine, a guastarmi l’uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio per questa sera; e domattina t’avrei fatto intender la ragione. Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio!—A ogni passo, l’oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sè:—eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c’è mancato poco che non m’hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una mia curiosità! Cosa m’importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a voler le cose a modo vostro. Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per ispenderli così bene; da essere applicati, per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all’arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie.—A queste parole, l’oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.Lì, come a tutti gli altri ufizi, c’era un gran da fare: per tutto s’attendeva a dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare i pretesti e l’ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite a adoprarla. S’accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S’ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedirono staffette a’ paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl’inquieti, con l’autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d’acqua vulneraria sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto l’oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come avete visto. Potè però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e patria, oltre cent’altre belle notizie congetturali; dimodochè, quando l’oste capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno Renzo, ne sapevan già più di lui. Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo nome.«Avete fatto il vostro dovere a informar la giustizia;» disse un notaio criminale, mettendo giù la penna, «ma già lo sapevamo.»—Bel segreto!—pensò l’oste:—ci vuole un gran talento!—«E sappiamo anche,» continuò il notaio, «quel riverito nome.»—Diavolo! il nome poi, com’hanno fatto?—pensò l’oste questa volta.«Ma voi,» riprese l’altro, con volto serio, «voi non dite tutto sinceramente.»«Cosa devo dire di più?»«Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.»«Vien uno con un pane in tasca; so assai dov’è andato a prenderlo. Perchè, a parlar come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.»«Già; sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?»«Cosa ho da provare io? io non c’entro: io fo l’oste.»«Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti contro l’ arme di sua eccellenza.»«Lorenzo Tramaglino!» disse Renzo Tramaglino: «cosa vuol dir questo?»… (pag. 226).«Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? E il diavolo, con rispetto parlando, che l’ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di domandargli il suo nome.»«Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.»«Come vuole vossignoria ch’io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che parlan tutti insieme? Io devo attendere a’ miei interessi, che sono un pover’uomo. E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e….»«Sì, sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il ruzzo. Cosa credete?»«Io non credo nulla.»«Che la canaglia sia diventata padrona di Milano?»«Oh giusto!»«Vedrete, vedrete.»«Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.»«Avete ancora molta gente in casa?»«Un visibilio.»«E quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a preparar tumulti per domani?»«Quel forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.»«Dunque avete molta gente…. Basta; badate a non lasciarlo scappare.»—Che devo fare il birro io?—pensò l’oste; ma non disse nè sì nè no.«Tornate pure a casa; e abbiate giudizio,» riprese il notaio.«Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla giustizia.»«E non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.»«Io? per carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste.»«La solita canzone: non avete mai altro da dire.»«Che ho da dire altro? La verità è una sola.»«Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato.»«Cosa ho da informare? io non so nulla; appena ho la testa da attendere ai fatti miei.»«Badate a non lasciarlo partire.»«Spero che l’illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria.»Allo spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett’ore, ed era ancora, poveretto! sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del letto gridava: «Lorenzo Tramaglino!», lo fecero riscotere. Si risentì, ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto.«Ah! avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino?» disse l’uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera avanti. «Animo dunque; levatevi, e venite con noi.»«Lorenzo Tramaglino!» disse Renzo Tramaglino: «cosa vuol dir questo? Cosa volete da me? Chi v’ha detto il mio nome?»«Meno ciarle, e fate presto,» disse uno de’ birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio.«Ohe! che prepotenza è questa?» gridò Renzo, ritirando il braccio. «Oste! o l’oste!»«Lo portiam via in camicia?» disse ancora quel birro, voltandosi al notaio.«Avete inteso?» disse questo a Renzo: «si farà così, se non vi levate subito subito, per venir con noi.»«E perchè?» domandò Renzo.«Il perchè lo sentirete dal signor capitano di giustizia.»«Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio….»«Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete andarvene per i fatti vostri.»«Mi lascino andare ora,» disse Renzo: «io non ho che far nulla con la giustizia.»«Orsù, finiamola!» disse un birro.«Lo portiamo via davvero?» disse l’altro.«Lorenzo Tramaglino!» disse il notaio.«Come sa il mio nome, vossignoria?»«Fate il vostro dovere,» disse il notaio a’ birri; i quali misero subito le mani addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto.«Eh! non toccate la carne d’un galantuomo, che…! Mi so vestir da me.»«Dunque vestitevi subito,» disse il notaio.«Mi vesto,» rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e là i panni sparsi sul letto, come gli avanzi d’un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo: «ma io non ci voglio andare dal capitano di giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacchè mi si fa quest’affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni.»«Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer,» rispose il notaio. In altre circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d’una richiesta simile; ma non era momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d’una sollevazione non del tutto sedata, o princìpi d’una nuova: uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzío andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d’amore e d’accordo; giacchè, se si fosse venuti a guerra aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi tre contr’uno. Perciò dava d’occhio a’ birri, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi, come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perchè la giustizia avesse preso tant’animo, da venire a colpo sicuro, a metter le mani addosso a uno de’ buoni figliuoli che, il giorno avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti addormentati, poichè Renzo s’accorgeva anche lui d’un ronzío crescente nella strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in lungo, e anche per tentare un colpo, disse: «vedo bene cos’è l’origine di tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un po’ allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta d’altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio nome. Chi diamine gliel ha detto?»«Bravo, figliuolo, bravo!» rispose il notaio, tutto manieroso: «vedo che avete giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che tant’altri. È la miglior maniera d’uscirne presto e bene: con codeste buone disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io, vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei. Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e poi io dirò…. Lasciate fare a me…. Basta; sbrigatevi, figliuolo.»«Ah! lei non può: intendo,» disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con de’ cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso per farlo spicciare.«Passeremo dalla piazza del duomo?» domandò poi al notaio.«Di dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà,» disse quello, rodendosi dentro di sè, di dover lasciar cadere in terra quella domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni.—Quando uno nasce disgraziato!—pensava.—Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po’ di respiro che s’avesse, così extra formam, accademicamente, in via di discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell’e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l’appunto capitare in un momento così angustiato. Eh! non c’è scampo,—continuava a pensare, tendendo gli orecchi, e piegando la testa all’indietro:—non c’è rimedio; e’ risica d’essere una giornata peggio di ieri.—Ciò che lo fece pensar così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada; e non potè tenersi di non aprir l’impannata, per dare un’occhiatina. Vide ch’era un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l’impannata e stette un momento in forse, se dovesse condur l’impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de’ due birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva.—Ma,—pensò subito,—mi si dirà che sono un buon a nulla, un pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare. Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere!—Renzo era levato; i due satelliti gli stavano a’ fianchi. Il notaio accennò a costoro che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: «da bravo, figliuolo; a noi, spicciatevi.»Anche Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra nelle tasche. «Ohe!» disse, guardando il notaio, con un viso molto significante: «qui c’era de’ soldi e una lettera. Signor mio!»«Vi sarà dato ogni cosa puntualmente,» disse il notaio, «dopo adempite quelle poche formalità. Andiamo, andiamo.»«No, no, no,» disse Renzo, tentennando il capo: «questa non mi va: voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.»«Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto,» disse il notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra’ denti: «alla larga! bazzicate tanto co’ ladri, che avete un poco imparato il mestiere.» I birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli occhi, e diceva intanto tra sè:—se tu arrivi a metter piede dentro quella soglia, l’hai da pagar con usura, l’hai da pagare.—Mentre Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un de’ birri, che s’avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi l’altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice: «e quest’oste benedetto dove s’è cacciato?» il notaio fa un altro cenno a’ birri; i quali afferrano, l’uno la destra, l’altro la sinistra del giovine, e in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po’ più che il giro d’un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con ciò aveva mezzo, non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi.Renzo si divincola, grida: «che tradimento è questo? A un galantuomo…!» Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, «abbiate pazienza,» diceva: «fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di voi. Abbiate pazienza.»Mentre parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a’ legnetti. Renzo s’acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le morse, e esclamò: «pazienza!»«Bravo figliuolo!» disse il notaio: «questa è la vera maniera d’uscirne a bene. Cosa volete? è una seccatura; lo vedo anch’io; ma, portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacchè vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s’avvede di quel che è, e voi conservate il vostro onore. Di qui a un’ora voi siete in libertà: c’è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi parlerò io…. Ve n’andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi altri,» continuò poi, voltandosi a’ birri, con un viso severo: «guardate bene di non fargli male, perchè lo proteggo io: il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo, un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s’avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso.» E, con tono imperativo, e con sopracciglio minaccioso, concluse: «m’avete inteso.» Voltatosi poi a Renzo, col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: «giudizio; fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo.» E la comitiva s’avviò.Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: nè che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, nè che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, nè che avesse intenzion d’aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani, metteva innanzi que’ bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da approfittarne. Dimodochè tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario.Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perchè s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre un altro a fare una cosa per sè sospetta, fosse andato suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di dargli un parere disinteressato, da amico. Ma è una tendenza generale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe fare per levarli d’impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que’ ritrovati maestri, quelle belle malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza d’animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l’applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta, all’impazzata, senza garbo nè grazia. Di maniera che a uno che li veda ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l’uomo che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sè, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a’ furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d’esser sempre i più forti, che è la più sicura.Renzo adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non c’era però concorso straordinario; e benchè sul viso di più d’un passeggiero si potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c’era.«Giudizio, giudizio!» gli susurrava il notaio dietro le spalle: «il vostro onore; l’onore, figliuolo.» Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con visi accesi, sentì che parlavan d’un forno, di farina nascosta, di giustizia, cominciò anche a far loro de’ cenni col viso, e a tossire in quel modo che indica tutt’altro che un raffreddore. Quelli guardarono più attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglio, tornavano indietro, e facevan coda.«Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione,» continuava a susurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.«Ahi! ahi! ahi!» grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. «È un malvivente,» bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: «è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia.» Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi,—se non m’aiuto ora, pensò, mio danno.—E subito alzò la voce: «figliuoli! mi menano in prigione, perchè ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli!»Un mormorío favorevole, voci più chiare di protezione s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più. Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: «cos’è stato?»«Uh corvaccio!» rispose colui. «Corvaccio! corvaccio!» risonò all’intorno. Alle grida s’aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in quel momento, d’esser fuori di quel serra serra.CAPITOLO XVI.«Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa; di qui, di là,» si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una speranza d’uscir da quell’unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato.—Perchè,—aveva pensato,—il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono.—E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri alle spalle.—Perchè, se posso essere uccel di bosco,—aveva anche pensato,—non voglio diventare uccel di gabbia.—Aveva dunque disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de’ suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su’ casi suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così obbligante, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche altro di quel conio; e risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, nè il perchè la domandasse. Disse a’ suoi liberatori: «grazie tante, figliuoli: siate benedetti,» e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sè era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzetto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant’è vero che all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente uno che veniva in fretta, pensò che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe subito, senz’altre chiacchiere; e sentendolo parlar da sè, giudicò che dovesse essere un uomo sincero. Gli s’accostò, e disse: «di grazia, quel signore, da che parte si va per andare a Bergamo?»«Per andare a Bergamo? Da porta orientale.»«Grazie tante; e per andare a porta orientale?»«Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi….»«Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito.» E diviato s’incamminò dalla parte che gli era stata indicata. L’altro gli guardò dietro un momento, e, accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse tra sè: —o n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui.—Renzo arriva sulla piazza del duomo; l’attraversa, passa accanto a un mucchio di cenere e di carboni spenti, e riconosce gli avanzi del falò di cui era stato spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il forno delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de’ cappuccini; dà un’occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice tra sè, sospirando:—m’aveva però dato un buon parere quel frate di ieri: che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po’ di bene.—Qui, essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva passare, e vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la fantasia un po’ riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi motivi), provò una certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo d’asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato; fu tentato fortemente d’entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò:—uccel di bosco, fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte.—Si voltò, per vedere se mai venissero da quella parte: non vide nè quelli, nè altri che paressero occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che volevan sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare; e adagio adagio, fischiando in semitono, arriva alla porta.C’era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, v’accorrono, come i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro.Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Bergamo; questo gli basta per ora. Ogni tanto si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e strofinando or l’uno or l’altro polso, ancora un po’ indolenziti, e segnati in giro d’una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avevan potuto risapere il suo nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si rammentava bene d’averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell’esibizioni che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi certezza. Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva dir altro che d’essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il poverino si smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de’ galantuomini; e scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de’ suoi affari; che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far sull’avvenire un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria, eran tutti malinconici.Ma ben presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sè non ne poteva uscire. Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece.«Siete fuor di strada,» gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a sinistra, e, come si dice a zig zag, parte seguendo l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di criminale.Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c’era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono; accettò lo stracchino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. Questa, in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: chè la voce n’era arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse incamminato.«Devo andare in molti luoghi,» rispose: «e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano…. Come si chiama?»—Qualcheduno ce ne sarà,—pensava intanto tra sè.«Gorgonzola, volete dire,» rispose la vecchia.«Gorgonzola!» ripetè Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. «È molto lontano di qui?» riprese poi.«Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.»«E credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove!»«A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta.» E glielo nominò.«Va bene;» disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera.Già cammin facendo, aveva disegnato di far lì un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più sostanzioso. Il corpo avrebbe anche gradito un po’ di letto; ma prima che contentarlo in questo, Renzo l’avrebbe lasciato cader rifinito sulla strada. Il suo proposito era d’informarsi all’osteria, della distanza dell’Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che mettesse là, e di rincamminarsi da quella parte, subito dopo essersi rinfrescato. Nato e cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un’ idea precisa; ma, allora come allora, l’affar più urgente era di passarlo, dovunque si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettessero: e d’aspettar poi l’alba, in un campo, in un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un’osteria.Fatti alcuni passi in Gorgonzola, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. «Vi prego di far presto,» soggiunse: «perchè ho bisogno di rimettermi subito in istrada.» E questo lo disse perchè non solo era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio…. Alla larga!L’oste rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: il posto de’ vergognosi.C’erano in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una sollevazione, nè soggiogata nè vittoriosa, sospesa più che terminata dalla notte; una cosa tronca, la fine d’un atto piuttosto che d’un dramma. Un di coloro si staccò dalla brigata, s’accostò al soprarrivato, e gli domandò se veniva da Milano.«Io?» disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere.«Voi, se la domanda è lecita.»Renzo, tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono inarticolato, disse: «Milano, da quel che ho sentito dire…. non dev’essere un luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necessità.»«Continua dunque anche oggi il fracasso?» domandò, con più istanza, il curioso.«Bisognerebbe esser là, per saperlo,» disse Renzo.«Ma voi, non venite da Milano?»«Vengo da Liscate,» rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perchè c’era passato; e il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola.«Oh!» disse l’amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma pazienza. «E a Liscate,» soggiunse, «non si sapeva niente di Milano?»«Potrebb’essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa,» rispose il montanaro: «ma io non ho sentito dir nulla.»E queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire: ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l’oste venne a mettere in tavola.«Quanto c’è di qui all’Adda?» gli disse Renzo, mezzo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.«All’Adda, per passare?» disse l’oste.«Cioè…. sì…. all’Adda.»«Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?»«Dove si sia…. Domando così per curiosità.»«Eh, volevo dire, perchè quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sè.»«Va bene: e quanto c’è?»«Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia.»«Sei miglia! non credevo tanto,» disse Renzo. «E già,» riprese poi, con un’aria d’indifferenza, portata fino all’affettazione: «e già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare?»….e subito dopo cominciò a tempestare il suo ospite di domande…. (pag. 238).«Ce n’è sicuro,» rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: «il vino è sincero?»«Come l’oro,» disse l’oste: «domandatene pure a tutta la gente del paese e del contorno, che se n’intende: e poi, lo sentirete.» E così dicendo, tornò verso la brigata.—Maledetti gli osti!—esclamò Renzo tra sè:—più ne conosco, peggio li trovo.—Non ostante si mise a mangiare con grand’appetito, stando, nello stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand’avvenimento nel quale egli aveva avuta non piccola parte, e d’osservare specialmente se, tra que’ parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse fidarsi di domandar la strada, senza timore d’esser messo alle strette, e forzato a ciarlare de’ fatti suoi.«Ma!» diceva uno: «questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa.»«Mi pento di non esser andato a Milano stamattina,» diceva un altro.«Se vai domani, vengo anch’io,» disse un terzo; poi un altro, poi un altro.«Quel che vorrei sapere,» riprese il primo, «è se que’ signori di Milano penseranno anche alla povera gente di campagna, o se faranno far la legge buona solamente per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: gli altri, come se non ci fossero.»«La bocca l’abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione,» disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era avanzata: «e quando la cosa sia incamminata….» Ma credette meglio di non finir la frase.«Del grano nascosto, non ce n’è solamente in Milano,» cominciava un altro, con un’aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti all’uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno incontro. Era un mercante di Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo, per i suoi traffichi, era solito passar la notte in quell’osteria; e siccome ci trovava quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s’affollano intorno; uno prende la briglia, un altro la staffa. «Ben arrivato, ben arrivato!»«Ben trovati.»«Avete fatto buon viaggio?»«Benissimo; e voi altri, come state?»«Bene, bene. Che nuove ci portate di Milano?«Ah! ecco quelli delle novità,» disse il mercante smontando, e lasciando il cavallo in mano d’un garzone. «E poi, e poi,» continuò, entrando con la compagnia, «a quest’ora le saprete forse meglio di me.»«Non sappiamo nulla, davvero,» disse più d’uno, mettendosi la mano al petto.«Possibile?» disse il mercante. «Dunque ne sentirete delle belle…. o delle brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino, e il mio solito boccone, subito; perchè voglio andare a letto presto, per partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l’ora del desinare. E voi altri,» continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava Renzo, zitto e attento, «voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ieri?»«Di ieri sì.»«Vedete dunque,» riprese il mercante, «se le sapete le novità. Lo dicevo io che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano….»«Ma oggi, com’è andata oggi?»«Ah oggi. Non sapete niente d’oggi?»«Niente affatto: non è passato nessuno.»«Dunque lasciatemi bagnar le labbra; e poi vi dirò le cose d’oggi. Sentirete.» Empi il bicchiere, lo prese con una mano, poi con le prime due dita dell’altra sollevò i baffi, poi si lisciò la barba, bevette, e riprese: «oggi, amici cari, ci mancò poco, che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E non mi par quasi vero d’esser qui a chiacchierar con voi altri; perchè avevo già messo da parte ogni pensiero di viaggio, per restare a guardar la mia povera bottega.»«Che diavolo c’era?» disse uno degli ascoltanti.«Proprio il diavolo: sentirete.» E trinciando la pietanza che gli era stata messa davanti, e poi mangiando, continuò il suo racconto. I compagni, ritti di qua e di là della tavola, lo stavano a sentire, con la bocca aperta; Renzo, al suo posto, senza che paresse suo fatto, stava attento, forse più di tutti, masticando adagio adagio gli ultimi suoi bocconi.«Stamattina dunque que’ birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si trovarono a’ posti convenuti (già c’era un’intelligenza: tutte cose preparate); si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girare di strada in strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va avanti. Quando parve loro d’esser gente abbastanza, s’avviarono verso la casa del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; e io lo posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della servitù. S’incamminaron dunque verso quella casa: bisognava veder che canaglia, che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che…. i giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il sacco; ma….» E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la punta del pollice alla punta del naso.«Ma?» dissero forse tutti gli ascoltatori.«Ma,» continuò il mercante, «trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e, dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibugi spianati per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparato…. Cosa avreste fatto voi altri?»«Tornare indietro.»«Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che, fin da ieri, avevan voluto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c’era chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch’io: in un batter d’occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra.»«E i micheletti?»«I micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare, e portar la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c’era buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta venne fuori.»«Con che cosa?»«Di fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa insieme. Detto fatto….»«Ci han dato fuoco?»«Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un’ispirazione dal cielo. Corse su nelle stanze, cercò d’un Crocifisso, lo trovò, l’attaccò all’archetto d’una finestra, prese da capo d’un letto due candele benedette, le accese, e le mise sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In un Milano bisogna dirla, c’è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sè. La più parte, voglio dire; c’era bensì de’ diavoli che, per rubare, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere, dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ora chi arrivò all’improvviso. Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale; e monsignor Mazenta, arciprete, cominciò a predicare da una parte, e monsignor Settala, penitenziere, da un’altra, e gli altri anche loro: ma, brava gente! ma cosa volete fare? ma è questo l’esempio che date a’ vostri figliuoli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma andate a vedere, che c’è l’avviso sulle cantonate.»«Era vero?»«Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir delle fandonie?»«E la gente cosa fece?»«A poco a poco se n’andarono; corsero alle cantonate; e, chi sapeva leggere, la c’era proprio la meta. Indovinate un poco: un pane d’ott’once per un soldo.»«Che bazza!»«La vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata a male, tra ieri e stamattina? Da mantenerne il ducato per due mesi.»«E per fuori di Milano, non s’è fatta nessuna legge buona?»«Quel che s’è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che vi dire: per voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto, i fracassi son finiti. Non v’ho detto tutto; ora viene il buono.»«Cosa c’è ancora?»«C’è che, ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti; e subito s’è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d’esser nel numero. Milano, quand’io ne sono uscito, pareva un convento di frati.»«Gl’impiccheranno poi davvero?»«Eccome! e presto,» rispose il mercante.«E la gente cosa farà?» domandò ancora colui che aveva fatta l’altra domanda.«La gente? anderà a vedere,» disse il mercante. «Avevan tanta voglia di veder morire un cristiano all’aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al signor vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con tutte le formalità, accompagnati da’ cappuccini, e da’ confratelli della buona morte; è gente che se l’è meritato. È una provvidenza, vedete; era una cosa necessaria. Cominciavan già a prender il vizio d’entrar nelle botteghe, e di servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano…. Pensate se coloro volevano smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi so dir io che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro.»«Davvero,» disse uno degli ascoltatori. «Davvero,» ripeteron gli altri, a una voce.«E,» continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, «l’era ordita da un pezzo; c’era una lega, sapete?»«C’era una lega?»«C’era una lega. Tutte cabale ordite da’ navarrini, da quel cardinale là di Francia, sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto, tende a far qualche tiro a Milano; perchè vede bene, il furbo, che qui sta la forza del re.»«Già.»«Ne volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano in giro facce, che in Milano non s’eran mai vedute. Anzi mi dimenticavo di dirvene una che m’è stata data per certa. La giustizia aveva acchiappato uno in un’osteria….» Renzo, il quale non perdeva un ette di quel discorso, al tocco di questa corda, si sentì venir freddo, e diede un guizzo, prima che potesse pensare a contenersi. Nessuno però se n’avvide; e il dicitore, senza interrompere il filo del racconto, seguitò: «uno che non si sa bene ancora da che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, nè che razza d’uomo si fosse; ma certo era uno de’ capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il diavolo; e poi, non contento di questo, s’era messo a predicare, e a proporre, così una galanteria, che s’ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia, che l’aveva appostato, gli mise l’unghie addosso; gli trovarono un fascio di lettere; e lo menavano in gabbia; ma che? i suoi compagni, che facevan la ronda intorno all’osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono, il manigoldo.»«E cosa n’è stato?»«Non si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha nè casa nè tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finchè il diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano; perchè, quando la pera è matura, convien che caschi. Per ora si sa di sicuro che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c’è descritta tutta la cabala; e si dice che n’anderà di mezzo molta gente. Peggio per loro; che hanno messo a soqquadro mezzo Milano, e volevano anche far peggio. Dicono che i fornai son birboni. Lo so anch’io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia. C’è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi comanda a tener buone spie, e andarlo a disotterrare, e mandare anche gl’incettatori a dar calci all’aria, in compagnia de’ fornai. E se chi comanda non fa nulla, tocca alla città a ricorrere; e se non danno retta alla prima, ricorrere ancora; che a forza di ricorrere s’ottiene; e non metter su un’usanza così scellerata d’entrar nelle botteghe e ne’ fondachi, a prender la roba a man salva.»A Renzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill’anni d’esser fuori e lontano da quell’osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva detto a sè stesso; andiamo, andiamo. Ma quella paura di dar sospetto, cresciuta allora oltremodo, e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, l’aveva tenuto sempre inchiodato sulla panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone doveva poi finire di parlar di lui; e concluse tra sè, di moversi, appena sentisse attaccare qualche altro discorso.«E per questo,» disse uno della brigata, «io che so come vanno queste faccende, e che ne’ tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere dalla curiosità, e son rimasto a casa mia.»«E io, mi son mosso?» disse un altro.«Io?» soggiunse un terzo: «Se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.»A questo punto, l’oste, ch’era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare, quantunque l’acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò diritto all’uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s’incamminò dalla parte opposta a quella per cui era venuto.CAPITOLO XVII.Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri erano in campo per dargli la caccia! quali ordini erano stati spediti di frugar ne’ paesi, nell’osterie, per le strade! Pensava bensì che finalmente i birri che lo conoscevano, eran due soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte; ma gli tornavano in mente certe storie che aveva sentite raccontare, di fuggitivi colti e scoperti per istrane combinazioni, riconosciuti all’andare, all’aria sospettosa, ad altri segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque nel momento che usciva di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi, diminuissero sempre più que’ pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la strada maestra, e si propose d’entrar nella prima viottola che gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada.—Ha detto sei miglia, colui,—pensava,—se andando fuor di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare, passo subito; altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta, come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione.—….s’accorde d’entrare in un bosco….(pag. 251).Ben presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v’entrò. A quell’ora, se si fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada lo conduceva; e pensava:—Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a viso a viso con quel mercante, di là dall’Adda (ah quando l’avrò passata quest’Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov’abbia pescate tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è andata così e così, e che il diavolo ch’io ho fatto, è stato d’aiutar Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que’ birboni che, a sentir voi, erano i miei amici, perchè in un certo momento, io dissi una parola da buon cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, intanto che voi stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l’ho mai nè visto nè conosciuto. Aspetta che mi mova un’altra volta per aiutar signori…. È vero che bisogna farlo per l’anima: son prossimo anche loro. E quel gran fascio di lettere, dove c’era tutta la cabala, e che adesso è in mano della giustizia, come voi sapete di certo; scommettiamo che ve lo fo comparir qui, senza l’aiuto del diavolo? Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo qui…. Una lettera sola?… Sì signore, una lettera sola; e questa lettera, se lo volete sapere, l’ha scritta un religioso che vi può insegnar la dottrina, quando si sia; un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra; e è scritta, questa lettera, come vedete, a un altro religioso, un uomo anche lui…. Vedete ora quali sono i furfanti miei amici. E imparate a parlare un’altra volta; principalmente quando si tratta del prossimo.—Ma dopo qualche tempo, questi pensieri ed altri simili cessarono affatto: le circostanze presenti occupavan tutte le facoltà del povero pellegrino. La paura d’essere inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio in pieno giorno, non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan questo molto più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s’era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell’andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l’aria, lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle, il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di picchiare, e di chieder ricovero. E forse, anche senza i cani, non ci si sarebbe risolto.—Chi è là?—pensava:—cosa volete a quest’ora? Come siete venuto qui? Fatevi conoscere. Non c’è osterie da alloggiare? Ecco, andandomi bene, quel che mi diranno, se picchio: quand’anche non ci dorma qualche pauroso che, a buon conto, si metta a gridare: aiuto! al ladro! Bisogna aver subito qualcosa di chiaro da rispondere: e cosa ho da rispondere io? Chi sente un rumore la notte, non gli viene in testa altro che ladri, malviventi, trappole: non si pensa mai che un galantuomo possa trovarsi in istrada di notte, se non è un cavaliere in carrozza.—Allora serbava quel partito all’estrema necessità, e tirava innanzi, con la speranza di scoprire almeno l’Adda, se non passarla, in quella notte; e di non dover andarne alla cerca, di giorno chiaro.Cammina, cammina: arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più nè un gelso, nè una vite, nè altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, dell’orazioni per i morti.A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; e risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscio de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorío, un mormorío d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: «è l’Adda!» Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all’amico rumore.Arrivò in pochi momenti all’estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un po’ sul pendio, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il prunaio, guardò giù se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse batter de’ remi; ma non vide nè sentì nulla. Se fosse stato qualcosa di meno dell’Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che l’Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza.Per ciò si mise a consultar tra sè, molto a sangue freddo, sul partito da prendere. Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l’aurora, per forse sei ore che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così, c’era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già avevano fatto più del loro dovere. Gli venne in mente d’aver veduto, in uno de’ campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini del milanese usan, l’estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto, senza chiave nè catenaccio; Renzo l’aprì, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamac; ma non si curò di salirvi. Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe ben saporita.Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi s’inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l’assistenza che aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d’essere andato a dormire come un cane, e peggio.—E per questo,—soggiunse poi tra sè; appoggiando le mani sulla paglia, e d’inginocchioni mettendosi a giacere:—per questo, m’è toccata, la mattina, quella bella svegliata.—Raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all’intorno, e se l’accomodò addosso, facendosene, alla meglio, una specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l’intenzione di dormire un bel sonno, parendogli d’averlo comprato anche più caro del dovere.Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare sopra di esse il pensiero, era tutt’altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate, sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe intemperanza, del bel caso che aveva fatto de’ paterni consigli di lui; e contemplando l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come l’avrebbe potuta dimenticare? Quell’Agnese che l’aveva scelto, che l’aveva già considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever da lui il titolo di madre, n’aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata co’ fatti la premura. Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene che voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga, incerta dell’avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte, povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie di giorni!—Quel che Dio vuole,—rispondeva ai pensieri che gli davan più noia:—quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!—Tra questi pensieri, o disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’era costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico misurava, perchè, ogni mezz’ora, sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta.Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva che facesse da sè, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se c’era nessuno. E non vedendo nessuno, cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito, e prese per quello.Il cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza raggio, pure spiccava nel campo immenso d’un bigio ceruleo, che, giù giù verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù, all’orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s’andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse trovato lì andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammirato quell’albeggiare così diverso da quello ch’era solito vedere ne’ suoi monti; ma badava alla sua strada, e camminava a passi lunghi, per riscaldarsi e per arrivar presto. Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco, guardando in qua e in là, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con l’intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza, ma, senza avvedersene, in una maniera mezzo supplichevole, gli accenna che approdi. Il pescatore gira uno sguardo lungo la riva, guarda attentamente lungo l’acqua che viene, si volta a guardare indietro, lungo l’acqua che va, e poi dirizza la prora verso Renzo, e approda. Renzo che stava sull’orlo della riva, quasi con un piede nell’acqua, afferra la punta del battello, ci salta dentro, e dice: «mi fareste il servizio, col pagare, di tragittarmi di là?» Il pescatore l’aveva indovinato, e già voltava da quella parte. Renzo, vedendo sul fondo della barca un altro remo, si china, e l’afferra.«Adagio, adagio,» disse il padrone; ma nel veder poi con che garbo il giovine aveva preso lo strumento, e si disponeva a maneggiarlo, «ah, ah,» riprese: «siete del mestiere.»«Un pochino,» rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con una maestria, più che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un’occhiata ombrosa alla riva da cui s’allontanavano, e poi una impaziente a quella dov’eran rivolti, e si coceva di non poterci andar per la più corta; che la corrente era, in quel luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell’acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come accade in tutti gli affari un po’ imbrogliati, che le difficoltà alla prima si presentino all’ingrosso, e nell’eseguire poi, vengan fuori per minuto, Renzo, ora che l’Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell’ostacolo, gliene rimanesse un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accennando col capo quella macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva ben più distinta, disse: «è Bergamo, quel paese?»«La città di Bergamo,» rispose il pescatore.«E quella riva lì, è bergamasca?»«Terra di san Marco.»«Viva san Marco!» esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sè, e poi con la bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo, il quale, data ancora un’occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di sotto, stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per di più ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un’ occhiata espressiva; e disse poi: «buon viaggio,» e tornò indietro.Perchè la così pronta e discreta cortesia di costui verso uno sconosciuto non faccia troppo maravigliare il lettore, dobbiamo informarlo che quell’uomo, pregato spesso d’un simile servizio da contrabbandieri e da banditi, era avvezzo a farlo; non tanto per amore del poco e incerto guadagno che gliene poteva venire, quanto per non farsi de’ nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni volta che potesse esser sicuro che non lo vedessero nè gabellieri, nè birri, nè esploratori. Così, senza voler più bene ai primi che ai secondi, cercava di soddisfarli tutti, con quell’imparzialità, che è la dote ordinaria di chi è obbligato a trattar con cert’uni, e soggetto a render conto a cert’altri.Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi.—Ah! ne son proprio fuori!—fu il suo primo pensiero.—Sta lì, maledetto paese,—fu il secondo, l’addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull’acqua che gli scorreva a’ piedi, e pensò—è passata sotto il ponte!—Così, all’uso del suo paese, chiamava per antonomasia, quello di Lecco.—Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole.—«Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui»…. (pag. 270).Voltò le spalle a que’ tristi oggetti, e s’incamminò, prendendo per punto di mira la macchia biancastra sul pendio del monte, finchè trovasse qualcheduno da farsi insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s’accostava a’ viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia da fare.Quel viaggio non fu lieto. Senza parlare de’ guai che Renzo portava con sè, il suo occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da’ quali dovette accorgersi che troverebbe nel paese in cui s’inoltrava, la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne’ borghi, incontrava a ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, montanari, artigiani, famiglie intere; e un misto ronzío di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero dei casi suoi.—Chi sa,—andava meditando,—se trovo da far bene? se c’è lavoro, come negli anni passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari, m’ha invitato tante volte; non m’abbandonerà. E poi, la Provvidenza m’ha aiutato finora; m’aiuterà anche per l’avvenire.—Intanto l’appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo di miglio in miglio; e quantunque Renzo, quando cominciò a dargli retta, sentisse di poter reggere, senza grand’incomodo, per quelle due o tre che gli potevan rimanere; pensò, da un’altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al cugino, come un pitocco, e dirgli, per primo complimento: dammi da mangiare. Si levò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrere sur una mano, tirò la somma. Non era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però c’era abbondantemente da fare una mangiatina. Entrò in un’osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’antica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt’e tre stesero la mano verso colui che usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?«La c’è la Provvidenza!» disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò di que’ pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada.La refezione e l’opera buona (giacchè siam composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perchè, se a sostenere in quel giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sè stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch’io l’abbia saputo esprimere. Nel rimanente della strada, ripensando a’ casi suoi, tutto gli si spianava. La carestia doveva poi finire: tutti gli anni si miete: intanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: aveva, per di più, a casa un po’ di danaro, che si farebbe mandar subito. Con quello, alla peggio, camperebbe, giorno per giorno, finchè tornasse l’abbondanza.—Ecco poi tornata finalmente l’abbondanza,—proseguiva Renzo nella sua fantasia:—rinasce la furia de’ lavori: i padroni fanno a gara per aver degli operai milanesi, che son quelli che sanno bene il mestiere; gli operai milanesi alzan la cresta; chi vuol gente abile, bisogna che la paghi; si guadagna da vivere per più d’uno, e da metter qualcosa da parte; e si fa scrivere alle donne che vengano…. E poi, perchè aspettar tanto? Non è vero che, con quel poco che abbiamo in serbo, si sarebbe campati là, anche quest’inverno? Così camperemo qui. De’ curati ce n’è per tutto. Vengono quelle due care donne: si mette su casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme! andar fino all’Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva, e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c’era un battello.—Arriva al paese del cugino; nell’entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio, entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell’acqua cadente e delle rote, se stia lì un certo Bortolo Castagneri.«Il signor Bortolo! Eccolo là.»—Signore? buon segno,—pensa Renzo; vede il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli dice: «son qui.» Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli ordigni, e dagli occhi de’ curiosi, in un’altra stanza, e gli dice: «ti vedo volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T’avevo invitato tante volte; non sei mai voluto venire; ora arrivi in un momento un po’ critico.»«Se te lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà,» disse Renzo; e, con la più gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia.«È un altro par di maniche,» disse Bortolo. «Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me; e io non t’abbandonerò. Veramente, ora non c’è ricerca d’operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. Povera Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia…. Mi par di vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il muro….»«No, no; non ne parliamo.»«Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al mio tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che vedo: fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui si patisce un po’ la fame…. A proposito, come stai d’appetito?»«Ho mangiato poco fa, per viaggio.»«E a danari, come stiamo?»Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un piccol soffio.«Non importa,» disse Bortolo: «n’ho io: e non ci pensare, che, presto presto, cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n’avanzerà anche per te.»«Ho qualcosina a casa; e me li farò mandare.»«Va bene; e intanto fa conto di me. Dio m’ha dato del bene, perchè faccia del bene; e se non ne fo a’ parenti e agli amici, a chi ne farò?»«L’ho detto io della Provvidenza!» esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino.«Dunque,» riprese questo, «in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La città ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile. Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano. Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s’è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s’è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà buona accoglienza. Un buon bergamascone all’antica, un uomo di cuor largo. Veramente, ora non t’aspettava; ma quando sentirà la storia…. E poi gli operai sa tenerli di conto, perchè la carestia passa, e il negozio dura. Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello stato di Milano?»«Come ci chiamano?»«Ci chiaman baggiani.»«Non è un bel nome.»«Tant’è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere.»«Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.»«Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima!»«E un milanese che abbia un po’ di….» e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. «Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?»«Tutt’uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici?—Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato.—L’è usanza così.»«L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (chè finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti?»«Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c’è rimedio: hanno preso quel vizio, non lo smetton più. Cos’è poi finalmente? Era ben un’altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.»«Già, è vero: se non c’è altro di male….»«Ora che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e coraggio.»Tutto infatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo, che crediamo inutile di farne particolar relazione. E fu veramente provvidenza; perchè la roba e i quattrini che Renzo aveva lasciati in casa, vedremo or ora quanto fosse da farci assegnamento.CAPITOLO XVIII.Quello stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l’appunto, verum in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit, d’averlo nelle mani; e, legato a dovere, videlizet con buone manette, attesa l’esperimentata insufficienza de’ manichini per il nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non c’è, o non si lascia trovare. Si sfonda l’uscio; si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. La voce di quella spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d’un fatto così inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l’uno con l’altro, che è una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tant’è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria cognizione de’ fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.Ma noi, co’ fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse opera sua, e ne trionfò co’ suoi fidati, e principalmente col conte Attilio. Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’ tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga durata: l’ordine venuto da Milano dell’esecuzione da farsi contro Renzo era già un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso tempo, se n’ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persister nell’impresa, a spuntar l’impegno, e promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal frate; al qual affare, il fortunato accidente dell’abietto rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere come fosse fatto.Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendè più cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l’arrabbiato frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que’ vantaggi, li rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar nè via nè verso d’espugnarlo, nè con la forza, nè per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. In vece d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar nella loro compagnia nuovi dispiaceri: perchè Attilio certamente, avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d’un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l’odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso d’ogni mascalzone, anche in mezzo agl’inchini, si potrebbe leggere un amaro: l’hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benchè vada all’ingiù…..fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza…. (pag. 283).A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, nè dare addietro, nè fermarsi, e non poteva andare avanti da sè, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed era di chieder l’aiuto d’un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sè. Ma questo partito aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolar prima; giacchè nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell’uomo, potente ausiliario certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l’uno e l’altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che, una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d’Attilio che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l’ultima spinta, fu la notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando dall’ultimo.Le due povere donne s’erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva tenere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui, notizie di lì, e ne faceva parte all’ospiti. «Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl’impiccheranno, parte davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c’è la casa del vicario di provvisione…. Ehi, ehi, sentite questa! n’è scappato uno, che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete.»Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: «è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato: un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete?»A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese; la quale, conturbata anche lei, però non tanto, potè star forte; e, per risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile; perchè era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di certo, e dove.«Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l’acchiappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l’unghie, il vostro giovine posato….»Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n’andò: figuratevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d’un giorno, dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come, sul perchè, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sè, o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d’Agnese. Era un pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciarla sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l’aveva pregato che, passando per Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse loro d’aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l’occasione di poterle aiutare; e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch’erano andate tutte a vôto, e si sapeva di certo che s’era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d’allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c’era mescolato un ringraziamento.Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non eran ragioni di prudenza. Era perchè alla povera innocente quella storia pareva più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sè; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore!Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia:—a questa fo del bene.—Ed era vero; perchè, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose!Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co’ saluti del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive intorno a’ suoi guai, nessuna; perchè, come abbiam detto al lettore, il cappuccino aveva sperato d’averle dal suo confratello di Milano, a cui l’aveva raccomandato; e questo rispose di non aver veduto nè la persona, nè la lettera; che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una privazione d’un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d’inquietudine, di cento sospetti molesti. Già prima d’allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere l’ambasciatore promesso, la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell’asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a’ suoi monti. Lo trovò infatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar presto; e partì.Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in un’osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di buon’ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacchè era lì, volle, prima d’andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.«Oh! la mia donna, che vento v’ha portata?»«Vengo a cercare il padre Cristoforo.»«Il padre Cristoforo? Non c’è.»«Oh! starà molto a tornare?»«Ma…?» disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa rasa.«Dov’è andato?»«A Rimini.»«A?»«A Rimini.»«Dov’è questo paese?»«Eh eh eh!» rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una gran distanza.«Oh povera me! Ma perchè è andato via così all’improvviso?»«Perchè ha voluto così il padre provinciale.»«E perchè mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore!»«Se i superiori dovessero render conto degli ordini che danno, dove sarebbe l’ubbidienza, la mia donna?»«Sì; ma questa è la mia rovina.»«Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d’un buon predicatore; (ce n’abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell’uomo fatto apposta) il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev’esser proprio così, vedete.»«Oh poveri noi! Quand’è partito?»«Jerlaltro.»«Ecco! s’io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso?»«Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perchè non predica sempre a braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da…. da che so io? E allora, bisogna mandarlo; perchè noi viviamo della carità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.»«Oh Signore! Signore!» esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: «come devo fare, senza quell’uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.»«Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce n’abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co’ signori e co’ poveri. Volete il padre Atanasio? volete il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per predicare, perchè ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?»«Oh per carità!» esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d’impazienza, che si prova a un’esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la propria convenienza: «cosa m’importa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover’uomo che non c’è più, era quello che sapeva le nostre cose, e aveva preparato tutto per aiutarci?»«Allora, bisogna aver pazienza.»«Questo lo so,» rispose Agnese: «scusate dell’incomodo.»«Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar qualcheduno de’ nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio.»«State bene,» disse Agnese; e s’incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.Un po’ meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporariamente il governo.) Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte, come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: «credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signor zio d’un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze….»«Qualcheduna delle sue, m’immagino.»«Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa….»«Vediamo, vediamo.»«C’è da quelle parti un frate cappuccino che l’ha con Rodrigo; e la cosa è arrivata a un punto, che….»«Quante volte v’ho detto, all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che danno a chi deve…. a chi tocca….» E qui soffiò. «Ma voi altri che potete scansarli….»«Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l’avrebbe scansato, se avesse potuto. E il frate che l’ha con lui, che ha preso a provocarlo in tutte le maniere….»«Che diavolo ha codesto frate con mio nipote?»«Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità…. non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa.»«Intendo,» disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.«Ora, da qualche tempo,» continuò Attilio, «s’è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa….»«S’è cacciato in testa, s’è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie.»«Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signor zio: il serio è che il frate s’è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli contro tutto il paese….»«E gli altri frati?»«Non se ne impicciano, perchè lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall’altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perchè fa poi anche il santo, e….»«M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.»«Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.»«Come? come?»«Perchè, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questo ha un protettor naturale, di tanta autorità come vossignoria: e che lui se la ride de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che….»«Oh frate temerario! Come si chiama costui?»«Fra Cristoforo da ***» disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: «è sempre stato di quell’umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincere con tutti, ne ammazzò uno: onde, per iscansar la forca, si fece frate.»«Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo,» diceva il conte zio, seguitando a soffiare.«Ora poi,» continuava Attilio, «è più arrabbiato che mai, perchè gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m’intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il…. l’uomo: un’altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perchè tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto.»«Chi è costui?»«Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che….»«Lorenzo Tramaglino!» esclamò il conte zio. «Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro…. in fatti…. aveva una lettera per un…. Peccato che…. Ma non importa; va bene. E perchè il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perchè lascia andar le cose tant’avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere?»«Dirò il vero anche in questo,» proseguiva Attilio. «Da una parte, sapendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signore zio….» (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) «s’è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de’ gangheri, così stucco delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sè, in qualche maniera sommaria, che d’ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d’avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa….»«Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.»«È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sè, o che il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n’anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma….»«Ora toccherà a me a raccomodarla.»«Così ho pensato anch’io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l’onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l’ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha cento mezzi ch’io non conosco: so che il padre provinciale ha, com’è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole….»«Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria,» disse un po’ ruvidamente il conte zio.«Ah è vero!» esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di compassione per sè stesso. «Son io l’uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d’aver fatto un altro male,» soggiunse con un’aria pensierosa: «ho paura d’aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio….»«Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finchè l’uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a me tocca di rattopparle: che…. mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che,» e qui immaginatevi che soffio mise, «tutti questi benedetti affari di stato.»Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n’andò, accompagnato da un «e abbiamo giudizio,» ch’era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.CAPITOLO XIX.Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall’insinuazione d’Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall’altra parte, il ripiego era talmente adattato all’umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l’avrebbe trovato da sè. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sè, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand’anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello.Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore, delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perchè le aveva godute da un posto distinto dell’Escuriale, di cui poteva render conto a un puntino, perchè un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: «stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero…. E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?»Il provinciale fece cenno di sì.«Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico…. questo soggetto…. questo padre…. Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo…. Ma in tutte le famiglie un po’ numerose…. c’è sempre qualche individuo, qualche testa…. E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo…. un po’ amico de’ contrasti…. che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi…. Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.»—Ho inteso: è un impegno,—pensava intanto il provinciale:—Colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare sei mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna.—«Oh!» disse poi: «mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso…. esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.»«Intendo benissimo; vostra paternità deve…. Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare a’ miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze…. possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo…. vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose…. cose…. Lorenzo Tramaglino!»—Ahi!—pensò il provinciale; e disse: «questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli….»«Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie…! Son cose spinose, affari delicati….» E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: «ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perchè se mai sua eccellenza…. Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma…. non so niente…. e da Roma venirle….»«Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.»«Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.»«È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sè, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito….»«Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio…. l’abito non fa il monaco.»Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.«Ho de’ riscontri,» continuava, «ho de’ contrassegni….»«Se lei sa positivamente,» disse il provinciale, «che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.»«Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe…. Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.»«Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.»«Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato….»«Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare…. tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato….»«Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo…. si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le…. inclinazioni d’un giovine; e tocca a noi, che abbiamo nostri anni…. pur troppo eh, padre molto reverendo?…»Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.Ma per lasciarlo parlar lui, «tocca a noi,» continuò, «a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi…. potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sè, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.»Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso.—Eh già!—pensava tra sè:—vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare.—E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, «intendo benissimo,» disse il provinciale, «quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo….»«È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito…. mio nipote non crederei…. ci son io, per questo…. Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta…. e allora non è più solamente mio nipote…. Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze….»«Cospicue.»«Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo…. è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora…. anche chi è amico della pace…. Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere…. di trovarmi…. io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini…! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi…. E poi, hanno de’ parenti al secolo…. e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro…. mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro…. Sua eccellenza…. i miei signori colleghi…. tutto diviene affar di corpo…. tanto più con quell’altra circostanza…. Lei sa come vanno queste cose.»«Veramente,» disse il padre provinciale, «il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero…. Mi si richiede appunto…. Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro….»«No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero…. mi sono spiegato.»«Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano…. Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso…. L’onor dell’abito…. non è cosa mia…. è un deposito del quale…. Il suo signor nipote, giacchè è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e…. non dico vantarsene, trionfarne, ma….»«Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato…. secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà nè più nè meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare.» E soffiò. «In quanto ai cicaloni,» riprese, «che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo…. noi che prevediamo…. noi che ci tocca…. non dobbiamo poi curarci delle ciarle.»«Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo…. non per noi, ma per l’abito….»«Sicuro, sicuro; quest’è giusto…. Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso…. qualcosa di straordinario…. è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote…. Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinchè non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perchè non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana…. per levar proprio ogni occasione….»«Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi….»«Molto a proposito, molto a proposito. E quando…?»«Giacchè la cosa si deve fare, si farà presto.»«Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E,» continuava poi, alzandosi da sedere, «se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini….»«Conosciamo per prova la bontà della casa,» disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.«Abbiamo spento una favilla,» disse questo, soffermandosi, «una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.»Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.Una sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano. C’è dentro l’obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d’affari che potesse avere avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il frate latore dev’essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.Se fu un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sè:—oh Dio! cosa faranno que’ meschini, quando io non sarò più qui!—Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d’ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono, s’allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da’ suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta.Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare nè il nome, nè il cognome, nè un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uomo, lo chiama «un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita,» e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest’uomo, quel personaggio. «Riferirò,» dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, «il caso d’un tale che, essendo de’ primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse….» Da questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti.Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui. Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando nè il nome, nè il parentado, nè gli amici, nè la sua audacia a sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. «Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze per il governatore.»Nell’assenza, non ruppe le pratiche, nè tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste.» Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. «Anche alcuni principi esteri,» dice, «si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini.»Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l’audacia di quell’uomo gli tenesse luogo d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato Veneto. «Quella casa,» cito ancora il Ripamonti, «era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: nè cuoco, nè sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate.» Oltre a questa bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini.Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un’occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma i primi che avevano voluto provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sè, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento: perchè, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza nè privata, nè pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’imprimere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov’erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacchè chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de’ nostri autori, saremo costretti a chiamare l’innominato.Dal castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c’era più di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d’accordo con lui. Gli s’era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città; godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità: giacchè chi ha l’assunto di provvedere, e non n’ha la volontà, o non ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sè, fino a un certo segno, a’ casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.Una mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s’avviò al castello dell’innominato.CAPITOLO XX.Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendio piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sè, nè più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendii, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, nè vivo, nè morto.Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggiante; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.Al rumore d’una cavalcatura che s’avvicinava, comparve sulla soglia un ragazzaccio, armato come un saracino; e data un’occhiata, entrò ad informare tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di tegoli. Colui che pareva il capo s’alzò, s’affacciò all’uscio, e, riconosciuto un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d’un peso inutile, e salir più lesto; ma, in realtà, perchè sapeva bene, che su quell’erta non era permesso d’andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso, dicendogli: «voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po’ allegri con questa brava gente.» Cavò finalmente alcuni scudi d’oro, e li mise in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo, cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero coi tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.Un altro bravaccio dell’innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e s’accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sè a quant’altri avrebbe incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto (lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane, e in ognuna delle quali c’era di guardia qualche bravo; e, dopo avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’innominato.Questo gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse da lui, per quanto fosse de’ più vecchi e provati amici. Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de’ sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de’ lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovine.Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle promesse di quell’uomo che non prometteva mai troppo, nè invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L’innominato che ne sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de’ tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a esagerare le difficoltà dell’impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!… A questo, l’innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l’impresa sopra di sè. Preso l’appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don Rodrigo, dicendo: «tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare.»Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato: perciò questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola. Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’immagine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell’avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato.—Invecchiare! morire! e poi?—E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare nè di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sè: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a sè stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacchè non poteva annientarli nè dimenticarli) que’ tempi in cui era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz’altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer sè stesso ch’era ancor quello.Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse Egidio dell’impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l’aspettasse, con la risposta d’Egidio: che l’impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest’annunzio, l’innominato, comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla spedizione.Se per rendere l’orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far conto de’ soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una promessa così decisa. Ma, in quell’asilo stesso dove pareva che tutto dovesse essere ostacolo, l’atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui. Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che un primo passo in una strada d’abbominazione e di sangue. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza, e direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell’innocente che aveva in custodia.La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo d’espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorchè la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.Era il giorno stabilito; l’ora convenuta s’avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell’ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima.«Ho bisogno d’un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a’ miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand’importanza, che vi dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de’ cappuccini che v’ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche necessario che nessuno sappia che l’ho mandato a chiamare io. Non ho che voi per far segretamente quest’imbasciata.»Lucia fu atterrita d’una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto…. Ma Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che, quand’anche non l’avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva sbagliare!… Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: «e bene; cosa devo fare?»«Andate al convento de’ cappuccini:» e le descrisse la strada di nuovo: «fate chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.»«Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m’ha mai vista uscire, e mi domanderà dove vo?»«Cercate di passare senz’esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.»Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l’anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: «e bene; anderò. Dio m’aiuti!» E si mosse.Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: «sentite, Lucia!»Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: «fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto.» Lucia partì.Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l’indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n’uscì, andò tutta raccolta e un po’ tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt’ora, affondata, a guisa d’un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que’ due, che diceva: «ecco una buona giovine che c’insegnerà la strada.» Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse, «quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?»«Andando di lì, vanno a rovescio,» rispondeva la poverina, «Monza è di qua….» e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era il Nibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sè: un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. Intanto il Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di carriera. L’altro che le aveva fatta quella domanda traditora, rimasto nella strada, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c’era nessuno; saltò sur una riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno sgherro d’Egidio; era stato, facendo l’indiano, sulla porta del suo padrone, per veder quando Lucia usciva dal monastero; l’aveva osservata bene, per poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla a posto convenuto.Chi potrà ora descrivere il terrore, l’angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di que’ visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza; quattro altre manacce ve l’appuntellavano. Ogni volta che aprisse la bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre bocche d’inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan ripetendo: «zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male.» Dopo qualche momento d’una lotta così angosciosa, parve che s’acquietasse; allentò le braccia, lasciò cader la testa all’indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l’occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un miscuglio mostruoso: le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s’abbandonò, e svenne.«Su, su, coraggio,» diceva il Nibbio. «Coraggio, coraggio,» ripetevan gli altri due birboni; ma lo smarrimento d’ogni senso preservava in quel momento Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci.«Diavolo! par morta,» disse uno di coloro: «se fosse morta davvero?»«Oh! morta!» disse l’altro: «è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io so che, quando ho voluto mandare all’altro mondo qualcheduno, uomo o donna che fosse, c’è voluto altro.»«Via!» disse il Nibbio: «attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro. Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; chè in questo bosco dove s’entra ora, c’è sempre de’ birboni annidati. Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, lì stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.»….Lucia girò la testa indietro atterrita; e cacciò un urlo… (pag. 297).Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s’era inoltrata nel bosco.Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma fu ritenuta, e non potè che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, «via,» le disse, più dolcemente che potè; «state zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star noi.»«Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perchè m’avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare!»«Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.»«No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.»«Vi conosciamo noi.»«Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete voi? Perchè m’avete presa?»«Perchè c’è stato comandato.»«Chi? chi? chi ve lo può aver comandato?»«Zitta!» disse con un visaccio severo il Nibbio: «a noi non si fa di codeste domande.»Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, «oh!» diceva: «per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada.»«Non possiamo.»«Non potete? Oh Signore! perchè non potete? Dove volete condurmi? Perchè…?»«Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà.»Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse, il più che potè, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr’ore; e dopo il quale avremo altre ore angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove l’infelice era aspettata.Era aspettata dall’innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un’alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perchè quel primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de’ cavalli. E benchè, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle carrozzine che si danno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte.—Ci sarà?—pensò subito; e continuava tra sè:—che noia mi dà costei! Liberiamocene.—E voleva chiamare uno de’ suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una sua vecchia donna.Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de’ suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall’istruzioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perchè potevano far del gran male e del gran bene. L’idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co’ sentimenti d’un rispetto, d’un terrore, d’una cupidigia servile, s’era associata e adattata a quelli. Quando l’innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell’uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme, e un sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s’era avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e sfrenata d’un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l’ossa sur una strada, e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l’orgoglio di trovarsi sotto una tal protezione. D’allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee, salvo quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servizio particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l’uno ora l’altro, le davan da fare ogni poco; ch’era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran conditi di beffe e d’improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n’attaccava, variavano secondo le circostanze e l’umore dell’amico. E colei, disturbata nella pigrizia, e provocata nella stizza, ch’erano due delle sue passioni predominanti, contraccambiava alle volte que’ complimenti con parole, in cui Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de’ provocatori.«Tu vedi laggiù quella carrozza!» le disse il signore.«La vedo,» rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell’occhiaie.«Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c’è…. ci dev’essere…. una giovine. Se c’è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me. Tu starai nella bussola, con quella…. giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non….»«Oh!» disse la vecchia.«Ma,» continuò l’innominato, «falle coraggio.»«Cosa le devo dire?»«Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que’ momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va.»E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzò al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso.CAPITOLO XXI.La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l’autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perchè a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un po’ prima che la carrozza ci arrivasse; e vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse, s’avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì sottovoce gli ordini del padrone.Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il Nibbio s’era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: «venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.»Al suono d’una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. «Chi siete?» disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.«Venite, venite, poverina,» andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero l’intenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone l’oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benchè il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de’ suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c’entrò la vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.«Chi siete?» domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: «perchè son con voi? dove sono? dove mi conducete?»«Da chi vuol farvi del bene,» rispondeva la vecchia, «da un gran…. Fortunati quelli a cui vuol far del bene. Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura, state allegra, chè m’ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che v’ho fatto coraggio?»«Chi è? perchè? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine…!»Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne’ primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, nè forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un’impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.Intanto l’innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.«Ebbene?» disse, fermandosi lì.«Tutto a un puntino,» rispose, inchinandosi, il Nibbio: «l’avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma….»«Ma che?»«Ma…. dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.»«Cosa? cosa? che vuoi tu dire?»«Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo…. M’ha fatto troppa compassione.»«Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?»«Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.»«Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.»«O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole….»—Non la voglio in casa costei,—pensava intanto l’innominato.—Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà lontana….—E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, «ora,» gli disse, «metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi…. ma subito subito, perchè altrimenti….»Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. «No,» disse con voce risoluta, quasi per esprimere a sè stesso il comando di quella voce segreta, «no: va a riposarti; e domattina…. farai quello che ti dirò!»—Un qualche demonio ha costei dalla sua,—pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate.—Un qualche demonio, o…. un qualche angelo che la protegge…. Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e,—proseguiva tra sè, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà,—e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che…. non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perchè…. perchè ho promesso: e ho promesso perchè…. è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco….—E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio!—Come può aver fatto costei?—continuava, strascinato da quel pensiero.—Voglio vederla…. Eh! no…. Sì, voglio vederla.E d’una stanza in un’altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all’uscio con un calcio.«Chi è?»«Apri.»A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l’uscio si spalancò. L’innominato, dalla soglia, diede un’occhiata in giro; e, al lume d’una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall’uscio.«Chi t’ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata?» disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.«S’è messa dove le è piaciuto,» rispose umilmente colei: «io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c’è stato verso.»«Alzatevi,» disse l’innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell’uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.«Alzatevi, chè non voglio farvi del male…. e posso farvi del bene,» ripetè il signore…. «Alzatevi!» tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte comandato invano.Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: «son qui: m’ammazzi.»«V’ho detto che non voglio farvi del male,» rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore.«Coraggio, coraggio,» diceva la vecchia: «se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male….»«E perchè,» riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata, «perchè mi fa patire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?…»«V’hanno forse maltrattata? Parlate.»«Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perchè? perchè m’hanno presa? perchè son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio….»«Dio, Dio,» interruppe l’innominato: «sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sè, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola. Di farmi…?» e lasciò la frase a mezzo.«O Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte»…. (pag. 309).«Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a ***, dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui…. ho veduto i miei monti! Perchè lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!»—Oh perchè non è figlia d’uno di que’ cani che m’hanno bandito!—pensava l’innominato:—d’uno di que’ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece….—«Non iscacci una buona ispirazione!» proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert’aria d’esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. «Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!… Forse un giorno anche lei…. Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene…!»«Via, fatevi coraggio,» interruppe l’innominato, con una dolcezza che fece strasecolar la vecchia. «V’ho fatto nessun male? V’ho minacciata?»«Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha…. un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l’opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.»«Domattina….»«Oh mi liberi ora, subito….»«Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.»«No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa…. que’ passi Dio glieli conterà.»«Verrà una donna a portarvi da mangiare,» disse l’innominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.«E tu,» riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, «falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!»Così detto, si mosse rapidamente verso l’uscio. Lucia s’alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.«Oh povera me! Chiudete, chiudete subito.» E sentito ch’ebbe accostare i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. «Oh povera me!» esclamò di nuovo singhiozzando: «chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore…. quello che m’ha parlato?»«Chi è, eh? chi è? Volete ch’io ve lo dica. Aspetta ch’io te lo dica. Perchè vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S’io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi.»—Io son vecchia, son vecchia,—continuò, mormorando tra i denti.—Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione.—Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: «via, non v’ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, chè or ora verrà da mangiare; e io che capisco…. nella maniera che v’ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e…. mi lascerete un cantuccino anche a me, spero,» soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa.«Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v’accostate; non partite di qui!»«No, no, via,» disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d’astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d’esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s’avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de’ suoi dolori, de’ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all’immagini sognate da un febbricitante.Si riscosse quando senti picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: «chi è? chi è? Non venga nessuno!»«Nulla, nulla; buone nuove,» disse la vecchia: «è Marta che porta da mangiare.»«Chiudete, chiudete!» gridava Lucia.«Ih! subito, subito,» rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de’ cibi: «di que’ bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co’ suoi amici…. quando capita qualcheduno di quelli…! e vogliono stare allegri! Ehm!» Ma vedendo che tutti gl’incanti riuscivano inutili, «siete voi che non volete,» disse. «Non istate poi a dirgli domani ch’io non v’ho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire.» Così detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu, s’alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l’invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.«No, no, non voglio nulla,» rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: «è serrato l’uscio? è serrato bene?» E dopo aver guardato in giro per la camera, s’alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: «sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?»«Oh contenta! contenta io qui!» disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. «Ma il Signore lo sa che ci sono!»«Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S’è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?»«No, no; lasciatemi stare.»«Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che v’ho pregata più volte.» Così dicendo, si cacciò sotto, vestita; e tutto tacque.Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo nè sonno nè veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a sè stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt’a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perchè. Tese l’orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo terrore: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero: che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacchè, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: «o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, o Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra.»Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri; e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo.Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non potè mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai.—Che sciocca curiosità da donnicciola,—pensava,—m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!… Io?… io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?—E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sè gli rappresentò più d’un caso in cui nè preghi nè lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava invece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio.—È viva costei,—pensava,—è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi…. Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io…! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!… Via!—disse poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti:—via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa.—E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (chè l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti vôto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.—La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare…. E la promessa? e l’impegno? e don Rodrigo?… Chi è don Rodrigo?—A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a sè stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sè stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e…. al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S’immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balía del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero.—Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è; se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perchè morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia…. E se c’è quest’altra vita….!—Federigo Borromeo. (pag. 316).A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando. Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima:—Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!—E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole, e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre.—E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!—E ricaduto nel vôto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sè: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concerto, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanío più vicino, anche quello a festa; poi un altro.—Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro?—Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria.—Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?—E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que’ gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.CAPITOLO XXII.Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest’arrivo ne’ paesi d’intorno aveva invogliati tutti d’andare a veder quell’uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso.—Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n’avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Cos’ha quell’uomo, per render tanta gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura…. Ma costoro non vanno tutti per l’elemosina. Ebbene, qualche segno nell’aria, qualche parola…. Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se….! Perchè non vado anch’io? Perchè no?…. Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr’occhi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che…. Sentirò cosa sa dir lui, quest’uomo!—Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una sua casacca d’un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta rimasta sul letto, e l’attaccò alla cintura da una parte; dall’altra, un’altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un cantuccio vicino all’uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data un’occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.«Dorme?» domandò sotto voce alla vecchia: «là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata?»«Io ho fatto di tutto,» rispose quella: «ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire….»«Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà…. Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si sveglierà…. dille che io…. che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che…. farà tutto quello che lei vorrà.»La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sè:—che sia qualche principessa costei?—Il signore usci, riprese la sua carabina, mandò Marta a fare anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perchè nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di corsa.Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov’era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de’ valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacchè nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla, per veder Federigo.I bravi che s’abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e dell’occhiate che dava in risposta a’ loro inchini.Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri, era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò subito di bocca in bocca; e la folla s’apriva. S’accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale. «In casa del curato,» rispose quello, inchinandosi, e gl’indicò dov’era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c’eran molti preti, che tutti lo guardarono con un’attenzione maravigliata e sospettosa. Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e l’appoggiò in un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.«Io son forestiero,» rispose l’interrogato, e data un’occhiata intorno, chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: «colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla larga!» Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette venire; inchinò l’innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un poco, poi disse o balbettò: «non saprei se monsignore illustrissimo…. in questo momento…. si trovi…. sia…. possa…. Basta, vado a vedere.» E andò a malincorpo a far l’imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale.A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po’ di tempo all’ombra d’un bell’albero, sull’erba, vicino a una fonte d’acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo, alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d’una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d’andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente.Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare nè intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa.Nel 1580, manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi. Si valse dell’autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato d’esempio, un primato che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l’infimo per condizione. I vantaggi d’un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Nè credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un’altra guerra ebbe a sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s’invanisce e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non che lasciarsi vincere da que’ tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella presenza grave, solenne, ch’esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l’ossequio manifesto e spontaneo de’ circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d’un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent’anni, fosse mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà, la parentela e gl’impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un’idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perchè sfuggisse di servire altrui; chè poche vite furono spese in questo come la sua; ma perchè non si stimava abbastanza degno nè capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l’arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono nè difficili nè rare; e l’ipocrisia non ha bisogno d’un più grande sforzo d’ingegno per farle, che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo d’esser l’espressione naturale d’un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole ch’esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di tutti gl’impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio.In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sè, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto sè stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri: come poi intendesse in fatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a sè stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinchè nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, d’una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideo con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedi otto uomini, de’ più colti ed esperti che potè avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v’unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; una galleria di quadri, una di statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, potè trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de’ libri e de’ manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de’ tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento d’utilità perpetua, non solamente bello in sè, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d’Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d’indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d’una biblioteca: allora non era così. E in una storia dell’ambrosiana, scritta (col costrutto e con l’eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n’aveva neppur l’idea. Dimodochè arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all’uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n’era e ce n’è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovess’essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos’importa? e c’era altro da pensare? e che bell’invenzione! e, mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell’impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de’ suoi.Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia bisogno di sapere se n’abbia spesi molt’altri in soccorso immediato de’ bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l’elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei all’opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De’ molti esempi singolari che d’una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d’un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio impiegati in cent’altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d’una virtù così libera dall’opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perchè una giovine non fosse fatta monaca.La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella visita d’un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l’interrogare e l’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l’avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que’ ragazzi, perchè eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sè quel ripiego così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de’ loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: «sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?»Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de’ suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co’ pastori suoi subordinati che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, nè di rammarico, nè d’ardore, nè d’agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell’animo suo, più mirabile se vi si destavano. Non solo da’ molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all’ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest’avversione al predominare apparivano ugualmente nell’occasioni più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d’impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall’ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorchè don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare.Uomo di studio, non gli piaceva nè di comandare nè d’ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava a un’occorrenza l’ufizio della penna, era perchè ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. «La s’ingegni,» diceva in que’ casi; «faccia da sè, giacchè la cosa le par tanto chiara.» Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c’entrava anche un po’ di compiacenza.Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato. Nell’astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perchè non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario comune, d’influssi, d’aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de’ circoli massimi, de’ gradi lucidi e tenebrosi, d’esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de’ principi in somma più certi e più reconditi della scienza. Ed eran forse vent’anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a’ moderni, anche dove l’hanno chiara che la vedrebbe ognuno. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vôto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l’aveva saputa adoprar bene.Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n’andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però que’ sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è nè antico nè moderno; è il filosofo. Aveva anche varie opere de’ più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de’ suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva; nè comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que’ celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche altr’opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum cælestium, e il libro Duodecim geniturarum, meritava d’essere ascoltato, anche quando spropositava; e che il gran difetto di quell’uomo era stato d’aver troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de’ dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una volta disse, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere.Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio….(pag. 399).Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altr’opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare; come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il camaleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura.In quelli della magia e della stregoneria s’era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli verificare. Non c’è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuta altra mira che d’istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de’ maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l’uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell’infinite specie che, pur troppo, dice ancora l’anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malíe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma.Ma cos’è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. C’era dunque ne’ suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Parata, il Boccalini. Due però erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto. Ma, poco prima del tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che terminò la questione del primato, passando avanti anche all’opere di que’ due matadori, diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma tutto d’oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di quell’uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di quell’uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l’altro le guerre del re cattolico in Italia, l’uno e l’altro invano; di quell’uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, potè in un diploma, con molti altri titoli, annoverare «la certezza della fama ch’egli ottiene in Italia, di primo scrittore de’ nostri tempi.»Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n’era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente d’intervenire in affari d’onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria. L’autore però degli autori, nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d’una volta, a dar giudizio sopra casi d’onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell’insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest’opera avrebbe rovinata l’autorità dell’Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l’altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l’anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo.Fino all’autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, nè che alcun altro potesse far cosa degna d’esser riferita. Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all’aria: e fu questo certamente uno de’ suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi avvenimenti, che però non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de’ nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.Ora, perchè i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola anche un po’ da lontano.CAPITOLO XXVIII.Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l’abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo. Pane in quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell’annate migliori; le farine a proporzione. Coloro che, in que’ due giorni, s’erano addati a urlare o a far anche qualcosa di più, avevano ora (meno alcuni pochi stati presi) di che lodarsi: e non crediate che se ne stessero, appena cessato quel primo spavento delle catture. Sulle piazze, sulle cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un congratularsi e un vantarsi tra’ denti d’aver trovata la maniera di far rinviliare il pane. In mezzo però alla festa e alla baldanza, c’era (e come non ci sarebbe stata?) un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a durare. Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in quell’altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d’Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrino da parte, l’investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie. Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sè, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea. Ed ecco che, il 15 di novembre, Antonio Ferrer, De orden de Su Excelencia, pubblicò una grida, con la quale, a chiunque avesse granaglie o farine in casa, veniva proibito di comprarne nè punto nè poco, e ad ognuno di comprar pane, per più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali, all’arbitrio di Sua Eccellenza; intimazione a chi toccava per ufizio, e a ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine a’ giudici, di far ricerche nelle case che potessero venir loro indicate; insieme però, nuovo comando a’ fornai di tener le botteghe ben fornite di pane, sotto pena, in caso di mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all’arbitrio di S. E. Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione; e certo, se tutte quelle che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la gran Bretagna.Sia com’esser si voglia, ordinando ai fornai di far tanto pane, bisognava anche fare in modo che la materia del pane non mancasse loro. S’era immaginato (come sempre in tempo di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane de’ prodotti che d’ordinario si consumano sott’altra forma), s’era, dico, immaginato di far entrare il riso nel composto del pane detto di mistura. Il 23 di novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e de’ dodici di provvisione, la metà del riso vestito (risone lo dicevano qui, e lo dicon tuttora) che ognuno possegga; pena a chiunque ne disponga senza il permesso di que’ signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi per moggio. È, come ognun vede, la più onesta.Ma questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato da quello del pane. Il carico di supplire all’enorme differenza era stato imposto alla città; ma il Consiglio de’ decurioni, che l’aveva assunto per essa, deliberò, lo stesso giorno 23 di novembre, di rappresentare al governatore l’impossibilità di sostenerlo più a lungo. E il governatore, con grida del 7 di dicembre, fissò il prezzo del riso suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne chiedesse di più, come a chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa d’altrettanto valore, et maggior pena pecuniaria et ancora corporale sino alla galera, all’arbitrio di S. E., secondo la qualità de’ casi et delle persone.Al riso brillato era già stato fissato il prezzo prima della sommossa; come probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione celeberrima negli annali moderni, il maximum del grano e dell’altre granaglie più ordinarie sarà stato fissato con altre gride, che non c’è avvenuto di vedere.Mantenuto così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva di conseguenza che dalla campagna accorresse gente a processione a comprarne. Don Gonzalo, per riparare a questo, come dice lui, inconveniente, proibì, con un’altra grida del 15 di dicembre, di portar fuori della città pane, per più del valore di venti soldi; pena la perdita del pane medesimo, e venticinque scudi, et in caso di inhabilità, di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora, secondo il solito, all’arbitrio di S. E. Il 22 dello stesso mese (e non si vede perchè così tardi), pubblicò un ordine somigliante per le farine e per i grani.La moltitudine aveva voluto far nascere l’abbondanza col saccheggio e con l’incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti. È poi facile anche vedere, e non inutile l’osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell’antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all’equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell’angustie e ne’ patimenti della carestia, essa lo desidèri, l’implori e, se può, l’imponga. Di mano in mano poi che le conseguenze si fanno sentire, conviene che coloro a cui tocca, vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca agli uomini di far quello a che eran portati dall’antecedente. Ci si permetta d’osservar qui di passaggio una combinazione singolare. In un paese e in un’epoca vicina, nell’epoca la più clamorosa e la più notabile della storia moderna, si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo ordine) ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente perchè la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, potè far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge.Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de’ conti, i frutti principali della sommossa: guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione.Del resto, le relazioni storiche di que’ tempi son fatte così a caso, che non ci si trova neppur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta. Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo a credere che sia stata abolita poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di quell’esecuzione. E in quanto alle gride, dopo l’ultima che abbiam citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia di grasce; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche, o sia finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato dall’inefficacia di que’ suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso. Troviamo bensì nelle relazioni di più d’uno storico (inclinati, com’erano, più a descriver grand’avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della città principalmente, nell’inverno avanzato e nella primavera, quando la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il bisogno, non distrutta, anzi accresciuta da’ rimedi che ne sospesero temporariamente gli effetti, e neppure da un’introduzione sufficiente di granaglie estere, alla quale ostavano l’insufficienza de’ mezzi pubblici e privati, la penuria de’ paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i vincoli del commercio, e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia, o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta la sua forza. Ed ecco la copia di quel ritratto doloroso.A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto.C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genía de’ bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire.A gli affamati dispensavano minestre, ova, pane, vino….. (pag. 410).Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que’ due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza. Si potevan distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all’andare incerto e all’aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d’attirare a sè gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co’ sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne’ volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti; e diversi anche nell’aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e l’insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore abbattuto, l’aspetto d’una natura più presto vinta, d’un languore e d’uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell’età più deboli.Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po’ di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato.Accanto a qualcheduno di que’ covili, si vedeva pure chinato qualche passeggiero o vicino, attirato da una compassion subitanea. In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo. Aveva scelto sei preti ne’ quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna assegnata una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti. Ogni mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti, s’avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano a ciascheduno aiuto secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione. Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri, estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose. Insieme, distribuivano vesti alle nudità più sconce e più dolorose.Nè qui finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che, almeno dov’essa poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non momentaneo. Ai poverini a cui quel primo ristoro avesse rese forze bastanti per reggersi e per camminare, davano un po’ di danaro, affinchè il bisogno rinascente e la mancanza d’altro soccorso non li rimettesse ben presto nello stato di prima; agli altri cercavano ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vicine. In quelle de’ benestanti, erano per lo più ricevuti per carità, e come raccomandati dal cardinale; in altre, dove alla buona volontà mancassero i mezzi, chiedevan que’ preti che il poverino fosse ricevuto a dozzina, fissavano il prezzo, e ne sborsavan subito una parte a conto. Davano poi, di questi ricoverati, la nota ai parrochi, acciocchè li visitassero; e tornavano essi medesimi a visitarli.Non c’è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di patimenti, nè l’aveva aspettata per commoversi. Quella carità ardente e versatile doveva tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava il bisogno. Infatti, radunando tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora d’un’importanza troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari, per impiegarli tutti in soccorso degli affamati. Aveva fatte gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n’eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del sale, «con cui,» dice, raccontando la cosa, il Ripamonti[21], «l’erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in cibo.» Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere, dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere; nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo, il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo spesso occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due mila scodelle di minestra di riso[22].Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi, quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi (giacchè Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui), questi, insieme con le liberalità d’altre mani private, se non così feconde, pur numerose; insieme con le sovvenzioni che il Consiglio de’ decurioni aveva decretate, dando al tribunal di provvisione l’incombenza di distribuirle; erano ancor poca cosa in paragone del bisogno. Mentre ad alcuni montanari vicini a morir di fame, veniva, per la carità del cardinale, prolungata la vita, altri arrivavano a quell’estremo; i primi, finito quel misurato soccorso, ci ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come meno angustiate, da una carità costretta a scegliere, l’angustie divenivan mortali; per tutto si periva, da ogni parte s’accorreva alla città. Qui, due migliaia, mettiamo, d’affamati più robusti ed esperti a superar la concorrenza e a farsi largo, avevano acquistata una minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati, quando, tra i rimasti indietro, c’erano spesso le mogli, i figli, i padri loro? E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più abbandonati e ridotti all’estremo venivan levati di terra, rianimati, ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent’altre parti, altri cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzío confuso di voci supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti lamenti scoppiati all’improvviso, da urli, da accenti profondi d’invocazione, che terminavano in istrida acute.È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non incappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno. Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c’era un buon numero d’uomini educati a tutt’altro che a tollerare; c’erano a centinaia, di que’ medesimi che, il giorno di san Martino, s’erano tanto fatti sentire. Nè si può pensare che l’esempio de’ quattro disgraziati che n’avevan portata la pena per tutti, fosse quello che ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la memoria de’ supplizi sugli animi d’una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pativa? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile.Il vôto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da’ paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da’ nuovi concorrenti d’accatto, uscivano a un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere. S’incontravano nell’opposto viaggio questi e que’ pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma seguitavano ognuno la sua strada, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d’orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. «Vidi io,» scrive il Ripamonti, «nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna…. Le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso…. Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa…. Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno.»Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria, spettacolo ordinario de’ tempi ordinari, era allora affatto cessato. I cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva, era appena un’apparenza di parca mediocrità. Si vedevano i nobili camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni, perchè le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione, o che si vergognassero d’insultare alla pubblica calamità. Que’ prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che parevano offrire e chieder pace. Altri che, anche nella prosperità, erano stati di pensieri più umani, e di portamenti più modesti, parevano anch’essi confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista continua d’una miseria che sorpassava, non solo la possibilità del soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione. Chi aveva il modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta tra fame e fame, tra urgenze e urgenze. E appena si vedeva una mano pietosa avvicinarsi alla mano d’un infelice, nasceva all’intorno una gara d’altri infelici; coloro a cui rimaneva più vigore, si facevano avanti a chieder con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli, alzavano le mani scarne; le madri alzavano e facevan veder da lontano i bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce cenciose, e ripiegati per languore nelle loro mani.Così passò l’inverno e la primavera: e già da qualche tempo il tribunale della sanità andava rappresentando a quello della provvisione il pericolo del contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria ammontata in ogni parte di essa; e proponeva che gli accattoni venissero raccolti in diversi ospizi. Mentre si discute questa proposta, mentre s’approva, mentre si pensa ai mezzi, ai modi, ai luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade ogni giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l’altro ammasso di miserie. Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del pubblico; e così vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, nè di vista nè per descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d’una strada di circonvallazione, e d’una gora che gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla parte esterna, son divisi in piccole stanze d’un piano solo; di dentro gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne.Le stanzine eran dugent’ottantotto, o giù di lì: a’ nostri giorni, una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante. Al tempo della nostra storia, non c’eran che due entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città, l’altra di rimpetto, nell’opposto. Nel centro dello spazio interno, c’era, e c’è tuttora, una piccola chiesa ottangolare.La prima destinazione di tutto l’edifizio, cominciato nell’anno 1489, co’ danari d’un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico e d’altri testatori e donatori, fu, come l’accenna il nome stesso, di ricoverarvi, all’occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già molto prima di quell’epoca, era solita, e lo fa per molto tempo dopo, a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d’Europa, prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo. Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito delle mercanzie soggette a contumacia.Ora, per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto. Si fece stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di viveri, della qualità e nella quantità che si potè; e s’invitarono, con pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì.Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila. Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a goder l’elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura, o quella diffidenza de’ poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata all’ignoranza comune di chi la sente e di chi l’ispira, al numero de’ poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto dell’invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade. Visto ciò, si credè bene di passar dall’invito alla forza. Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de’ quali fu assegnato a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito. E quantunque, com’era stata congettura, anzi intento espresso della Provvisione, un certo numero d’accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno; pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de’ ricoverati, tra ospiti e prigionieri, s’accostò a dieci mila.Le donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in quartieri separati, benchè le memorie del tempo non ne dican nulla. Regole poi e provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno certamente mancati; ma si figuri ognuno qual ordine potesse essere stabilito e mantenuto, in que’ tempi specialmente e in quelle circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove coi volontari si trovavano i forzati; con quelli per cui l’accatto era una necessità, un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con molti cresciuti nell’onesta attività de’ campi e dell’officine, molti altri educati nelle piazze, nelle taverne, ne’ palazzi de’ prepotenti, all’ozio, alla truffa, allo scherno, alla violenza.Come stessero poi tutti insieme d’alloggio e di vitto, si potrebbe tristamente congetturarlo, quando non n’avessimo notizie positive; ma le abbiamo. Dormivano ammontati a venti, a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perchè, s’era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S’era ugualmente ordinato che il pane fosse di buona qualità: giacchè, quale amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine. Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che non fosse uno di que’ lamenti in aria. D’acqua perfino c’era scarsità; d’acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa, e divenuta poi quale poteva renderla l’uso e la vicinanza d’una tanta e tal moltitudine.A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi ammalati o ammalazzati, s’aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Ai mali s’aggiunga il sentimento de’ mali, la noia e la smania della prigionia, la rimembranza dell’antiche abitudini, il dolore di cari perduti, la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo vicendevole, tant’altre passioni d’abbattimento o di rabbia, portate o nate là dentro; l’apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte resa frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente cagione. E non farà stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l’aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l’attività d’un’influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio, il quale ne’ corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva qualità degli alimenti, dall’intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall’avvilimento trovi la tempera, per dir così, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar là queste parole, dietro l’ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo, con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto ingegnoso[23]): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel lazzeretto medesimo, come, da un’oscura e inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d’allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e terribile rapidità. Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero giornaliero de’ morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il centinaio.Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento, rammarichío, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento, incertezza. Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò altro che di disfare ciò che s’era fatto con tanto apparato, con tanta spesa, con tante vessazioni. S’aprì il lazzeretto, si licenziaron tutti i poveri non ammalati che ci rimanevano, e che scapparon fuori con una gioia furibonda. La città tornò a risonare dell’antico lamento, ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e più compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di tanto scemata. Gl’infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella, allora ospizio di poveri; dove la più parte perirono.Intanto però cominciavano que’ benedetti campi a imbiondire. Gli accattoni venuti dal contado se n’andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che si presentasse all’arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da mietere.Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell’autunno. Era sul finire, quand’ecco un nuovo flagello.Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo. Il cardinal di Richelieu, presa, come s’è detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una pace col re d’Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme determinato il re medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si facevan gli apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando, o questo manderebbe un esercito ad occuparli. Il duca che, in più disperate circostanze, s’era schermito d’accettare una condizione così dura e così sospetta, incoraggito ora dal vicino soccorso di Francia, tanto più se ne schermiva; però con termini in cui il no fosse rigirato e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione, anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario se n’era andato, protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il cardinal di Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d’un esercito; aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s’era trattato; non s’era concluso; dopo uno scontro, col vantaggio de’ Francesi, s’era trattato di nuovo, e concluso un accordo, nel quale il duca, tra l’altre cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l’assedio da Casale; obbligandosi, se questo ricusasse, a unirsi co’ Francesi, per invadere il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli anche d’uscirne con poco, aveva levato l’assedio da Casale, dov’era subito entrato un corpo di Francesi, a rinforzar la guarnigione.Fu in questa occasione che l’Achillini scrisse al re Luigi quel suo famoso sonetto:Sudate, o fochi, a preparar metalli:e un altro, con cui l’esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra santa. Ma è un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima. Il cardinal di Richelieu aveva invece stabilito di ritornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo, inviato de’ Veneziani, potè bene addurre ragioni per combattere quella risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come ai versi dell’Achillini, se ne ritornarono col grosso dell’esercito, lasciando soltanto sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e per caparra del trattato.Mentre quell’esercito se n’andava da una parte, quello di Ferdinando s’avvicinava dall’altra; aveva invaso il paese de’ Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell’esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c’era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti, avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de’ conservatori della Sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in quel suo ragguaglio già citato[24], di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all’assedio di Mantova, come s’era sparsa la voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania d’acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non potè non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l’atto di lui più degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d’interesse e di riputazione, per i quali s’era mosso quell’esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza.Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da’ soldati ch’eran per passare; ma non fu possibile far intendere la necessità d’un tal ordine al presidente, «uomo,» dice il Tadino, «di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio di questa gente, et loro robbe.» Citiamo questo tratto per uno de’ singolari di quel tempo: chè di certo, da che ci son tribunali di sanità, non accadde mai a un altro presidente d’un tal corpo, di fare un ragionamento simile; se ragionamento si può chiamare.In quanto a Don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n’andò da Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva rimosso per i cattivi successi della guerra, della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo. (Quello che aveva fatto per la peste, o non si sapeva, o certo nessuno se n’inquietava, come vedremo più avanti, fuorchè il tribunale della sanità, e i due medici specialmente.) All’uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, in mezzo a una guardia d’alabardieri, con due trombetti a cavallo davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu accolto con gran fischiate da ragazzi ch’eran radunati sulla piazza del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa. Entrata la comitiva nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire, cominciò a trovarsi in mezzo a una folla di gente che, parte era lì ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte, fino alla porta. E nel processo che si fece poi su quei tumulto, uno di costoro, ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo crescere, risponde: «caro signore, questa è la nostra professione; et se S. E. non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva comandarne che tacessimo.» Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la moltitudine, o perchè fosse in effetto un po’ sbalordito, non dava nessun ordine. La moltitudine, che le guardie avevan tentato in vano di respingere, precedeva, circondava, seguiva le carrozze, gridando: «la va via la carestia, va via il sangue de’ poveri,» e peggio. Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d’ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un’ultima scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono.In luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola, il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella celebrità militare che ancor gli rimane.Intanto l’esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto, altro condottiere italiano, di minore, ma non d’ultima fama, aveva ricevuto l’ordine definitivo di portarsi all’impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di Milano.La milizia, a que’ tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale non ce n’era; nè avrebbe potuto accordarsi così facilmente con l’autorità in parte indipendente de’ vari condottieri. Questi poi in particolare, nè erano molto raffinatori in fatto di disciplina, nè, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; chè soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d’abolire il saccheggio; o per lo meno, l’avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere. Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per assicurar l’imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de’ paesi a cui la toccava, ne divenivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre, poco meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila. E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre, e per sè e per i suoi effetti, che ricevette poi il nome da’ trent’anni della sua durata: e allora ne correva l’undecimo. C’era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato sotto di lui, e ci si trovava più d’uno di quelli che, quattr’anni dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall’incendio, o per tener d’occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perchè non avean nulla da perdere, o anche facevan conto d’acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto.Finalmente se n’andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de’ tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d’una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un’altra squadra. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci delle stanze dove non c’era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s’intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: chè in tante squadre era diviso l’esercito.Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.CAPITOLO XXIX.Qui, tra i poveri spaventati troviamo persone di nostra conoscenza.Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell’esercito, del suo avvicinarsi, e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un’esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne’ capelli. Don Abbondio, risoluto di ruggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi. «Come fare?» esclamava: «dove andare?» I monti, lasciando da parte la difficoltà del cammino, non eran sicuri: già s’era saputo che i lanzichenecchi vi s’arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda. Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltre di questo, la più parte de’ barcaioli, temendo d’esser forzati a tragittar soldati o bagagli, s’eran rifugiati, con le loro barche, all’altra riva: alcune poche rimaste, eran poi partite stracariche di gente; e, travagliate dal peso e dalla burrasca, si diceva che pericolassero ogni momento. Per portarsi lontano e fuori della strada che l’esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar nè un calesse, nè un cavallo, nè alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far troppo cammino, e temeva d’esser raggiunto per istrada. Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata; ma si sapeva ch’era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, nè più nè meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano. Il pover’uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sè, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani o con le braccia piene, e rispondeva: «or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri.» Don Abbondio voleva trattenerla, e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo spavento che aveva anch’essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai. «S’ingegnano gli altri: c’ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è capace che d’impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, in vece di venir tra’ piedi a piangere e a impicciare.» Con queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo, s’affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero: «fate questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino. Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch’io con voi; aspettate d’esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch’io non sia abbandonato. Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!»Presero per i campi, zitti zitti…. (pag. 427).Ma a chi diceva queste cose? Ad uomini che passavano curvi sotto il peso della loro povera roba, pensando a quella che lasciavano in casa, spingendo le loro vaccherelle, conducendosi dietro i figli, carichi anch’essi quanto potevano, e le donne con in collo quelli che non potevan camminare. Alcuni tiravan di lungo, senza rispondere nè guardare in su; qualcheduno diceva: «eh messere! faccia anche lei come può; fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia; s’aiuti, s’ingegni.»«Oh povero me!» esclamava don Abbondio: «oh che gente! che cuori! Non c’è carità: ognun pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare. E tornava in cerca di Perpetua.«Oh appunto!» gli disse questa: «e i danari?»«Come faremo?»«Li dia a me, che anderò a sotterrarli qui nell’orto di casa, insieme con le posate.»«Ma….»«Ma, ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi lasci fare a me.»Don Abbondio ubbidì, andò allo scrigno, cavò il suo tesoretto, e lo consegnò a Perpetua; la quale disse: «vo a sotterrarli nell’orlo, appiè del fico;» e andò. Ricomparve poco dopo, con un paniere dove c’era della munizione da bocca, e con una piccola gerla vôta; e si mise in fretta a collocarvi nel fondo un po’ di biancheria sua e del padrone, dicendo intanto: «il breviario almeno lo porterà lei.»«Ma dove andiamo?»«Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e là sentiremo, e vedremo cosa convenga di fare.»In quel momento entrò Agnese con una gerletta sulle spalle, e in aria di chi viene a fare una proposta importante.Agnese, risoluta anche lei di non aspettare ospiti di quella sorte, sola in casa, com’era, e con ancora un po’ di quell’oro dell’innominato, era stata qualche tempo in forse del luogo dove ritirarsi. Il residuo appunto di quegli scudi, che ne’ mesi della fame le avevan fatto tanto pro, era la cagion principale della sua angustia e della irresoluzione, per aver essa sentito che, ne’ paesi già invasi, quelli che avevan danari, s’eran trovati a più terribil condizione, esposti insieme alla violenza degli stranieri, e all’insidie de’ paesani. Era vero che, del bene piovutole, come si dice, dal cielo, non aveva fatta la confidenza a nessuno, fuorchè a don Abbondio; dal quale andava, volta per volta, a farsi spicciolare uno scudo, lasciandogli sempre qualcosa da dare a qualcheduno più povero di lei. Ma i danari nascosti, specialmente chi non è avvezzo a maneggiarne molti, tengono il possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui. Ora, mentre andava anch’essa rimpiattando qua e là alla meglio ciò che non poteva portar con sè, e pensava agli scudi, che teneva cuciti nel busto, si rammentò che, insieme con essi, l’innominato, le aveva mandate le più larghe offerte di servizi; si rammentò le cose che aveva sentito raccontare di quel suo castello posto in luogo così sicuro, e dove, a dispetto del padrone, non potevano arrivar se non gli uccelli; e si risolvette d’andare a chiedere un asilo lassù. Pensò come potrebbe farsi conoscere da quel signore, e le venne subito in mente don Abbondio; il quale, dopo quel colloquio così fatto con l’arcivescovo, le aveva sempre fatto festa, e tanto più di cuore, che lo poteva senza compromettersi con nessuno, e che, essendo lontani i due giovani, era anche lontano il caso che a lui venisse fatta una richiesta, la quale avrebbe messa quella benevolenza a un gran cimento. Suppose che, in un tal parapiglia, il pover’uomo doveva esser ancor più impicciato e più sbigottito di lei, e che il partito potrebbe parer molto buono anche a lui; e glielo veniva a proporre. Trovatolo con Perpetua, fece la proposta a tutt’e due.«Che ne dite, Perpetua?» domandò don Abbondio.«Dico che è un’ispirazione del cielo, e che non bisogna perder tempo, e mettersi la strada tra le gambe.»«E poi….»«E poi, e poi, quando saremo là, ci troveremo ben contenti. Quel signore, ora si sa che non vorrebbe altro che far servizi al prossimo; e sarà ben contento anche lui di ricoverarci. Là, sul confine, e così per aria, soldati non ne verrà certamente. E poi e poi, ci troveremo anche da mangiare; chè, su per i monti, finita questa poca grazia di Dio,» e così dicendo, l’accomodava nella gerla, sopra la biancheria, «ci saremmo trovati a mal partito.»«Convertito, è convertito davvero, eh?»«Che c’è da dubitarne ancora, dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anche lei ha veduto?»«E se andassimo a metterci in gabbia?»«Che gabbia? Con tutti codesti suoi casi, mi scusi, non si verrebbe mai a una conclusione. Brava Agnese! v’è proprio venuto un buon pensiero.» E messa la gerla sur un tavolino, passò le braccia nelle cigne, e la prese sulle spalle.«Non si potrebbe,» disse don Abbondio, «trovar qualche uomo che venisse con noi, per far la scorta al suo curato? Se incontrassimo qualche birbone, che pur troppo ce n’è in giro parecchi, che aiuto m’avete a dar voi altre?»«Un’altra, per perder tempo!» esclamò Perpetua. «Andarlo a cercar ora l’uomo, che ognuno ha da pensare a’ fatti suoi. Animo! vada a prendere il breviario e il cappello; e andiamo.»Don Abbondio andò, tornò, di lì a un momento, col breviario sotto il braccio, col cappello in capo, e col suo bordone in mano; e uscirono tutt’e tre per un usciolino che metteva sulla piazzetta. Perpetua richiuse, più per non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que’ battenti, e mise la chiave in tasca. Don Abbondio diede, nel passare, un’occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: «al popolo tocca a custodirla, che serve a lui. Se hanno un po’ di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.»Presero per i campi, zitti, zitti, pensando ognuno a’ casi suoi, e guardandosi intorno, specialmente don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di straordinario. Non s’incontrava nessuno: la gente era, o nelle case a guardarle, a far fagotto, a nascondere, o per le strade che conducevan direttamente all’alture.Dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l’imperatore, che avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l’acqua all’ingiù, non istar su tutti i puntigli: chè finalmente, lui sarebbe sempre stato l’imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. L’aveva principalmente col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far la guerra. «Bisognerebbe,» diceva, «che fossero qui que’ signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.»«Lasci un po’ star codesta gente; che già non son quelli che ci verranno a aiutare,» diceva Perpetua. «Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che non concludon nulla. Piuttosto, quel che mi dà noia….»«Cosa c’è?»Perpetua, la quale, in quel pezzo di strada, aveva pensato con comodo al nascondimento fatto in furia, cominciò a lamentarsi d’aver dimenticata la tal cosa, d’aver mal riposta la tal altra; qui, d’aver lasciata una traccia che poteva guidare i ladroni, là…«Brava!» disse don Abbondio, ormai sicuro della vita, quanto bastava per poter angustiarsi della roba: «brava! così avete fatto! Dove avevate la testa?»«Come!» esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e mettendo i pugni su’ fianchi, in quella maniera che la gerla glielo permetteva: «come! verrà ora a farmi codesti rimproveri, quand’era lei che me la faceva andar via, la testa, in vece d’aiutarmi e farmi coraggio! Ho pensato forse più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e Maddalena; se qualcosa anderà a male, non so cosa mi dire: ho fatto anche più del mio dovere.»Agnese interrompeva questi contrasti, entrando anche lei a parlare de’ suoi guai: e non si rammaricava tanto dell’incomodo e del danno, quanto di vedere svanita la speranza di riabbracciar presto la sua Lucia; chè, se vi rammentate, appunto era quell’autunno sul quale avevan fatto assegnamento: nè era da supporre che donna Prassede volesse venire a villeggiare da quelle parti, in tali circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se ci si fosse trovata, come facevan tutti gli altri villeggianti.La vista de’ luoghi rendeva ancor più vivi que’ pensieri d’Agnese, e più pungente il suo dispiacere. Usciti da’ sentieri, avevan presa la strada pubblica, quella medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo, a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, in casa del sarto. E già si vedeva il paese.«Anderemo bene a salutar quella brava gente,» disse Agnese.«E anche a riposare un pochino: chè di questa gerla io comincio ad averne abbastanza; e poi per mangiare un boccone,» disse Perpetua.«Con patto di non perder tempo; chè non siamo in viaggio per divertimento,» concluse don Abbondio.Furono ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere: rammentavano una buona azione. Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar de’ visi che vi mettano allegria.Agnese, nell’abbracciar la buona donna, diede in un dirotto pianto, che le fu d’un gran sollievo; e rispondeva con singhiozzi alle domande che quella e il marito le facevan di Lucia.«Sta meglio di noi,» disse don Abbondio: «è a Milano, fuor de’ pericoli, lontana da queste diavolerie.»«Scappano, eh? il signor curato e la compagnia,» disse il sarto.«Sicuro,» risposero a una voce il padrone e la serva.«Li compatisco.»«Siamo incamminati,» disse don Abbondio; «al castello di ***.»«L’hanno pensata bene: sicuri come in chiesa.»«E qui, non hanno paura?» disse don Abbondio.«Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione, come lei sa che si dice, a parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro: siam troppo fuori della loro strada, grazie al cielo. Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia: ma in ogni caso c’è tempo; s’hanno a sentir prima altre notizie da’ poveri paesi dove anderanno a fermarsi.»Si concluse di star lì un poco a prender fiato; e, siccome era l’ora del desinare, «signori,» disse il sarto: «devono onorare la mia povera tavola: alla buona: ci sarà un piatto di buon viso.»Perpetua disse d’aver con sè qualcosa da rompere il digiuno. Dopo un po’ di cerimonie da una parte e dall’altra, si venne a patti d’accozzar, come si dice, il pentolino, e di desinare in compagnia.I ragazzi s’eran messi con gran festa intorno ad Agnese loro amica vecchia. Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina (quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più!), che andasse a diricciar quattro castagne primaticce ch’eran riposte in un cantuccio: e le mettesse a arrostire.«E tu,» disse a un ragazzo, «va nell’orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portale qui: tutte, ve’. E tu,» disse a un altro, «va sul fico, a coglierne quattro de’ più maturi. Già lo conoscete anche troppo quel mestiere.» Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere un po’ di biancheria da tavola. Perpetua cavò fuori le provvisioni; s’apparecchiò: un tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d’onore, per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla. Si misero a tavola, e desinarono, se non con grand’allegria, almeno con molta più che nessuno de’ commensali si fosse aspettato d’averne in quella giornata.«Cosa ne dice, signor curato, d’uno scombussolamento di questa sorte?» disse il sarto: «mi par di leggere la storia de’ mori in Francia.»«Cosa devo dire? Mi doveva cascare addosso anche questa!»«Però, hanno scelto un buon ricovero,» riprese quello: «chi diavolo ha a andar lassù per forza? E troveranno compagnia: chè già s’è sentito che ci sia rifugiata molta gente, e che ce n’arrivi tuttora.»«Voglio sperare,» disse don Abbondio, «che saremo ben accolti. Lo conosco quel bravo signore; e quando ho avuto un’altra volta l’onore di trovarmi con lui, fu così compito!»«E a me,» disse Agnese, «m’ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che, quando avessi bisogno di qualcosa, bastava che andassi da lui.»«Gran bella conversione!» riprese don Abbondio; «e si mantiene, n’è vero? si mantiene.»Il sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell’innominato, e come, dall’essere il flagello de’ contorni, n’era divenuto l’esempio e il benefattore.«E quella gente che teneva con sè?… tutta quella servitù?…» riprese don Abbondio, il quale n’aveva più d’una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai quieto abbastanza.«Sfrattati la più parte,» rispose il sarto: «e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma come! In somma è diventato quel castello una Tebaide: lei le sa queste cose.»Entrò poi a parlar con Agnese della visita del cardinale. «Grand’uomo!» diceva; «grand’uomo! Peccato che sia passato di qui così in furia, che non ho nè anche potuto fargli un po’ d’onore. Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra volta, un po’ più con comodo!»Alzati poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il cardinale, che teneva attaccata a un battente d’uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacchè lui aveva potuto esaminar da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza.«L’hanno voluto far lui, con questa cosa qui?» disse Agnese. «Nel vestito gli somiglia; ma…»«N’è vero che non somiglia?» disse il sarto: «lo dico sempre anch’io: noi, non c’ingannano, eh? ma, se non altro, c’è sotto il suo nome: è una memoria.»Don Abbondio faceva fretta; il sarto s’impegnò di trovare un baroccio che li conducesse appiè della salita; n’andò subito in cerca, e poco dopo, tornò a dire che arrivava. Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: «signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla: chè anch’io mi diverto un po’ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma però…»«Grazie, grazie,» rispose don Abbondio: «son circostanze, che si ha appena testa d’occuparsi di quel che è di precetto.»Mentre si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si barattano saluti e buoni auguri, inviti e promesse d’un’altra fermata al ritorno, il baroccio è arrivato davanti all’uscio di strada. Ci metton le gerle, salgon su, e principiano, con un po’ più d’agio e di tranquillità d’animo, la seconda metà del viaggio.Il sarto aveva detto la verità a don Abbondio, intorno all’innominato. Questo, dal giorno che l’abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora s’era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l’occasione. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell’offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare nè l’una cosa nè l’altra. Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe commetterne una nuova l’usar la forza in difesa di chi era debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell’ingiuria, lui meno d’ogni altro, aveva diritto di farsi punitore. Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo. La rimembranza dell’antica ferocia, e la vista della mansuetudine presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l’altra, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a mantenergli un’ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sè. I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, contro ogni aspettativa, e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero potuta promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo pentito de’ suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro indegnazione. Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per molt’anni, di non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forti di colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s’eran sentiti altro impulso che di fargli dimostrazioni d’onore. In quell’abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perchè ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d’ogni pericolo. Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per l’uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso quell’uomo si trovava impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato. S’era scelto nella chiesa l’ultimo luogo; e non c’era pericolo che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d’onore. Offender poi quell’uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non tanto un’insolenza e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche loro, più o meno.Queste medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d’una condotta esemplare, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi s’eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l’infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni. Oltre di ciò, un potere occupato in una guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contento d’esser liberato dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno a richiedere. Tormentare un santo, non pareva un buon mezzo di cancellar la vergogna di non aver saputo fare stare a dovere un facinoroso: e l’esempio che si fosse dato col punirlo, non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal divenire inoffensivi. Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito, servivano a questo come d’uno scudo sacro. E in quello stato di cose e d’idee, in quelle singolari relazioni dell’autorità spirituale e del poter civile, ch’eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza, e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace, potè parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con sè l’oblivione, se non l’assoluzione del secondo, quando quella s’era sola adoprata a produrre un effetto voluto da tutt’e due.Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.È vero ch’eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt’altro che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell’esecuzione. Ma già abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare dalla sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po’ di tutto, fuorchè disprezzo nè odio. Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi posti, lo stesso a’ complici di più alto affare, quando riseppero la terribile nuova, e a tutti per le cagioni medesime. Molt’odio, come trovo nel luogo, altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo. Riguardavan questo come uno che s’era mischiato ne’ loro affari, per guastarli; l’innominato aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene.Di mano in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, nè vedendo probabilità che s’avesse a mutare, se n’erano andati. Chi avrà cercato altro padrone, e fors’anche tra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si sarà anche contentato d’andar birboneggiando in libertà. E il simile avranno fatto quegli altri che stavano prima a’ suoi ordini, in diversi paesi. Di quelli poi che s’eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare nè ricever torti, inermi e rispettati.Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l’innominato, tutto contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da’ deboli, che per tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di venirci a far delle loro. Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti; fece loro una parlata sulla buona occasione che Dio dava a loro e a lui, d’impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch’esprimeva la certezza dell’ubbidienza, annunzio loro in generale ciò che intendeva che facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi, perchè la gente che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori. Fece poi portar giù da una stanza a tetto l’armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece dire a’ suoi contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello; a chi non n’aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero come ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all’entrature e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì l’ore e i modi di dar la muta, come in un campo, o come già s’era costumato in quel castello medesimo, ne’ tempi della sua vita disperata.In un canto di quella stanza a tetto, c’erano in disparte l’armi che lui solo aveva portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro. Nessuno de’ servitori le toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva che gli fossero portate. «Nessuna,» rispose; e, fosse voto, fosse proposito, restò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione.Nello stesso tempo, aveva messo in moto altr’uomini e donne di servizio, o suoi dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che diventavan dormitôri. E aveva dato ordine di far venire provvisioni abbondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan crescendo di giorno in giorno. Lui intanto non istava mai fermo; dentro e fuori del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza. In casa, per la strada, faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.CAPITOLO XXX.Quantunque il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi s’avvicinavano alla valle, ma all’imboccatura opposta, con tutto ciò, cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e viottole erano sboccati o sboccavano nella strada. In circostanze simili, tutti quelli che s’incontrano, è come se si conoscessero. Ogni volta che il baroccio aveva raggiunto qualche pedone, si barattavan domande e risposte. Chi era scappato, come i nostri, senza aspettar l’arrivo de’ soldati; chi aveva sentiti i tamburi o le trombe; chi gli aveva visti coloro, e li dipingeva come gli spaventati soglion dipingere.«Siamo ancora fortunati,» dicevan le due donne: «ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno siamo in salvo.»Ma don Abbondio non trovava che ci fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e più ancora il maggiore che sentiva esserci dall’altra parte, cominciava a dargli ombra. «Oh che storia!» borbottava alle donne, in un momento che non c’era nessuno d’intorno: «oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che lassù ci siano tesori. Ci vengono sicuro. Oh povero me! dove mi sono imbarcato!»«Oh! voglion far altro che venir lassù,» diceva Perpetua: «anche loro devono andar per la loro strada. E poi, io ho sempre sentito dire che, ne’ pericoli, è meglio essere in molti.»«In molti? in molti?» replicava don Abbondio: «povera donna! Non sapete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Era meno male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!… Seccatori!» borbottava poi, a voce più bassa: «tutti qui: e via, e via, e via; l’uno dietro l’altro, come pecore senza ragione.»«A questo modo,» disse Agnese, «anche loro potrebbero dir lo stesso di noi.»«Chetatevi un po’,» disse don Abbondio: «che già le chiacchiere non servono a nulla. Quel ch’è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel che vorrà la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona.»Ma fu ben peggio, quando, all’entrata della valle, vide un buon posto d’armati, parte sull’uscio d’una casa, e parte nelle stanze terrene: pareva una caserma. Li guardò con la coda dell’occhio: non eran quelle facce che gli era toccato a vedere nell’altra dolorosa sua gita, o se ce n’era di quelle, erano ben cambiate; ma con tutto ciò, non si può dire che noia gli desse quella vista.—Oh povero me!—pensava:—ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol fare il re, lui? Oh povero me! In circostanze che si vorrebbe potersi nasconder sotto terra, e costui cerca ogni maniera di farsi scorgere, di dar nell’occhio; par che li voglia invitare!—«Vede ora, signor padrone,» gli disse Perpetua, «se c’è della brava gente qui, che ci saprà difendere. Vengano ora i soldati: qui non sono come que’ nostri spauriti, che non son buoni che a menar le gambe.»«Zitta!» rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: «zitta! che non sapete quel che vi dite. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette all’ordine questo luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze; perchè tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada. Oh povero me! Basta, vedrò se ci sarà maniera di mettersi in salvo su per queste balze. In una battaglia non mi ci colgono: oh! in una battaglia non mi ci colgono.»«Se ha poi paura anche d’esser difeso e aiutato….» ricominciava Perpetua; ma don Abbondio l’interruppe aspramente, sempre però a voce bassa: «zitta! E badate bene di non riportare questi discorsi. Ricordatevi che qui bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quello che si vede.»Alla Malanotte, trovarono un altro picchetto d’armati, ai quali don Abbondio fece una scappellata, dicendo intanto tra sè:—ohimè, ohimè: son proprio venuto in un accampamento!—Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio pagò in fretta, e licenziò il condottiere; e s’incamminò con le due compagne per la salita, senza far parola. La vista di que’ luoghi gli andava risvegliando nella fantasia, e mescolando all’angosce presenti, la rimembranza di quelle che vi aveva sofferte l’altra volta. E Agnese, la quale non gli aveva mai visti que’ luoghi, e se n’era fatta in mente una pittura fantastica che le si rappresentava ogni volta che pensava al viaggio spaventoso di Lucia, vedendoli ora quali eran davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle crudeli memorie. «Oh signor curato!» esclamò: «a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada!»«Volete stare zitta? donna senza giudizio!» le gridò in un orecchio don Abbondio: «son discorsi codesti da farsi qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna che ora nessun vi sente; ma se parlate in questa maniera….»«Oh!» disse Agnese: «ora che è santo…!»«State zitta,» le replicò don Abbondio: «credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a ringraziarlo del bene che v’ha fatto.»«Oh! per questo, ci avevo già pensato: che crede che non le sappia un pochino le creanze?»«La creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne. E intendetela bene tutt’e due, che qui non è luogo da far pettegolezzi, e da dir tutto quello che vi può venire in testa. È casa d’un gran signore, già lo sapete: vedete che compagnia c’è d’intorno: ci vien gente di tutte le sorte; sicchè, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c’è necessità: chè a stare zitti non si sbaglia mai.»«Fa peggio lei con tutte cedeste sue….» riprendeva Perpetua.Ma: «zitta!» gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello in fretta, e fece un profondo inchino: chè, guardando in su, aveva visto l’innominato scender verso di loro. Anche questo aveva visto e riconosciuto don Abbondio; e affrettava il passo per andargli incontro.«Signor curato,» disse, quando gli fu vicino, «avrei voluto offrirle la mia casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle esser utile in qualche cosa.»«Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima,» rispose don Abbondio, «mi son preso l’ardire di venire, in queste triste circostanze, a incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la libertà di menar compagnia. Questa è la mia governante….»«Benvenuta,» disse l’innominato.«E questa,» continuò don Abbondio, «è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella… di quella….»«Di Lucia,» disse Agnese.«Di Lucia!» esclamò l’innominato, voltandosi, con la testa bassa, ad Agnese. «Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui…. da me…. in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione.»«Oh giusto!» disse Agnese: «vengo a incomodarla. Anzi,» continuò, avvicinandosegli all’orecchio, «ho anche a ringraziarla….»L’innominato troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia; e sapute che l’ebbe, si voltò per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece, malgrado la loro resistenza cerimoniosa. Agnese diede al curato un’occhiata che voleva dire: veda un poco se c’è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a dar pareri.«Sono arrivati alla sua parrocchia?» gli domandò l’innominato.«No, signore, che non gli ho voluti aspettare que’ diavoli,» rispose don Abbondio. «Sa il cielo se avrei potuto uscir vivo dalle loro mani, e venire a incomodare vossignoria illustrissima.»«Bene, si faccia coraggio,» riprese l’innominato: «chè ora è in sicuro. Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.»«Speriamo che non vengano,» disse don Abbondio. «E sento,» soggiunse, accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, «sento che, anche da quella parte, giri un’altra masnada di gente, ma…. ma….»«È vero,» rispose l’innominato: «ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.»—Tra due fuochi,—diceva tra sè don Abbondio:—proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo!—Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell’edifizio situata sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere a un precipizio. Gli uomini alloggiavano ne’ lati dell’altro cortile a destra e a sinistra, e in quello che rispondeva sulla spianata. Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall’uno all’altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù. Nel quartiere degli uomini, c’erano alcune camere destinate agli ecclesiastici, che potessero capitare. L’innominato v’accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne il possesso.Ventitrè o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un movimento continuo, in una gran compagnia, e che, ne’ primi tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse giorno, che non si desse all’armi. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là. A ogni avviso, l’innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sè della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov’era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera d’uomini armati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz’armi. Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che se n’andavano prima d’esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l’innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s’eran riuniti, e andavano a gettarsi all’improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l’esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte. L’innominato fece un breve discorso a’ suoi uomini, e li condusse al paesetto.Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n’andarono in fretta, senz’aspettarsi l’uno con l’altro, dalla parte dond’eran venuti. L’innominato gl’inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di condizione, di costumi, di sesso e d’età, non nacque mai alcun disordine d’importanza. L’innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura che ognuno metteva nelle cose di cui s’avesse a rendergli conto.Aveva poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si trovavan tra i ricoverati, d’andare in giro e d’invigilare anche loro. E più spesso che poteva, girava anche lui, e si faceva veder per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di chi s’era in casa, serviva di freno a chi ne potesse aver bisogno. E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di congiunti o d’amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione.C’era però anche de’ capi scarichi, degli uomini d’una tempra più salda e d’un coraggio più verde, che cercavano di passar que’ giorni in allegria. Avevano abbandonate le loro case, per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c’era rimedio, nè a figurarsi e a contemplar con la fantasia il guasto che vedrebbero pur troppo co’ loro occhi. Famiglie amiche erano andate di conserva, o s’eran ritrovate lassù, s’eran fatte amicizie nuove; e la folla s’era divisa in crocchi, secondo gli umori e l’abitudini. Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle, dove in quella circostanza, s’eran rizzate in fretta osterie: in alcune, i bocconi erano alternati co’ sospiri, e non era lecito parlar d’altro che di sciagure: in altre, non si rammentavan le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarci. A chi non poteva o non voleva farsi le spese, si distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole ch’eran servite ogni giorno, per quelli che il padrone vi aveva espressamente invitati; e i nostri eran di questo numero.Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto essere impiegate ne’ servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo spendevano una buona parte della giornata; il resto nel chiacchierare con certe amiche che s’eran fatte, o col povero don Abbondio. Questo non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava però; la paura gli teneva compagnia. La paura proprio d’un assalto, credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli dava meno fastidio; perchè, pensandoci appena appena, doveva capire quanto poco fosse fondata. Ma l’immagine del paese circonvicino inondato, da una parte e dall’altra, da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in giro, un castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevan nascere ogni momento in tali circostanze, tutto gli teneva addosso uno spavento indistinto, generale, continuo; lasciando stare il rodío che gli dava il pensare alla sua povera casa. In tutto il tempo che stette in quell’asilo, non se ne discostò mai quanto un tiro di schioppo, nè mai mise piede sulla discesa: l’unica sua passeggiata era d’uscire sulla spianata, e d’andare, quando da una parte e quando dall’altra del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, per istudiare se ci fosse qualche passo un po’ praticabile, qualche po’ di sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso d’un serra serra. A tutti i suoi compagni di rifugio faceva gran riverenze o gran saluti, ma bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente era con le due donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e che lo svergognasse anche Agnese. A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, sentiva le nuove del terribile passaggio, le quali arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che da principio aveva voluto restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto salvar nulla, e a un bisogno anche malconcio: e ogni giorno c’era qualche nuova storia di sciagura. Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d’alcuni si raccontavan l’imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, il tale reggimento si spandeva ne’ tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d’aver informazione e si teneva il conto de’ reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perchè quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron volante de’ veneziani finì d’allontanarsi, e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero anch’esso. Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d’autunno, si vede dai palchi fronzuti d’un grand’albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s’erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda all’esercito. Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s’indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d’entrare in casa a portar via il resto; quando si trattava d’assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; meno che l’imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto la testa.Il giorno fissato per la partenza, l’innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese. E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de’ vecchi.«Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia….» le disse in ultimo: «già son certo che prega per me, poichè le ho fatto tanto male: ditele adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei.»Volle poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl’immagini il lettore. Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio; la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s’eran visti lanzichenecchi.«Ah signor curato!» disse il sarto, dandogli di braccio a rimontare in carrozza: «s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte.»Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, rottami d’ogni sorte, cenci a mucchi, o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosina.Con queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l’aspettativa di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; e trovarono infatti quello che s’aspettavano.Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch’era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que’ nuovi ruspi, diceva tra sè:—son caduta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d’esser caduta in piedi.—Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all’uscio di cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la porcheria che copre il pavimento; e danno un’occhiata in giro. Non c’era nulla d’intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C’era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de’ preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.«Ah porci!» esclamò Perpetua. «Ah baroni!» esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr’uscio che metteva nell’orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d’arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt’e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch’ebbero ben gridato, tutt’e due col braccio teso, e con l’indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que’ giorni, era difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.Per giunta poi, quel disastro fu una semenza d’altre questioni molto noiose; perchè Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de’ soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo. Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio; giacchè la sua roba era in mano di birboni, cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.«Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose,» diceva. «Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce, perchè m’è stata spogliata la casa?»«Se lo dico,» rispondeva Perpetua, «che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.»«Ma vedete se codesti sono spropositi da dirsi!» replicava don Abbondio: «ma volete stare zitta?»Perpetua si chetava, ma non subito subito; e prendeva pretesto da tutto per riprincipiare. Tanto che il pover’uomo s’era ridotto a non lamentarsi più, quando trovava mancante qualche cosa, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno; perchè, più d’una volta, gli era toccato a sentirsi dire: «vada a chiederlo al tale che l’ha, e non l’avrebbe tenuto fino a quest’ora, se non avesse che fare con un buon uomo.»Un’altra e più viva inquietudine gli dava il sentire che giornalmente continuavano a passar soldati alla spicciolata, come aveva troppo bene congetturato; onde stava sempre in sospetto di vedersene capitar qualcheduno o anche una compagnia sull’uscio, che aveva fatto raccomodare in fretta per la prima cosa, e che teneva chiuso con gran cura; ma, per grazia del cielo, ciò non avvenne mai. Nè però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopraggiunse.Ma qui lasceremo da parte il pover’uomo: si tratta ben d’altro che di sue apprensioni private, che de’ guai d’alcuni paesi, che d’un disastro passeggiero.CAPITOLO XXXI.La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: chè della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.Delle molte relazioni contemporanee, non ce n’è alcuna che basti da sè a darne un’idea un po’ distinta e ordinata; come non ce n’è alcuna che non possa aiutare a formarla. In ognuna di queste relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti[25], la quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de’ fatti, e ancor più per il modo d’osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson riconoscere e rettificare con l’aiuto di qualche altra, o di que’ pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell’altra s’eran visti, come in aria, gli effetti. In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno ne’ particolari: carattere, del resto, de’ più comuni e de’ più apparenti ne’ libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d’Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicchè l’idea che se ne ha generalmente, dev’essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d’una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un’idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell’opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell’ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d’essi, d’osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finchè qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro…..giornalmente continuavano a passar soldati alla spicciolata…. (pag. 447).Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C’era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatrè anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perchè a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’ guai, perchè in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all’erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino[26].Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt’e due, «o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiere di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste;[27]» ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi; «et ci parevano,» dice il Tadino, «tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto.» S’informarono del numero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, «si dispose,» dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s’era manifestato; «et mentre si compilaua la grida,» ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri.Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d’esporgli lo stato delle cose. V’andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. Così il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell’esito. Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.Era quest’uomo, come già s’è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d’affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d’ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balía.Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato.Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell’importanza e dell’obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette[28]: e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princípi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare nè all’uno nè all’altro. Tutt’e due l’epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de’ decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l’informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d’ogn’altro, essere informato d’un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa.Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì.Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminío che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, nè ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augúri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati.Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, «della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe,» dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, volontà, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriæ hostibus, dice il Ripamonti.Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover’uomo partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti de’ suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non potè salvarlo dall’animosità e dagl’insulti di quella parte di esso, che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perchè il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei[29], allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti; miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perchè, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perchè pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che, dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perchè trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po’ di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute.I portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici…. (pag. 455).Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un’asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza.Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, nè trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz’altro fine che di servire, senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perchè era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti, essi lo dovevano avere. E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa. «Che se questi Padri iui non si ritrouauano,» dice il Tadino, «al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoichè fu cosa miracolosa l’hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri.» Le persone ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice n’ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione, che d’un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver le miserie d’una città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore.Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste, andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso un’espressa menzione il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de’ figliuoli n’usciron salvi; il resto morì. «Questi casi,» dice il Tadino, «occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia.»Ma l’uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta ferma e invitta, fino all’ultimo, contro la ragione e l’evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malíe. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S’aggiunga che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; nè, per allora, pare che ci si badasse più che tanto. Però scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell’avviso potè servir di conferma al sospetto indeterminato d’una frode scellerata; potè anche essere la prima occasione di farlo nascere.Ma due fatti, l’una di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento. Si disse e si credette generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane. Nè si disse soltanto allora: tutte le memorie de’ contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt’anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva nell’archivio detto di san Fedele; dalla quale l’abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo.La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, nè il primo nè l’ultimo di tal genere. Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell’unzioni, deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d’aver veduto quell’impiastramento e lo descrive[30]. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la cosa ne’ medesimi termini; parlan di visite, d’esperimenti fatti con quella materia sopra de’ cani, e senza cattivo effetto: aggiungono, esser loro opinione, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d’animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L’altre memorie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di nessuno che la negasse; e n’avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perchè, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle.La città già agitata ne fa sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatòri, esami d’arrestati, d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere. Il tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiaro l’autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conueniente, dicono que’ signori nella citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatone e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa.Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella un’unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l’attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s’annoiassero all’assedio di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s’andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblio.C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perchè, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, «si diceua,» (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi) «si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perchè tutti sarebbero morti[31].» Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio, ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinchè la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorío regnava dove era passato; un altro mormorío lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sè, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dovè servir poco a propagarla.In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessôri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.CAPITOLO XXXII.Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de’ decurioni, di ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vôte, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576, avere il governatore, marchese d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come allora s’era fatto; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de’ soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre, della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedè Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott’altri pretesti, e a furia di furberie.Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo[32]. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale[33]. Chè il sospetto sopito dell’unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno[34], le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malíe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perchè; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d’averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perchè dell’uno e dell’altro era stato pur troppo testimonio.Nella chiesa di sant’Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. «Quel vecchio unge le panche!» gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com’erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. «Io lo vidi mentre lo strascinavan così,» dice il Ripamonti: «e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento.»L’altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch’era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.Nè tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento.Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che potè il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo.Non trovo che il tribunale della sanità, nè altri, facessero rimostranza nè opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, a fine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento[35].Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto.Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzío vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa.La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, nè appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, nè altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. «Vide pertanto,» dice uno scrittore contemporaneo[36], «l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.» Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sè.Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, «per le diligenze fatte,» dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risulta cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si potè tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in una descrizion della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni. Nè sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacchè, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. L’impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col suono d’un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva.E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’instituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non potè ottener nulla. «Si doueua non di meno,» dice il Tadino, «compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldadesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, nè prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati»[37]. Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta!Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Nè si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s’impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedi poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne potè avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: chè, in mezzo allo stordimento generale, ali’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sè, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni, all’incirca.Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo…. (pag. 470).Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: «siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo[38].» Non trascurò quelle cautele che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, nè parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò insomma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso.Così, ne’ pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari; sopra questi e quelli eran delegati, come abbiam detto, in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l’afferma anche il Tadino[39], che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vôte d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori. Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. «E mentre,» dice il Ripamonti, «i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio.»La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse le volontà. I vaneggiamenti degl’infermi che accusavan sè stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile d’ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s’erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell’affermazioni di molti scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de’ processi per stregoneria, le confessioni, non sempre estorte, degl’imputati, non serviron poco a promovere e a mantener l’opinione che regnava intorno ad essa: che, quando un’opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte l’uscite, a scorrer per tutti i gradi della persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s’era fermata; e il cocchiere l’aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d’unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma non avendo voluto acconsentire, s’era trovato, in un batter d’occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso[40], girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa: l’elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de’ fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n’ebbe in risposta ch’eran sogni.D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni de’ dotti; come disastrosi del pari n’eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro, l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, «inclinando,» scrive il Tadino, «la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur.» Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent’altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malíe, d’unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb’essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche, (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, sognato in quella materia) divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia.Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l’aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l’era peste, e s’attaccava col contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell’unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi addurre in prova dell’unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come, al suo rifiuto, quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno[41].»Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così la storia dello spirito umano, e da occasion d’osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa essere scompigliata da un’altra serie d’idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni[42]. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S’è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l’ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento c’è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. «Era opinion comune,» dice a un di presso, «che di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate.» Ecco le sue parole: Unguenta vero hæc aiebant componi conficique multifariam, fraudisque vias fuisse complures; quorum sane fraudum, et artium, aliis quidem assentimur, alias vero fictas fuisse commentitiasque arbitramur[43].Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, chè nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. «Ho trovato gente savia in Milano,» dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, «che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi.» Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l’impiegarono a cercar di questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano nell’archivio nominato di sopra, c’è una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore d’aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de’ fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio, con l’assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal veneziano, para la fábrica del veneno. Soggiunge che lui aveva preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l’auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de’ fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare gl’indizi del delitto, e probabilmente dall’auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co’ soldati era andato a reconocer la casa, y a ver si hallará algunos vestigios, e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati.La cosa dovè finire in nulla, giacchè gli scritti del tempo che parlano de’ sospetti che c’eran su que’ gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo, in un’altra occasione, si credè d’aver trovato.I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d’un tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Chè, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualcosa de’ tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim’anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la peste, con polveri, o con unguenti, o con malíe, o con tutto ciò insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors’anche il più osservabile; o, almeno, c’è più campo di farci sopra osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E quantunque uno scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c’è parso che la storia potesse esser materia d’un nuovo lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l’estensione che merita. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que’ casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e l’esame di quelli, torneremo finalmente a’ nostri personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine.CAPITOLO XXXIII.Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d’elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima….gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra…. (pag. 482).Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d’ordinare al Griso che gli facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla lontana: perchè, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico.«Sto bene, ve’,» disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che gli passava per la mente. «Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po’ troppo. C’era una vernaccia!… Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un gran sonno… Levami un po’ quel lume dinanzi, che m’accieca… mi dà una noia…!»«Scherzi della vernaccia,» disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. «Ma vada a letto subito, chè il dormire le farà bene.»«Hai ragione: se posso dormire… Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e sta attento, ve’, se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla… Porta via presto quel maledetto lume,» riprese poi, intanto che il Griso eseguiva l’ordine, avvicinandosi meno che poteva. «Diavolo! che m’abbia a dar tanto fastidio!»Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n’andò in fretta, mentre quello si cacciava sotto.Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sè quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacchè era ancor più facile prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, che non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. «Largo canaglia!» gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e senti invece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; chè la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorchè una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzío, un fischio continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.«Griso!» disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: «tu sei sempre stato il mio fido.»«Sì, signore.»«T’ho sempre fatto del bene.»«Per sua bontà.»«Di te mi posso fidare…!»«Diavolo!»«Sto male, Griso.»«Me n’ero accorto.»«Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.»Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.«Non voglio fidarmi d’altri che di te,» riprese don Rodrigo: «fammi un piacere, Griso.»«Comandi,» disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita.«Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?»«Lo so benissimo.»«È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa la cosa bene, che nessun se n’avveda.»«Ben pensato,» disse il Griso: «vo e torno subito.»«Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento un’arsione, che non ne posso più.»«No, signore,» rispose il Griso: «niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.»Così detto, uscì, raccostando l’uscio.Don Rodrigo, tornato sotto, l’accompagnava con l’immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dall’altra parte, con ribrezzo. Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d’attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccío di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.«Ah traditore infame!… Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato!» grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien li, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: «ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!»«Tienlo bene, fin che lo portiam via,» disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura.«Scellerato!» urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. «Lasciatemi ammazzar quell’infame,» diceva quindi ai monatti, «e poi fate di me quel che volete.» Poi ritornava a chiamar, con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perchè l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.«Sta buono, sta buono,» diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: «fate le cose da galantuomini!»«Tu! tu!» mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti. «Tu! dopo…! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire!» Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole.«Tienlo forte,» diceva l’altro monatto: «è fuor di sè.»Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone.Lasciando ora questo nel soggiorno de’ guai, dobbiamo andare in cerca d’un altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l’avesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia nè l’uno nè l’altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il nome d’Antonio Rivolta.C’era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata l’inimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore di ricerche e d’impegni dalla parte di qui, Bortolo s’era dato premura d’andarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sè, e perchè gli voleva bene, e perchè Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche questa ragione c’era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla. Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era così.Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Più d’una volta, e specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte d’Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e l’occasioni non mancavano; chè, appunto in quell’intervallo di tempo, la repubblica aveva avuto bisogno di far gente. La tentazione era qualche volta stata per Renzo tanto più forte, che s’era anche parlato d’invadere il milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione.«Se ci hanno da andare,» gli diceva, «ci anderanno anche senza di te, e tu potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà. E, prima che ci possan mettere i piedi…! Per me, sono eretico: costoro abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna? San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene qui?…. Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sta sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo t’aiuterà. Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d’incannar seta, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta.»Altre volte Renzo si risolveva d’andar di nascosto, travestito, e con un nome finto. Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni troppo facili a indovinarsi.Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e…. non vi sgomentate, ch’io non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c’è, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de’ libri! Quel ch’io volevo dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sè, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell’animo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò più che mai a Lucia. Cosa ne sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come un’eccezione? E, a così poca distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale incertezza! E quand’anche questa si fosse poi dissipata, quando, cessato ogni pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c’era sempre quell’altro mistero, quell’imbroglio del voto.—Anderò io, anderò a sincerarmi di tutto in una volta,—disse tra sè, e lo disse prima d’essere ancora in caso di reggersi.—Purchè sia viva!—Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che m’ha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno altro da pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri, anche qui, certa gente, che n’hann’addosso…. Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti che l’è una confusione peggio. Se lascio scappare una occasion così bella,—(La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!)—non ne ritorna più una simile!—Giova sperare, caro il mio Renzo.Appena potè strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma, datogli una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.«Ah ah!» disse Bortolo: «l’hai scampata, tu. Buon per te!»«Sto ancora un po’ male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son fuori.»«Eh! vorrei esser io ne’ tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una bella parola!»Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione.«Va, questa volta, che il cielo ti benedica,» rispose quello: «cerca di schivar la giustizia, com’io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci vada bene a tutt’e due, ci rivedremo.»«Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.»«Torna pure accompagnato; che, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti, e ci faremo buona compagnia. Purchè tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo d’influsso!»«Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!»«Torno a dire: Dio voglia!»Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze, e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire. Si mise sotto panni una cintura, con dentro que’ cinquanta scudi, che non aveva mai intaccati, e de’ quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno, risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in tasca un benservito, che s’era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone, sotto il nome d’Antonio Rivolta; in un taschino de’ calzoni si mise un coltellaccio, ch’era il meno che un galantuomo potesse portare a que’ tempi; e s’avviò, agli ultimi d’agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di sapere.I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell’altra gente languiva o moriva; e quelli ch’erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: chè tutto poteva esser contro di loro arme di ferita mortale. Quegli altri all’opposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacchè aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d’un’epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni accomodati anch’essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d’erranti), a zonzo e alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d’economia politica.Con una tale sicurezza, temperata però dall’inquietudini che il lettore sa, e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza onor d’esequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po’ di pane e di companatico che aveva portato con sè. Frutte, n’aveva a sua disposizione, lungo la strada, anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n’avesse volute; bastava ch’entrasse ne’ campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce n’era come se fosse grandinate; giacchè l’anno era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente; e non c’era quasi chi se ne prendesse pensiero: anche l’uve nascondevano, per dir così, i pampani, ed eran lasciate in balía del primo occupante.Verso sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva d’aver negli orecchi que’ sinistri tocchi a martello che l’avevan come accompagnato, inseguito, quand’era fuggito da que’ luoghi; e insieme sentiva, per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento ancor più forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e ancora peggio s’aspettava al termine del cammino: chè dove aveva disegnato d’andare a fermarsi, era a quella casa ch’era stato solito altre volte di chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva essere, tutt’al più, che quella d’Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo, era di trovarcela in vita e in salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene che la sua non dovesse esser più abitazione che da topi e da faine.Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il curato. A mezzo circa, c’era da una parte la vigna, e dall’altra la casetta di Renzo; sicchè, passando, potrebbe entrare un momento nell’una e nell’altra, a vedere un poco come stesse il fatto suo.Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno; e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un’attitudine d’insensato: e, a questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di Gervaso ch’era venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione. Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch’era invece quel Tonio così sveglio che ce l’aveva condotto. La peste, togliendogli il vigore del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l’incantato fratello.«Oh Tonio!» gli disse Renzo, fermandosegli davanti: «sei tu?» Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa.«Tonio! non mi riconosci?»«A chi la tocca, la tocca,» rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta.«L’hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più?»«A chi la tocca, la tocca,» replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più contristato. Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi n’è portato a vicenda; e di mano in mano che s’avvicinava, sempre più si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva: vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel di Bergamo.—È lui senz’altro!—disse tra sè, e alzò le mani al cielo, con un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre volte stavano appena per l’appunto. Renzo gli andò incontro, allungando il passo, e gli fece una riverenza; che, sebbene si fossero lasciati come sapete, era però sempre il suo curato.«Siete qui, voi?» esclamò don Abbondio.«Son qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia?»«Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. È a Milano, se pure è ancora in questo mondo. Ma voi….»«E Agnese, è viva?»«Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma…»«Dov’è?»«È andata a starsene nella Valsassina, da que’ suoi parenti, a Pasturo, sapete bene; chè là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma voi, dico….»«Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo….?»«È andato via che è un pezzo. Ma…»«Lo sapevo; me l’hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da queste parti.»«Oh giusto! non se n’è più sentito parlare. Ma voi….»«La mi dispiace anche questa.»«Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l’amor del cielo! Non sapete che bagattella di cattura…?»«Cosa m’importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch’io una volta a vedere i fatti miei. E non si sa proprio….?»«Cosa volete vedere? che or ora non c’è più nessuno, non c’è più niente. E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo, c’è giudizio? Fate a modo d’un vecchio che è obbligato ad averne più di voi, e che vi parla per l’amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto più tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra…»«Lo so pur troppo, birboni!»«Ma dunque…!»«Ma se le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?»«Vi dico che non c’è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico che….»«Domando se è qui, colui.»«Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel fuoco, dopo tante cose!»«C’è, o non c’è?»«Non c’è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in questi tempi?»«Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo…. dico per me: l’ho avuta, e son franco.»«Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n’è scampata una di questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e….»«Lo ringrazio bene.»«E non andarne a cercar dell’altre, dico. Fate a modo mio….»«L’ha avuta anche lei, signor curato, se non m’inganno.»«Se l’ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che m’ha conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno d’un po’ di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po’ meglio…. In nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate….»«Sempre l’ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto n’avevo a non movermi. Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch’io, a casa mia.»«Casa vostra….»«Mi dica; ne son morti molti qui?…»«Eh eh!» esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere. Renzo s’aspettava pur troppo qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d’amici, di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: «poverino! poverina! poverini!»«Vedete!» continuò don Abbondio: «e non è finita. Se quelli che restano non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c’è più altro che la fine del mondo.»«Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.»«Ah! sia ringraziato il cielo, che la v’è entrata! E, già s’intende, fate ben conto di ritornar sul bergamasco.»«Di questo non si prenda pensiero.»«Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?»«Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son più un bambino: ho l’uso della ragione. Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d’avermi visto. È sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire.»«Ho inteso,» disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: «ho inteso. Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate voi; non vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso.» E, continuando a borbottar tra i denti quest’ultime parole, riprese per la sua strada.Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c’era una famiglia di contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinetto, dell’età di Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese. Pensò d’andar lì.E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori potè subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna «nel luogo di quel poverino,» come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano c’era la sua casa; attraversò l’orto, camminando fino a mezza gamba tra l’erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia d’una delle due stanze che c’era a terreno: al rumore de’ suoi passi, al suo affacciarsi, uno scompiglio, uno scappare incrocicchiato di topacci, un cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il letto de’ lanzichenecchi. Diede un’occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non c’era altro. Se n’andò anche di là, mettendosi le mani ne’ capelli; tornò indietro, rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese un’altra straducola a mancina, che metteva ne’ campi; e senza veder nè sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi. Già principiava a farsi buio. L’amico era sull’uscio, a sedere sur un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un calpestío, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le mani: «non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po’ stare, che sarà anche questa un’opera di misericordia.»Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.«Renzo!….» disse quello, esclamando insieme e interrogando.«Proprio,» disse Renzo; e si corsero incontro.«Sei proprio tu!» disse l’amico, quando furon vicini: «oh che gusto ho di vederti! Chi l’avrebbe pensato? T’avevo preso per Paolin de’ morti, che vien sempre a tormentarmi, perchè vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo, come un romito!»«Lo so pur troppo,» disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza sospendere i discorsi, l’amico si mise in faccende per fare un po’ d’onore a Renzo, come si poteva così all’improvviso e in quel tempo. Mise l’acqua al fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedè poi il matterello a Renzo, perchè la dimenasse; e se n’andò dicendo: «son rimasto solo; ma! son rimasto solo!»Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla taffería, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento. E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perchè all’uno e all’altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si trova negli altri.Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d’Agnese, nè consolarlo della di lei assenza, non solo per quell’antica e speciale affezione, ma anche perchè, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n’era una di cui essa sola aveva la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o andar prima in cerca d’Agnese, giacchè n’era così poco lontano; ma, considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel primo proposito d’andare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche dall’amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se n’era andato con la coda tra le gambe, e non s’era più veduto da quelle parti; insomma su tutto quell’intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: chè Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo com’era stato scritto; e l’interprete bergamasco, nel leggergli la lettera, n’aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l’unico filo che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, potè confermarsi sempre più ch’era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n’era andata la più parte; quelli che rimanevano, avevan tutt’altro da pensare che alle cose vecchie.Raccontò anche lui all’amico le sue vicende, e n’ebbe in contraccambio cento storie, del passaggio dell’esercito, della peste, d’untori, di prodigi. «Son cose brutte,» disse l’amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa disabitata; «cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.»Allo spuntar del giorno, eran tutt’e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino de’ calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito presso all’ospite. «Se la mi va bene,» gli disse, «se la trovo in vita, se….. basta…. ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e poi, e poi…. Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia….. allora, non so quel che farò, non so dov’anderò: certo, da queste parti non mi vedete più.» E così parlando, ritto sulla soglia dell’uscio, con la testa per aria, guardava, con un misto di tenerezza e d’accoramento, l’aurora del suo paese, che non aveva più veduta da tanto tempo. L’amico gli disse, come s’usa, di sperar bene; volle che prendesse con sè qualcosa da mangiare; l’accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augúri.Renzo, s’incamminò con la sua pace, bastandogli d’arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon’ora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da’ suoi pensieri, fuorchè le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c’era de’ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l’uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.Verso sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un po’ di memoria de’ luoghi, che gli era rimasta dell’altro viaggio, e il calcolo del cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla città, uscì dalla strada maestra, per andar ne’ campi in cerca di qualche cascinotto, e lì passar la notte; chè con osterie non si voleva impicciare. Trovò meglio di quel che cercava: vide un’apertura in una siepe che cingeva il cortile d’una cascina; entrò a buon conto. Non c’era nessuno: vide da un canto, un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala a mano; diede un’occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s’accomodò per dormire, e infatti s’addormentò subito, per non destarsi che all’alba. Allora, andò carpon carponi verso l’orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non vedendo nessuno, scese di dov’era salito, uscì di dov’era entrato, s’incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta Nuova, e molto vicino a questa.CAPITOLO XXXIV.In quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito, così all’ingrosso, che c’eran ordini severissimi di non lasciar entrar nessuno, senza bulletta di sanità; ma che in vece ci s’entrava benissimo, chi appena sapesse un po’ aiutarsi e cogliere il momento. Era infatti così; e lasciando anche da parte le cause generali, per cui in que’ tempi ogni ordine era poco eseguito; lasciando da parte le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de’ cittadini.Su queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare d’entrar dalla prima porta a cui si fosse abbattuto; se ci fosse qualche intoppo, riprender le mura di fuori, finchè ne trovasse un’altra di più facile accesso. E sa il cielo quante porte s’immaginava che Milano dovesse avere. Arrivato dunque sotto le mura, si fermò a guardar d’intorno, come fa chi, non sapendo da che parte gli convenga di prendere, par che n’aspetti, e ne chieda qualche indizio da ogni cosa. Ma, a destra e a sinistra, non vedeva che due pezzi d’una strada storta; dirimpetto, un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d’uomini viventi: se non che, da un certo punto del terrapieno, s’alzava una colonna d’un fumo oscuro e denso, che salendo s’allargava e s’avvolgeva in ampi globi, perdendosi poi nell’aria immobile e bigia. Eran vestiti, letti e altre masserizie infette che si bruciavano: e di tali triste fiammate se ne faceva di continuo, non lì soltanto, ma in varie parti delle mura.Il tempo era chiuso, l’aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova costernazione all’inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i suoi pensieri.Stato lì alquanto, prese la diritta, alla ventura, andando, senza saperlo, verso porta Nuova, della quale, quantunque vicina, non poteva accorgersi, a cagione d’un baluardo, dietro cui era allora nascosta. Dopo pochi passi, principiò a sentire un tintinnío di campanelli, che cessava e ricominciava ogni tanto, e poi qualche voce d’uomo. Andò avanti e, passato il canto del baluardo, vide per la prima cosa, un casotto di legno, e sull’uscio, una guardia appoggiata al moschetto, con una cert’aria stracca e trascurata: dietro c’era uno stecconato, e dietro quello, la porta, cioè due alacce di muro, con una tettoia sopra, per riparare i battenti; i quali erano spalancati, come pure il cancello dello stecconato. Però, davanti appunto all’apertura, c’era in terra un tristo impedimento: una barella, sulla quale due monatti accomodavano un poverino, per portarlo via. Era il capo de’ gabellieri, a cui, poco prima, s’era scoperta la peste. Renzo si fermò, aspettando la fine: partito il convoglio, e non venendo nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s’avviò in fretta; ma la guardia, con una manieraccia, gli gridò: «olà!» Renzo si fermò di nuovo su due piedi, e, datogli d’occhio, tirò fuori un mezzo ducatone, e glielo fece vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo buttasse; e vistoselo volar subito a’ piedi, susurrò: «va innanzi presto.» Renzo non se lo fece dir due volte; passò lo stecconato, passò la porta, andò avanti, senza che nessuno s’accorgesse di lui, o gli badasse; se non che, quando ebbe fatti forse quaranta passi, sentì un altro «olà» che un gabelliere gli gridava dietro. Questa volta, fece le viste di non sentire, e, senza voltarsi nemmeno, allungò il passo. «Olà!» gridò di nuovo il gabelliere, con una voce però che indicava più impazienza che risoluzione di farsi ubbidire; e non essendo ubbidito, alzò le spalle, e tornò nella sua casaccia, come persona a cui premesse più di non accostarsi troppo ai passeggieri, che d’informarsi de’ fatti loro.La strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta fino al canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muri d’orti, chiese e conventi, e poche case. In cima a questa strada, e nel mezzo di quella che costeggia il canale, c’era una colonna, con una croce detta la croce di sant’Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi, non vedeva altro che quella croce. Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a diritta, in quella strada che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui.—Un cristiano, finalmente!—disse tra sè; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che s’avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto più, quando s’accorse che, in vece d’andarsene per i fatti suoi, gli veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: «via! via! via!»«Oh oh!» gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e, avendo tutt’altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato.L’altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. «Se mi s’accostava un passo di più,» soggiunse, «l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu ch’eravamo in un luogo così solitario, che se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si trovava quella scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, mi son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi un malanno; perchè un po’ di polvere è subito buttata; e coloro hanno una destrezza particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro. Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa!» E fin che visse, che fu per molt’anni, ogni volta che si parlasse d’untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: «quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perchè le cose bisogna averle viste.»Renzo, lontano dall’immaginarsi come l’avesse scampata bella, e agitato più dalla rabbia che dalla paura, pensava, camminando, a quell’accoglienza, e indovinava bene a un di presso ciò che lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma la cosa gli pareva così irragionevole, che concluse tra sè che colui doveva essere un qualche mezzo matto.—La principia male,—pensava però:—par che ci sia un pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a seconda; e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati. Basta…. coll’aiuto di Dio…. se trovo…. se ci riesco a trovare…. eh! tutto sarà stato niente.—Arrivato al ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella strada di san Marco, parendogli, a ragione, che dovesse condurre verso l’interno della città. E andando avanti, guardava in qua e in là, per veder se poteva scoprire qualche creatura umana; ma non ne vide altra che uno sformato cadavere nel piccol fosso che corre tra quelle poche case (che allora erano anche meno), e un pezzo della strada. Passato quel pezzo, sentì gridare: «o quell’uomo!» e guardando da quella parte, vide poco lontano, a un terrazzino d’una casuccia isolata, una povera donna, con una nidiata di bambini intorno; la quale, seguitandolo a chiamare, gli fece cenno anche con la mano. Ci andò di corsa; e quando fu vicino, «o quel giovine,» disse quella donna: «per i vostri poveri morti, fate la carità d’andare a avvertire il commissario che siamo qui dimenticati. Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perchè il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete; e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare. In tante ore che siam qui, non m’è mai capitato un cristiano che me la facesse questa carità: e questi poveri innocenti moion di fame.»«Di fame!» esclamò Renzo; e, cacciate le mani nelle tasche, «ecco, ecco,» disse, tirando fuori i due pani: «calatemi giù qualcosa da metterli dentro.»«Dio ve ne renda merito; aspettate un momento,» disse quella donna; e andò a cercare un paniere, e una fune da calarlo, come fece. A Renzo intanto gli vennero in mente que’ pani che aveva trovati vicino alla croce, nell’altra sua entrata in Milano, e pensava:—ecco: è una restituzione, e forse meglio che se gli avessi restituiti al proprio padrone; perchè qui è veramente un’opera di misericordia.—«In quanto al commissario che dite, la mia donna,» disse poi, mettendo i pani nel paniere, «io non vi posso servire in nulla; perchè, per dirvi la verità, son forestiero, e non son niente pratico di questo paese. Però, se incontro qualche uomo un po’ domestico e umano, da potergli parlare, lo dirò a lui.»La donna lo pregò che facesse così, e gli disse il nome della strada, onde lui sapesse indicarla.«Anche voi,» riprese Renzo, «credo che potrete farmi un piacere, una vera carità, senza vostro incomodo. Una casa di cavalieri, di gran signoroni, qui di Milano, casa ***, sapreste insegnarmi dove sia?»«So che la c’è questa casa,» rispose la donna: «ma dove sia, non lo so davvero. Andando avanti di qua, qualcheduno che ve la insegni, lo troverete. E ricordatevi di dirgli anche di noi.»«Non dubitate,» disse Renzo, e andò avanti.A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva cominciato a sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di ruote e di cavalli, con un tintinnío di campanelli, e ogni tanto un chioccar di fruste, con un accompagnamento d’urli. Guardava innanzi, ma non vedeva nulla. Arrivato allo sbocco di quella strada, scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la prima cosa che gli diede nell’occhio, furon due travi ritte, con una corda, e con certe carrucole; e non tardò a riconoscere (ch’era cosa famigliare in quel tempo) l’abbominevole macchina della tortura. Era rizzata in quel luogo, e non in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade più spaziose, affinchè i deputati d’ogni quartiere, muniti a questo d’ogni facoltà più arbitraria, potessero farci applicare immediatamente chiunque par esse loro meritevole di pena: o sequestrati che uscissero di casa, o subalterni che non facessero il loro dovere, o chiunque altro. Era uno di que’ rimedi eccessivi e inefficaci de’ quali, a quel tempo, e in que’ momenti specialmente, si faceva tanto scialacquío.Ora, mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perchè possa essere alzato in quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe, venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli, un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle costole de’ cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; che, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que’ mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio.Il giovine s’era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla sbarra del canale, e pregava intanto per que’ morti sconosciuti. Un atroce pensiero gli balenò in mente:—forse là, là insieme, là sotto… Oh, Signore! fate che non sia vero! fate ch’io non ci pensi!—Passato il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza, prendendo lungo il canale a mancina, senz’altra ragione della scelta, se non che il convoglio era andato dall’altra parte. Fatti que’ quattro passi tra il fianco della chiesa e il canale, vide a destra il ponte Marcellino; prese di lì, e riuscì in Borgo Nuovo. E guardando innanzi, sempre con quella mira di trovar qualcheduno da farsi insegnar la strada, vide in fondo a quella un prete in farsetto, con un bastoncino in mano, ritto vicino a un uscio socchiuso, col capo chinato, e l’orecchio allo spiraglio; e poco dopo lo vide alzar la mano e benedire. Congetturò quello ch’era di fatto, cioè che finisse di confessar qualcheduno; e disse tra sè:—questo è l’uomo che fa per me. Se un prete, in funzion di prete, non ha un po’ di carità, un po’ d’amore e di buona grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo mondo.—Intanto il prete, staccatosi dall’uscio, veniva dalla parte di Renzo, tenendosi, con gran riguardo, nel mezzo della strada. Renzo, quando gli fu vicino, si levò il cappello, e gli accennò che desiderava parlargli, fermandosi nello stesso tempo, in maniera da fargli intendere che non si sarebbe accostato di più. Quello pure si fermò, in atto di stare a sentire, puntando però in terra il suo bastoncino davanti a sè, come per farsene un baluardo. Renzo espose la sua domanda, alla quale il prete soddisfece, non solo con dirgli il nome della strada dove la casa era situata, ma dandogli anche, come vide che il poverino n’aveva bisogno, un po’ d’itinerario; indicandogli, cioè, a forza di diritte e di mancine, di chiese e di croci, quell’altre sei o otto strade che aveva da passare per arrivarci.«Dio la mantenga sano, in questi tempi, e sempre,» disse Renzo: e mentre quello si moveva per andarsene, «un’altra carità,» soggiunse; e gli disse della povera donna dimenticata. Il buon prete ringraziò lui d’avergli dato occasione di fare una carità così necessaria; e, dicendo che andava ad avvertire chi bisognava, tirò avanti. Renzo si mosse anche lui, e, camminando, cercava di fare a sè stesso una ripetizione dell’itinerario, per non esser da capo a dover domandare a ogni cantonata. Ma non potreste immaginarvi come quell’operazione gli riuscisse penosa, e non tanto per la difficoltà della cosa in sè, quanto per un nuovo turbamento che gli era nato nell’animo. Quel nome della strada, quella traccia del cammino l’avevan messo così sottosopra. Era l’indizio che aveva desiderato e domandato, e del quale non poteva far di meno; nè gli era stato detto nient’altro, da che potesse ricavare nessun augurio sinistro; ma che volete? quell’idea un po’ più distinta d’un termine vicino, dove uscirebbe d’una grand’incertezza, dove potrebbe sentirsi dire: è viva, o sentirsi dire: è morta; quell’idea l’aveva così colpito, che, in quel momento, gli sarebbe piaciuto più di trovarsi ancora al buio di tutto, d’essere al principio del viaggio, di cui ormai toccava la fine. Raccolse però le sue forze, e disse a sè stesso:—ehi! se principiamo ora a fare il ragazzo, com’anderà?—Così rinfrancato alla meglio, seguitò la sua strada, inoltrandosi nella città.Quale città! e cos’era mai, al paragone, quello ch’era stata l’anno avanti, per cagion della fame!Renzo s’abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più desolate: quella crociata di strade che si chiamava il carrobio di porta Nuova. (C’era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant’Anastasia.) Tanta era stata in quel vicinato la furia del contagio, e il fetor de’ cadaveri lasciati lì, che i pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare: sicchè, alla mestizia che dava al passeggiero quell’aspetto di solitudine e d’abbandono, s’aggiungeva l’orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della recente abitazione. Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col pensare che la meta non doveva essere così vicina, e sperando che, prima d’arrivarci, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e infatti, di lì a non molto riuscì in un luogo che poteva pur dirsi città di viventi; ma quale città ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate, o invase; altri inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente di peste; altri segnati d’una croce fatta col carbone, per indizio ai monatti, che c’eran de’ morti da portar via: il tutto più alla ventura che altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare un’angheria. Per tutto cenci e, più ributtanti de’ cenci, fasce marciose, strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone morte all’improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da portarli via, o cascati da’ carri medesimi, o buttati anch’essi dalle finestre: tanto l’insistere e l’imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni riguardo sociale! Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierío di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichío d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto.Morti a quell’ora forse i due terzi de’ cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de’ pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava indizio d’una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più qualificati, senza cappa nè mantello, parte allora essenzialissima del vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de’ religiosi in farsetto; dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli untori. E fuor di questa cura d’andar succinti e ristretti il più che fosse possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure e arruffate le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d’infamia, e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse voluto avvicinarsi troppo; dall’altra pasticche odorose, o palle di metallo o di legno traforate, con dentro spugne inzuppate d’aceti medicati; e se le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. Portavano alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po’ d’argento vivo, persuasi che avesse la virtù d’assorbire e di ritenere ogni esalazione pestilenziale; e avevan poi cura di l’innovarlo ogni tanti giorni. I gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici, quando pur due s’incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo, anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d’altro sudiciume, o d’altro più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva essere spesso buttate da quelle su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. Così l’ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie all’angustie, e dava falsi terrori, in compenso de’ ragionevoli e salutari che aveva levati da principio.Tal era ciò che di meno deforme e di men compassionevole si faceva vedere intorno, i sani, gli agiati: chè, dopo tante immagini di miseria, e pensando a quella ancor più grave, per mezzo alla quale dovrem condurre il lettore, non ci fermeremo ora a dir qual fosse lo spettacolo degli appestati che si strascicavano o giacevano per le strade, de’ poveri, de’ fanciulli, delle donne. Era tale, che il riguardante poteva trovar quasi un disperato conforto in ciò che ai lontani e ai posteri fa la più forte e dolorosa impressione; nel pensare, dico, nel vedere quanto que’ viventi fossero ridotti a pochi.In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva distinguere quel solito orribile tintinnío.Arrivato alla cantonata della strada, ch’era una delle più larghe, vide quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel luogo: monatti ch’entravan nelle case, monatti che n’uscivano con un peso su le spalle, e lo mettevano su l’uno o l’altro carro: alcuni con la divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno d’allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora da un’altra finestra, veniva una voce lugubre: «qua, monatti!» E con suono ancor più sinistro, da quel tristo brulichío usciva qualche vociaccia che rispondeva: «ora, ora.» Ovvero eran pigionali che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti rispondevano con bestemmie.Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno nè disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete.» Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, nè di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.»Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.» Poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi,» disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.»Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finchè il carro non si mosse, finchè lo potè vedere; poi disparve. E che altro potè fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.«O Signore!» esclamò Renzo: «esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!»Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente l’itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolío di fanciulli.Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s’avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de’ monatti che li guidavano; altri camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, nè alcun altro sentimento, come insensati; donne co’ bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d’aver lasciata addormentata sul suo letto, ci s’era buttata, sorpresa tutt’a un tratto dalla peste; e stava lì senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il carro veniva più tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la madre, tutta occupata de’ suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano con parole di conforto: nè adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che guidavano i fratellini più teneri, e, con giudizio e con compassione da grandi, raccomandavano loro d’essere ubbidienti, gli assicuravano che s’andava in un luogo dove c’era chi avrebbe cura di loro per farli guarire.In mezzo alla malinconia e alla tenerezza di tali viste, una cosa toccava più sul vivo, e teneva in agitazione il nostro viaggiatore. La casa doveva esser lì vicina, e chi sa se tra quella gente…. Ma passata tutta la comitiva, e cessato quel dubbio, si voltò a un monatto che veniva dietro, e gli domandò della strada e della casa di don Ferrante. «In malora, tanghero,» fu la risposta che n’ebbe. Nè si curò di dare a colui quella che si meritava; ma, visto, a due passi, un commissario che veniva in coda al convoglio, e aveva un viso un po’ più di cristiano, fece a lui la stessa domanda. Questo, accennando con un bastone la parte donde veniva, disse: «la prima strada a diritta, l’ultima casa grande a sinistra.»Con una nuova e più forte ansietà in cuore, il giovine prende da quella parte. È nella strada; distingue subito la casa tra l’altre, più basse e meschine; s’accosta al portone che è chiuso, mette la mano sul martello, e ce la tien sospesa, come in un’urna, prima di tirar su la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la sua morte. Finalmente alza il martello, e dà un picchio risoluto.Dopo qualche momento, s’apre un poco una finestra; una donna fa capolino, guardando chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi? commissari? untori? diavoli?«Quella signora,» disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo sicura: «ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia?»«La non c’è più; andate,» rispose quella donna, facendo atto di chiudere.«Un momento, per carità! La non c’è più? Dov’è?»«Al lazzeretto;» e di nuovo voleva chiudere.«Ma un momento, per l’amor del cielo! Con la peste?»«Già. Cosa nuova, eh? Andate.»«Oh povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è….?»Ma intanto la finestra fu chiusa davvero.«Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri morti! Non le chiedo niente del suo: ohe!» Ma era come dire al muro.Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l’unica persona che vide, fu un’altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se n’accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa.«Che diamine….?» cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all’improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: «l’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!»«Chi? io! ah strega bugiarda! sta zitta,» gridò Renzo; e fece un salto verso lei, per impaurirla e farla chetare. Ma s’avvide subito, che aveva bisogno piuttosto di pensare ai casi suoi. Allo strillar della vecchia, accorreva gente di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe stata, tre mesi prima; ma più che abbastanza per poter fare d’un uomo solo quel che volessero. Nello stesso tempo, s’aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di prima ci s’affacciò questa volta, e gridava anche lei: «pigliatelo, pigliatelo; che dev’essere uno di que’ birboni che vanno in giro a unger le porte de’ galantuomini.»Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un’occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra’ piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestío e, più forti del calpestío, quelle grida amare: «dagli! dagli! all’untore!» Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L’ira divenne rabbia, l’angoscia si cangiò in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: «chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo.»Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…… (pag. 508).Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi persecutori s’eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (chè il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s’avanzava, anzi una fila di que’ soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all’untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall’impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte; prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio vôto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate.«Bravo! bravo!» esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de’ quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l’orribil cosa com’era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. «Bravo! bel colpo!»«Sei venuto a metterti sotto la protezione de’ monatti; fa conto d’essere in chiesa,» gli disse uno de’ due che stavano sul carro dov’era montato.I nemici, all’avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se n’andavano, non lasciando di gridare: «dagli! dagli! all’untore!» Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria.«Lascia fare a me,» gli disse un monatto; e strappato d’addosso a un cadavere un laido cencio, l’annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l’alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: «aspetta, canaglia!» A quell’atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere.Tra i monatti s’alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnar quella fuga.«Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini?» disse a Renzo quel monatto: «vai più uno di noi che cento di que’ poltroni.»«Certo, posso dire che vi devo la vita,» rispose Renzo: «e vi ringrazio con tutto il cuore.»«Di che cosa?» disse il monatto: «tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la moría, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la moría; e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.»«Viva la moría, e moia la marmaglia!» esclamò l’altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt’e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: «bevi alla nostra salute.»«Ve l’auguro a tutti, con tutto il cuore,» disse Renzo: «ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento.»«Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare,» disse il monatto: «m’hai aria d’un pover’uomo; ci vuol altri visi a far l’untore.»«Ognuno s’ingegna come può,» disse l’altro.«Dammelo qui a me,» disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, «chè ne voglio bere anch’io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia…. lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata.»E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: «si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l’abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono.»E tra le risate de’ compagni, prese il fiasco, e l’alzò; ma, prima di bere, si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert’aria di compassione sprezzante: «bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; chè se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell’aiuto.» E tra un nuovo scroscio di risa, s’attaccò il fiasco alle labbra.«E noi? eh! e noi?» gridaron più voci dal carro ch’era avanti. Il birbone, tracannato quanto ne volle, porse, con tutt’e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall’uno all’altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: «viva la moría!» Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s’accompagnaron tutte l’altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnío de’ campanelli, al cigolío de’ carri, al calpestío de’ cavalli, risonava nel vôto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de’ pochi che ancor le abitavano.Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? cosa non può far piacere in qualche caso? Il pericolo d’un momento prima aveva resa più che tollerabile a Renzo la compagnia di que’ morti e di que’ vivi; e ora fu a’ suoi orecchi una musica, sto per dire, gradita, quella che lo levava dall’impiccio d’una tale conversazione. Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricever male nè farne; la pregava che l’aiutasse ora a liberarsi anche da’ suoi liberatori; e dal canto suo, stava all’erta, guardava quelli, guardava la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia i passeggieri.Tutt’a un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov’era? Sul corso di porta orientale, in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s’andava diritto al lazzeretto; e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l’ebbe per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a’ monatti di fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si cambiò in un diverbio rumoroso. Uno de’ monatti ch’eran sul carro di Renzo, saltò giù: Renzo disse all’altro: «vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito;» e giù anche lui, dall’altra parte.«Va, va, povero untorello,» rispose colui: «non sarai tu quello che spianti Milano.»Per fortuna, non c’era chi potesse sentire. Il convoglio era fermato sulla sinistra del corso: Renzo prende in fretta dall’altra parte, e, rasentando il muro, trotta innanzi verso il ponte; lo passa, continua per la strada del borgo, riconosce il convento de’ cappuccini, è vicino alla porta, vede spuntar l’angolo del lazzeretto, passa il cancello, e gli si spiega davanti la scena esteriore di quel recinto: un indizio appena e un saggio, e già una vasta, diversa, indescrivibile scena.Lungo i due lati che si presentano a chi guardi da quel punto, era tutto un brulichío; erano ammalati che andavano, in compagnie, al lazzeretto; altri che sedevano o giacevano sulle sponde del fossato che lo costeggia; sia che le forze non fosser loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, sia che, usciti di là per disperazione, le forze fosser loro ugualmente mancate per andar più avanti. Altri meschini erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sè affatto; uno stava tutto infervorato a raccontar le sue immaginazioni a un disgraziato che giaceva oppresso dal male; un altro dava nelle smanie; un altro guardava in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo. Ma la specie più strana e più rumorosa d’una tal trista allegrezza, era un cantare alto e continuo, il quale pareva che non venisse fuori da quella miserabile folla, e pure si faceva sentire più che tutte l’altre voci: una canzone contadinesca d’amore gaio e scherzevole, di quelle che chiamavan villanelle; e andando con lo sguardo dietro al suono, per iscoprire chi mai potesse esser contento, in quel tempo, in quel luogo, si vedeva un meschino che, seduto tranquillamente in fondo al fossato, cantava a più non posso, con la testa per aria.Renzo aveva appena fatti alcuni passi lungo il lato meridionale dell’edifizio, che si sentì in quella moltitudine un rumore straordinario, e di lontano voci che gridavano: guarda! piglia! S’alza in punta di piedi, e vede un cavallaccio che andava di carriera, spinto da un più strano cavaliere: era un frenetico che, vista quella bestia sciolta e non guardata, accanto a un carro, c’era montato in fretta a bisdosso, e, martellandole il collo co’ pugni, e facendo sproni de’ calcagni, la cacciava in furia; e monatti dietro, urlando; e tutto si ravvolse in un nuvolo di polvere, che volava lontano.Così, già sbalordito e stanco di veder miserie, il giovine arrivò alla porta di quel luogo dove ce n’erano adunate forse più che non ce ne fosse di sparse in tutto lo spazio che gli era già toccato di percorrere. S’affaccia a quella porta, entra sotto la vôlta, e rimane un momento immobile a mezzo del portico.CAPITOLO XXXV.S’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichío, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso. Questo spettacolo, noi non ci proponiam certo di descriverlo a parte a parte, nè il lettore lo desidera; solo, seguendo il nostro giovine nel suo penoso giro, ci fermeremo alle sue fermate, e di ciò che gli toccò di vedere diremo quanto sia necessario a raccontar ciò che fece, e ciò che gli seguì.Dalla porta dove s’era fermato, fino alla cappella del mezzo, e di là all’altra porta in faccia, c’era come un viale sgombro di capanne e d’ogni altro impedimento stabile; e alla seconda occhiata, Renzo vide in quello un tramenío di carri, un portar via roba, per far luogo; vide cappuccini e secolari che dirigevano quell’operazione, e insieme mandavan via chi non ci avesse che fare. E temendo d’essere anche lui messo fuori in quella maniera, si cacciò addirittura tra le capanne, dalla parte a cui si trovava casualmente voltato, alla diritta.Andava avanti, secondo che vedeva posto da poter mettere il piede, da capanna a capanna, facendo capolino in ognuna, e osservando i letti ch’eran fuori allo scoperto, esaminando volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo, o immobili nella morte, se mai gli venisse fatto di trovar quello che pur temeva di trovare. Ma aveva già fatto un bel pezzetto di cammino, e ripetuto più e più volte quel doloroso esame, senza veder mai nessuna donna: onde s’immaginò che dovessero essere in un luogo separato. E indovinava; ma dove fosse, non n’aveva indizio, nè poteva argomentarlo. Incontrava ogni tanto ministri, tanto diversi d’aspetto e di maniere e d’abito, quanto diverso e opposto era il principio che dava agli uni e agli altri una forza uguale di vivere in tali servizi: negli uni l’estinzione d’ogni senso di pietà, negli altri una pietà sovrumana. Ma nè agli uni nè agli altri si sentiva di far domande, per non procacciarsi alle volte un inciampo; e deliberò d’andare, andare, fin che arrivasse a trovar donne. E andando non lasciava di spiare intorno; ma di tempo in tempo era costretto a ritirare lo sguardo contristato, e come abbagliato da tante piaghe. Ma dove rivolgerlo, dove riposarlo, che sopra altre piaghe?L’aria stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l’orrore di quelle viste. La nebbia s’era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano idea d’un annottar tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la spera del sole, pallida, che spargeva intorno a sè un barlume fioco e sfumato, e pioveva un calore morto e pesante. Ogni tanto, tra mezzo al ronzío continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; nè, tendendo l’orecchio, avreste saputo distinguere da che parte venisse; o avreste potuto crederlo un correr lontano di carri, che si fermassero improvvisamente. Non si vedeva, nelle campagne d’intorno, moversi un ramo d’albero, nè un uccello andarvisi a posare, o staccarsene: solo la rondine, comparendo subitamente di sopra il tetto del recinto, sdrucciolava in giù con l’ali tese, come per rasentare il terreno del campo; ma sbigottita da quel brulichío, risaliva rapidamente, e fuggiva. Era uno di que’ tempi, in cui, tra una compagnia di viandanti non c’è nessuno che rompa il silenzio; e il cacciatore cammina pensieroso, con lo sguardo a terra; e la villana, zappando nel campo, smette di cantare, senza avvedersene; di que’ tempi forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza a ogni operazione, all’ozio, all’esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sè al patire e al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffogati: nè forse su quel luogo di miserie era ancor passata un’ora crudele al par di questa.Già aveva il giovine girato un bel pezzo, e senza frutto, per quell’andirivieni di capanne, quando, nella varietà de’ lamenti e nella confusione del mormorío, cominciò a distinguere un misto singolare di vagiti e di belati; fin che arrivò a un assito scheggiato e sconnesso, di dentro il quale veniva quel suono straordinario. Mise un occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un recinto con dentro capanne sparse, e, così in quelle, come nel piccol campo, non la solita infermeria, ma bambinelli a giacere sopra materassine, o guanciali, o lenzoli distesi, o topponi; e balie e altre donne in faccende; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle, e fatte loro aiutanti: uno spedale d’innocenti, quale il luogo e il tempo potevan darlo. Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il piccolo allievo, e procurar d’accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt’e due.Qua e là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d’amore, da far nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de’ bisogni e de’ dolori. Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un meschinello piangente, e andava tristamente cercando la bestia, che potesse far le sue veci. Un’altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a posarlo sur una materassina. Ma una terza, abbandonando il suo petto al lattante straniero, con una cert’aria però non di trascuranza, ma di preoccupazione, guardava fisso il cielo: a che pensava essa, in quell’atto, con quello sguardo, se non a un nato dalle sue viscere, che, forse poco prima, aveva succhiato quel petto, che forse c’era spirato sopra? Altre donne più attempate attendevano ad altri servizi. Una accorreva alle grida d’un bambino affamato, lo prendeva, e lo portava vicino a una capra che pascolava a un mucchio d’erba fresca, e glielo presentava alle poppe, gridando l’inesperto animale e accarezzandolo insieme, affinchè si prestasse dolcemente all’ufizio. Questa correva a prendere un poverino, che una capra tutt’intenta a allattarne un altro, pestava con una zampa: quella portava in qua e in là il suo, ninnandolo, cercando, ora d’addormentarlo col canto, ora d’acquietarlo con dolci parole, chiamandolo con un nome ch’essa medesima gli aveva messo. Arrivò in quel punto un cappuccino con la barba bianchissima, portando due bambini strillanti, uno per braccio, raccolti allora vicino alle madri spirate; e una donna corse a riceverli, e andava guardando tra la brigata e nel gregge, per trovar subito chi tenesse lor luogo di madre.Più d’una volta il giovine, spinto da quello ch’era il primo, e il più forte de’ suoi pensieri, s’era staccato dallo spiraglio per andarsene; e poi ci aveva rimesso l’occhio, per guardare ancora un momento.Levatosi di lì finalmente, andò costeggiando l’assito, fin che un mucchietto di capanne appoggiate a quello, lo costrinse a voltare. Andò allora lungo le capanne, con la mira di riguadagnar l’assito, d’andar fino alla fine di quello, e scoprir paese nuovo. Ora, mentre guardava innanzi, per studiar la strada, un’apparizione repentina, passeggiera, istantanea, gli ferì lo sguardo, e gli mise l’animo sottosopra. Vide, a un cento passi di distanza, passare e perdersi subito tra le baracche un cappuccino, un cappuccino che, anche così da lontano e così di fuga, aveva tutto l’andare, tutto il fare, tutta la forma del padre Cristoforo. Con la smania che potete pensare, corse verso quella parte; e lì, a girare, a cercare, innanzi, indietro, dentro e fuori, per quegli andirivieni, tanto che rivide, con altrettanta gioia, quella forma, quel frate medesimo; lo vide poco lontano, che, scostandosi da una caldaia, andava, con una scodella in mano, verso una capanna; poi lo vide sedersi sull’uscio di quella, fare un segno di croce sulla scodella che teneva dinanzi; e, guardando intorno, come uno che stia sempre all’erta, mettersi a mangiare. Era proprio il padre Cristoforo.La storia del quale, dal punto che l’abbiam perduto di vista, fino a quest’incontro, sarà raccontata in due parole. Non s’era mai mosso da Rimini, nè aveva pensato a moversene, se non quando la peste scoppiata in Milano gli offrì occasione di ciò che aveva sempre tanto desiderato, di dar la sua vita per il prossimo. Pregò, con grand’istanza, d’esserci richiamato, per assistere e servire gli appestati. Il conte zio era morto; e del resto c’era più bisogno d’infermieri che di politici: sicchè fu esaudito senza difficoltà. Venne subito a Milano; entrò nel lazzeretto; e c’era da circa tre mesi.Ma la consolazione di Renzo nel ritrovare il suo buon frate, non fu intera neppure un momento: nell’atto stesso d’accertarsi ch’era lui, dovette vedere quant’era mutato. Il portamento curvo e stentato; il viso scarno e smorto; e in tutto si vedeva una natura esausta, una carne rotta e cadente, che s’aiutava e si sorreggeva, ogni momento, con uno sforzo dell’animo.Andava anche lui fissando lo sguardo nel giovine che veniva verso di lui, e che, col gesto, non osando con la voce, cercava di farsi distinguere e riconoscere. «Oh padre Cristoforo!» disse poi, quando gli fu vicino da poter esser sentito senza alzar la voce.«Tu qui!» disse il frate, posando in terra la scodella, e alzandosi da sedere.«Come sta, padre? come sta?»«Meglio di tanti poverini che tu vedi qui,» rispose il frate: e la sua voce era fioca, cupa, mutata come tutto il resto. L’occhio soltanto era quello di prima, e un non so che più vivo e più splendido; quasi la carità, sublimata nell’estremo dell’opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello che l’infermità ci andava a poco a poco spegnendo.«Ma tu,» proseguiva, «come sei qui? perchè vieni così ad affrontar la peste?»«L’ho avuta, grazie al ciclo. Vengo… a cercar di… Lucia.»«Lucia! è qui Lucia?»«È qui: almeno spero in Dio che ci sia ancora.»«È tua moglie?»«Oh caro padre! no che non è mia moglie. Non sa nulla di tutto quello che è accaduto?»«No, figliuolo: da che Dio m’ha allontanato da voi altri, io non n’ho saputo più nulla; ma ora ch’Egli mi ti manda, dico la verità che desidero molto di saperne. Ma… e il bando?»«Le sa dunque, le cose che m’hanno fatto?»«Ma tu, che avevi fatto?»«Senta; se volessi dire d’aver avuto giudizio, quel giorno in Milano, direi una bugia; ma cattive azioni non n’ho fatte punto.»«Te lo credo, e lo credevo anche prima.»«Ora dunque le potrò dir tutto.»«Aspetta,» disse il frate; e andato alcuni passi fuor della capanna, chiamò: «padre Vittore!» Dopo qualche momento, comparve un giovine cappuccino, al quale disse: «fatemi la carità, padre Vittore, di guardare anche per me, a questi nostri poverini, intanto ch’io me ne sto ritirato; e se alcuno però mi volesse, chiamatemi. Quel tale principalmente! se mai desse il più piccolo segno di tornare in sè, avvisatemi subito, per carità.»«Non dubitate,» rispose il giovine; e il vecchio, tornato verso Renzo, «entriamo qui,» gli disse. Ma…» soggiunse subito, fermandosi, «tu mi pari ben rifinito: devi aver bisogno di mangiare.»«È vero,» disse Renzo: «ora che lei mi ci fa pensare, mi ricordo che sono ancora digiuno.»«Aspetta,» disse il frate; e, presa un’altra scodella, l’andò a empire alla caldaia: tornato, la diede, con un cucchiaio, a Renzo; lo fece sedere sur un saccone che gli serviva di letto; poi andò a una botte ch’era in un canto, e ne spillò un bicchier di vino, che mise sur un tavolino, davanti al suo convitato; riprese quindi la sua scodella, e si mise a sedere accanto a lui.«Oh padre Cristoforo» disse Renzo: «tocca a lei a far codeste cose? Ma già lei è sempre quel medesimo. La ringrazio proprio di cuore.»«Non ringraziar me,» disse il frate: «è roba de’ poveri; ma anche tu sei un povero, in questo momento. Ora dimmi quello che non so, dimmi di quella nostra poverina; e cerca di spicciarti; chè c’è poco tempo, e molto da fare, come tu vedi.»Renzo principiò, tra una cucchiaiata e l’altra, la storia di Lucia: com’era stata ricoverata nel monastero di Monza, come rapita… All’immagine di tali patimenti e di tali pericoli, al pensiero d’essere stato lui quello che aveva indirizzata in quel luogo la povera innocente, il buon frate rimase senza fiato; ma lo riprese subito, sentendo com’era stata mirabilmente liberata, resa alla madre, e allogata da questa presso a donna Prassede.«Ora le racconterò di me,» prosegui Renzo; e raccontò in succinto la giornata di Milano, la fuga; e come era sempre stato lontano da casa, e ora, essendo ogni cosa sottosopra, s’era arrischiato d’andarci; come non ci aveva trovato Agnese; come in Milano aveva saputo che Lucia era al lazzeretto. «E son qui,» concluse, «son qui a cercarla, a veder se è viva, e se… mi vuole ancora… perchè… alle volte…»«Ma,» domandò il frate, «hai qualche indizio dove sia stata messa, quando ci sia venuta?»«Niente, caro padre; niente se non che è qui, se pur la c’è che Dio voglia!»«Oh poverino! ma che ricerche hai tu finora fatte qui?»«Ho girato e rigirato; ma, tra l’altre cose, non ho mai visto quasi altro che uomini. Ho ben pensato che le donne devono essere in un luogo a parte, ma non ci sono mai potuto arrivare: se è così, ora lei me l’insegnerà.»«Non sai, figliuolo, che è proibito d’entrarci agli uomini che non ci abbiano qualche incombenza?»«Ebbene, cosa mi può accadere?»«La regola è giusta e santa, figliuolo caro; e se la quantità e la gravezza de’ guai non lascia che si possa farla osservar con tutto il rigore, è una ragione questa perchè un galantuomo la trasgredisca?»«Ma, padre Cristoforo!» disse Renzo: «Lucia doveva esser mia moglie; lei sa come siamo stati separati; son venti mesi che patisco, e ho pazienza; son venuto fin qui, a rischio di tante cose, l’una peggio dell’altra, e ora…»«Non so cosa dire,» riprese il frate, rispondendo piuttosto a’ suoi pensieri che alle parole del giovine: «tu vai con buona intenzione; e piacesse a Dio che tutti quelli che hanno libero l’accesso in quel luogo, ci si comportassero come posso fidarmi che farai tu. Dio, il quale certamente benedice questa tua perseveranza d’affetto, questa tua fedeltà in volere e in cercare colei ch’Egli t’aveva data; Dio, che è più rigoroso degli uomini, ma più indulgente, non vorrà guardare a quel che ci possa essere d’irregolare in codesto tuo modo di cercarla. Ricordati solo, che, della tua condotta in quel luogo, avremo a render conto tutt’e due; agli uomini facilmente no, ma a Dio senza dubbio. Vien qui.» In così dire, s’alzò, e nel medesimo tempo anche Renzo; il quale, non lasciando di dar retta alle sue parole, s’era intanto consigliato tra sè di non parlare, come s’era proposto prima, di quella tal promessa di Lucia.—Se sente anche questo,—aveva pensato,—mi fa dell’altre difficoltà sicuro. O la trovo; e saremo sempre a tempo a discorrerne; o… e allora! che serve?—Tiratolo sull’uscio della capanna, ch’era a settentrione, il frate riprese: «Senti; il nostro padre Felice, che è il presidente qui del lazzeretto, conduce oggi a far la quarantina altrove i pochi guariti che ci sono. Tu vedi quella chiesa lì nel mezzo….» e, alzando la mano scarna e tremolante, indicava a sinistra nell’aria torbida la cupola della cappella, che torreggiava sopra le miserabili tende; e proseguì: «là intorno si vanno ora radunando, per uscire in processione dalla porta per la quale tu devi essere entrato.»«Ah! era per questo dunque, che lavoravano a sbrattare la strada.»«Per l’appunto: e tu devi anche aver sentito qualche tocco di quella campana.»«N’ho sentito uno.»«Era il secondo: al terzo saran tutti radunati: il padre Felice farà loro un piccolo discorso; e poi s’avvierà con loro. Tu, a quel tocco, portati là; cerca di metterti dietro quella gente, da una parte della strada, dove, senza disturbare, nè dar nell’occhio, tu possa vederli passare; e vedi… vedi… se la ci fosse. Se Dio non ha voluto che la ci sia; quella parte,» e alzò di nuovo la mano, accennando il lato dell’edifizio che avevan dirimpetto: «quella parte della fabbrica, e una parte del terreno che è lì davanti, è assegnata alle donne. Vedrai uno stecconato che divide questo da quel quartiere, ma in certi luoghi interrotto, in altri aperto, sicchè non troverai difficoltà per entrare. Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a nessuno, nessuno probabilmente non dirà nulla a te. Se però ti si facesse qualche ostacolo, dì che il padre Cristoforo da *** ti conosce, e renderà conto di te. Cercala lì; cercala con fiducia e… con rassegnazione. Perchè, ricordati che non è poco ciò che tu sei venuto a cercar qui: tu chiedi una persona viva al lazzeretto! Sai tu quante volte io ho veduto rinnovarsi questo mio povero popolo! quanti ne ho veduti portar via! quanti pochi uscire!… Va preparato a fare un sacrifizio…»«Già; intendo anch’io,» interruppe Renzo stravolgendo gli occhi, e cambiandosi tutto in viso; «intendo! Vo: guarderò, cercherò, in un luogo, nell’altro, e poi ancora, per tutto il lazzeretto, in lungo e in largo… e se non la trovo!…»«Se non la trovi?» disse il frate, con un’aria di serietà e d’aspettativa, e con uno sguardo che ammoniva.Ma Renzo, a cui la rabbia riaccesa dall’idea di quel dubbio aveva fatto perdere il lume degli occhi, ripetè e seguitò: «se non la trovo, vedrò di trovare qualchedun altro. O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati; quel birbone che, se non fosse stato lui, Lucia sarebbe mia, da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme. Se c’è ancora colui, lo troverò….»«Renzo!» disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancor più severamente.«E se lo trovo,» continuò Renzo, cieco affatto dalla collera, «se la peste non ha già fatto giustizia….. Non è più il tempo che un poltrone, co’ suoi bravi d’intorno, possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è venuto un tempo che gli uomini s’incontrino a viso a viso: e…. la farò io la giustizia!»«Sciagurato!» gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripresa tutta l’antica pienezza e sonorità: «sciagurato!» e la sua testa cadente sul petto s’era sollevata; le gote si colorivano dell’antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile. «Guarda, sciagurato!» E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l’altra davanti a sè, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all’intorno. «Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene! Io, speravo…. si, ho sperato che, prima della mia morte, Dio m’avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse viva, forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una preghiera là verso quella fossa dov’io sarò. Va, tu m’hai levata la mia speranza. Dio non l’ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l’ardire di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perchè lei è una di quell’anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va! non ho più tempo di darti retta.»E così dicendo, rigettò da sè il braccio di Renzo, e si mosse verso una capanna d’infermi.«Ah padre!» disse Renzo, andandogli dietro in atto supplichevole: «mi vuol mandar via in questa maniera?»«Come!» riprese, con voce non meno severa, il cappuccino. «Ardiresti tu di pretendere ch’io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch’io parli loro del perdono di Dio, per ascoltar le tue voci di rabbia, i tuoi proponimenti di vendetta? T’ho ascoltato quando tu chiedevi consolazione e aiuto; ho lasciata la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore: che vuoi da me? vattene. Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all’offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?»«Ah gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre!» esclamò il giovine.«Renzo!» disse, con una serietà più tranquilla, il frate: «pensaci; e dimmi un poco quante volte gli hai perdonato.»E, stato alquanto senza ricever risposta, tutt’a un tratto abbassò il capo, e, con voce cupa e lenta, riprese: «tu sai perchè io porto quest’abito.»Renzo esitava.«Tu lo sai!» riprese il vecchio.«Lo so,» rispose Renzo.«Ho odiato anch’io: io, che t’ho ripreso per un pensiero, per una parola, l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso.»«Sì, ma un prepotente, uno di quelli….»«Zitto!» interruppe il frate: «credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah! s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l’uomo ch’io odiavo! S’io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia!…. Senti, Renzo: Egli ti vuol più bene di quel che te ne vuoi tu: tu hai potuto macchinar la vendetta; ma Egli ha abbastanza forza e abbastanza misericordia per impedirtela: ti fa una grazia di cui qualchedun altro era troppo indegno. Tu sai, tu l’hai detto tante volte, ch’Egli può fermar la mano d’un prepotente; ma sappi che può anche fermar quella d’un vendicativo. E perchè sei povero, perchè sei offeso, credi tu ch’Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine? Credi tu ch’Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar da te ogni benedizione. Perchè, in qualunque maniera t’andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finchè tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono.»«Sì, sì,» disse Renzo, tutto commosso, e tutto confuso: «capisco che non gli avevo mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e ora, con la grazia del Signore, sì, gli perdono proprio di cuore.»«E se tu lo vedessi?»«Pregherei il Signore di dar pazienza a me, e di toccare il cuore a lui.»«Ti ricorderesti che il Signore non ci ha detto di perdonare a’ nostri nemici, ci ha detto d’amarli? Ti ricorderesti ch’Egli lo ha amato a segno di morir per lui?»«Sì, col suo aiuto.»«Ebbene, vieni con me. Hai detto: lo troverò; lo troverai. Vieni, e vedrai con chi tu potevi tener odio, a chi potevi desiderar del male, volergliene fare, sopra che vita tu volevi far da padrone.»E, presa la mano di Renzo, e strettala come avrebbe potuto fare un giovine sano, si mosse. Quello, senza osar di domandar altro, gli andò dietro.Dopo pochi passi, il frate si fermò vicino all’apertura d’una capanna, fissò gli occhi in viso a Renzo, con un misto di gravità e di tenerezza; e lo condusse dentro.La prima cosa che si vedeva, nell’entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.«Tu vedi!» disse il frate, con voce bassa e grave. «Può esser gastigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione… d’amore!»Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo…. (pag. 528).Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.Erano da pochi momenti in quella positura, quando scoccò la campana. Si mossero tutt’e due, come di concerto; e uscirono. Nè l’uno fece domande, nè l’altro proteste: i loro visi parlavano.«Va ora,» riprese il frate, «va preparato, sia a ricevere una grazia, sia a fare un sacrifizio; a lodar Dio, qualunque sia l’esito delle tue ricerche. E qualunque sia, vieni a darmene notizia; noi lo loderemo insieme.»Qui, senza dir altro, si separarono; uno tornò dond’era venuto; l’altro s’avviò alla cappella, che non era lontana più d’un cento passi.CAPITOLO XXXVI.Chi avrebbe mai detto a Renzo, qualche ora prima, che, nel forte d’una tal ricerca, al cominciar de’ momenti più dubbiosi e più decisivi, il suo cuore sarebbe stato diviso tra Lucia e don Rodrigo? Eppure era così: quella figura veniva a mischiarsi con tutte l’immagini care o terribili che la speranza o il timore gli mettevan davanti a vicenda, in quel tragitto; le parole sentite appiè di quel covile, si cacciavano tra i sì e i no, ond’era combattuta la sua mente; e non poteva terminare una preghiera per l’esito felice del gran cimento, senza attaccarci quella che aveva principiata là, e che lo scocco della campana aveva troncata.La cappella ottangolare che sorge, elevata d’alcuni scalini, nel mezzo del lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati, senz’altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così, traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni; dentro girava un portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta che d’otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di maniera che l’altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo. Ora, convertito l’edifizio a tutt’altr’uso, i vani delle facciate son murati; ma l’antica ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l’antico stato, e l’antica destinazione di quello.Renzo s’era appena avviato, che vide il padre Felice comparire nel portico della cappella, e affacciarsi sull’arco di mezzo del lato che guarda verso la città; davanti al quale era radunata la comitiva, al piano, nella strada di mezzo; e subito dal suo contegno s’accorse che aveva cominciata la predica.Girò per quelle viottole, per arrivare alla coda dell’uditorio, come gli era stato suggerito. Arrivatoci, si fermò cheto cheto, lo scorse tutto con lo sguardo; ma non vedeva di là altro che un folto, direi quasi un selciato di teste. Nel mezzo, ce n’era un certo numero coperte di fazzoletti, o di veli: in quella parte ficcò più attentamente gli occhi; ma, non arrivando a scoprirci dentro nulla di più, gli alzò anche lui dove tutti tenevan fissi i loro. Rimase tocco e compunto dalla venerabil figura del predicatore; e, con quel che gli poteva restar d’attenzione in un tal momento d’aspettativa, sentì questa parte del solenne ragionamento.«Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là;» e, col dito alzato sopra la spalla, accennava dietro sè la porta che mette al cimitero detto di san Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa: «diamo intorno un’occhiata ai mille e mille che rimangon qui, troppo incerti di dove sian per uscire; diamo un’occhiata a noi, così pochi, che n’usciamo a salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perchè l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione, e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi? Questi intanto, in compagnia de’ quali abbiamo penato, sperato, temuto; tra i quali lasciamo degli amici, de’ congiunti; e che tutti son poi finalmente nostri fratelli; quelli tra questi, che ci vedranno passare in mezzo a loro, mentre forse riceveranno qualche sollievo nel pensare che qualcheduno esce pur salvo di qui, ricevano edificazione dal nostro contegno. Dio non voglia che possano vedere in noi una gioia rumorosa, una gioia mondana d’avere scansata quella morte, con la quale essi stanno ancor dibattendosi. Vedano che partiamo ringraziando per noi, e pregando per loro; e possan dire: anche fuor di qui, questi si ricorderanno di noi, continueranno a pregare per noi meschini. Cominciamo da questo viaggio, da’ primi passi che siam per fare, una vita tutta di carità. Quelli che sono tornati nell’antico vigore, diano un braccio fraterno ai fiacchi; giovani, sostenete i vecchi; voi che siete rimasti senza figliuoli, vedete, intorno a voi, quanti figliuoli rimasti senza padre! siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori.»Qui un sordo mormorío di gemiti, un singhiozzío che andava crescendo nell’adunanza, fu sospeso a un tratto, nel vedere il predicatore mettersi una corda al collo, e buttarsi in ginocchio: e si stava in gran silenzio, aspettando quel che fosse per dire.«Per me,» disse, «e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica.» E, fatto sull’udienza un gran segno di croce, s’alzò.Noi abbiam potuto riferire, se non le precise parole, il senso almeno, il tema di quelle che proferì davvero; ma la maniera con cui furon dette non è cosa da potersi descrivere. Era la maniera d’un uomo che chiamava privilegio quello di servir gli appestati, perchè lo teneva per tale; che confessava di non averci degnamente corrisposto, perchè sentiva di non averci corrisposto degnamente; che chiedeva perdono, perchè era persuaso d’averne bisogno. Ma la gente che s’era veduti d’intorno que’ cappuccini non occupati d’altro che di servirla, e tanti n’aveva veduti morire, e quello che parlava per tutti, sempre il primo alla fatica, come nell’autorità, se non quando s’era trovato anche lui in fin di morte; pensate con che singhiozzi, con che lacrime rispose a tali parole. Il mirabil frate prese poi una gran croce ch’era appoggiata a un pilastro, se la inalberò davanti, lasciò sull’orlo del portico esteriore i sandali, scese gli scalini, e, tra la folla che gli fece rispettosamente largo, s’avviò per mettersi alla testa di essa.Renzo, tutto lacrimoso, nè più nè meno che se fosse stato uno di quelli a cui era chiesto quel singolare perdono, si ritirò anche lui, e andò a mettersi di fianco a una capanna; e stette lì aspettando, mezzo nascosto, con la persona indietro e la testa avanti, con gli occhi spalancati, con una gran palpitazion di cuore, ma insieme con una certa nuova e particolare fiducia, nata, cred’io, dalla tenerezza che gli aveva ispirata la predica, e lo spettacolo della tenerezza generale.Ed ecco arrivare il padre Felice, scalzo, con quella corda al collo, con quella lunga e pesante croce alzata; pallido e scarno il viso, un viso che spirava compunzione insieme e coraggio; a passo lento, ma risoluto, come di chi pensa soltanto a risparmiare l’altrui debolezza; e in tutto come un uomo a cui un di più di fatiche e di disagi desse la forza di sostenere i tanti necessari e inseparabili da quel suo incarico. Subito dopo lui, venivano i fanciulli più grandini, scalzi una gran parte, ben pochi interamente vestiti, chi affatto in camicia. Venivan poi le donne, tenendo quasi tutte per la mano una bambina, e cantando alternativamente il Miserere; e il suono fiacco di quelle voci, il pallore e la languidezza di que’ visi eran cose da occupar tutto di compassione l’animo di chiunque si fosse trovato lì come semplice spettatore. Ma Renzo guardava, esaminava, di fila in fila, di viso in viso, senza passarne uno; chè la processione andava tanto adagio, da dargliene tutto il comodo. Passa e passa; guarda e guarda; sempre inutilmente: dava qualche occhiata di corsa alle file che rimanevano ancora indietro: sono ormai poche; siamo all’ultima; son passate tutte; furon tutti visi sconosciuti. Con le braccia ciondoloni, e con la testa piegata sur una spalla, accompagnò con l’occhio quella schiera, mentre gli passava davanti quella degli uomini. Una nuova attenzione, una nuova speranza gli nacque nel veder, dopo questi, comparire alcuni carri, su cui erano i convalescenti che non erano ancora in istato di camminare. Lì le donne venivan l’ultime; e il treno andava così adagio, che Renzo potè ugualmente esaminarle tutte, senza che gliene sfuggisse una. Ma che? esamina il primo carro, il secondo, il terzo, e via discorrendo, sempre con la stessa riuscita, fino a uno, dietro al quale non veniva più che un altro cappuccino, con un aspetto serio, e con un bastone in mano, come regolatore della comitiva. Era quel padre Michele che abbiam detto essere stato dato per compagno nel governo al padre Felice.Così svanì affatto quella cara speranza; e, andandosene, non solo portò via il conforto che aveva recato, ma, come accade le più volte, lasciò l’uomo in peggiore stato di prima. Ormai quel che ci poteva esser di meglio, era di trovar Lucia ammalata. Pure, all’ardore d’una speranza presente sottentrando quello del timore cresciuto, il poverino s’attaccò con tutte le forze dell’animo a quel tristo e debole filo; entrò nella corsia, e s’incamminò da quella parte di dove era venuta la processione. Quando fu appiè della cappella, andò a inginocchiarsi sull’ultimo scalino; e lì fece a Dio una preghiera, o, per dir meglio, una confusione di parole arruffate, di frasi interrotte, d’esclamazioni, d’istanze, di lamenti, di promesse: uno di que’ discorsi che non si fanno agli uomini, perchè non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, nè pazienza per ascoltarli; non son grandi abbastanza per sentirne compassione senza disprezzo.S’alzò alquanto più rincorato; girò intorno alla cappella; si trovò nell’altra corsia che non aveva ancora veduta, e che riusciva all’altra porta; dopo pochi passi, vide lo stecconato di cui gli aveva parlato il frate, ma interrotto qua e là, appunto come questo aveva detto; entrò per una di quelle aperture, e si trovò nel quartiere delle donne. Quasi al primo passo che fece, vide in terra un campanello, di quelli che i monatti portavano a un piede; gli venne in mente che un tale strumento avrebbe potuto servirgli come di passaporto là dentro; lo prese, guardò se nessuno lo guardava, e se lo legò come usavan quelli. E si mise subito alla ricerca, a quella ricerca, che, per la quantità sola degli oggetti sarebbe stata fieramente gravosa, quand’anche gli oggetti fossero stati tutt’altri; cominciò a scorrer con l’occhio, anzi a contemplar nuove miserie, così simili in parte alle già vedute, in parte così diverse: chè, sotto la stessa calamità, era qui un altro patire, per dir così, un altro languire, un altro lamentarsi, un altro sopportare, un altro compatirsi e soccorrersi a vicenda; era, in chi guardasse, un’altra pietà e un altro ribrezzo.Aveva già fatto non so quanta strada, senza frutto e senza accidenti; quando si sentì dietro le spalle un «oh!» una chiamata, che pareva diretta a lui. Si voltò e vide, a una certa distanza, un commissario, che alzò una mano, accennando proprio a lui, e gridando: «là nelle stanze, chè c’è bisogno d’aiuto: qui s’è finito ora di sbrattare.»Renzo s’avvide subito per chi veniva preso, e che il campanello era la cagione dell’equivoco; si diede della bestia d’aver pensato solamente agl’impicci che quell’insegna gli poteva scansare, e non a quelli che gli poteva tirare addosso; ma pensò nello stesso tempo alla maniera di sbrigarsi subito da colui. Gli fece replicatamente e in fretta un cenno col capo, come per dire che aveva inteso, e che ubbidiva; e si levò dalla sua vista, cacciandosi da una parte tra le capanne.Quando gli parve d’essere abbastanza lontano, pensò anche a liberarsi dalla causa dello scandolo; e, per far quell’operazione senz’essere osservato, andò a mettersi in un piccolo spazio tra due capanne che si voltavan, per dir così, la schiena. Si china per levarsi il campanello, e stando così col capo appoggiato alla parete di paglia d’una delle capanne, gli vien da quella all’orecchio una voce… Oh cielo! è possibile? Tutta la sua anima è in quell’orecchio: la respirazione è sospesa… Sì! sì! è quella voce… «Paura di che?» diceva quella voce soave: «abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso.»Se Renzo non cacciò un urlo, non fu per timore di farsi scorgere, fu perchè non n’ebbe il fiato. Gli mancaron le ginocchia, gli s’appannò la vista; ma fu un primo momento; al secondo, era ritto, più desto, più vigoroso di prima; in tre salti girò la capanna, fu sull’uscio, vide colei che aveva parlato, la vide levata, chinata sopra un lettuccio. Si volta essa al rumore; guarda, crede di travedere, di sognare; guarda più attenta, e grida: «oh Signor benedetto!»«Lucia! v’ho trovata! vi trovo! siete proprio voi! siete viva!» esclamò Renzo, avanzandosi, tutto tremante.«Oh Signor benedetto!» replicò, ancor più tremante, Lucia: «voi? che cosa è questa! in che maniera? perchè? La peste!»«L’ho avuta. E voi…?»«Ah!…. anch’io. E di mia madre…?»«Non l’ho vista, perchè è a Pasturo; credo però che stia bene. Ma voi…. come siete ancora pallida! come parete debole! Guarita però, siete guarita?»«Il Signore m’ha voluto lasciare ancora quaggiù. Ah Renzo! perchè siete voi qui?»«Perchè?» disse Renzo avvicinandosele sempre più: «mi domandate perchè? Perchè ci dovevo venire? Avete bisogno che ve lo dica? Chi ho io a cui pensi? Non mi chiamo più Renzo, io? Non siete più Lucia, voi?»«Ah cosa dite! cosa dite! Ma non v’ha fatto scrivere mia madre…?»«Sì: pur troppo m’ha fatto scrivere. Belle cose da fare scrivere a un povero disgraziato, tribolato, ramingo, a un giovine che, dispetti almeno, non ve n’aveva mai fatti!»«Ma, Renzo! Renzo! giacchè sapevate… perchè venire? perchè?»«Perchè venire? Oh Lucia! perchè venire, mi dite? Dopo tante promesse! Non siam più noi? Non vi ricordate più? Che cosa ci mancava?»«Oh Signore!» esclamò dolorosamente Lucia, giungendo le mani, e alzando gli occhi al cielo: «perchè non m’avete fatta la grazia di tirarmi a Voi…! Oh Renzo! cos’avete mai fatto? Ecco; cominciavo a sperare che… col tempo… mi sarei dimenticata…»«Bella speranza! belle cose da dirmele proprio sul viso!»«Ah, cos’avete fatto! E in questo luogo! tra queste miserie, tra questi spettacoli! qui dove non si fa altro che morire, avete potuto…!»«Quelli che moiono, bisogna pregare Iddio per loro, e sperare che anderanno in un buon luogo; ma non è giusto, nè anche per questo, che quelli che vivono abbiano a viver disperati….»«Ma, Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite. Una promessa alla Madonna!… Un voto!»«E io vi dico che son promesse che non contan nulla.»«Oh Signore! Cosa dite? Dove siete stato in questo tempo? Con chi avete trattato? Come parlate?»«Parlo da buon cristiano; e della Madonna penso meglio io che voi; perchè credo che non vuol promesse in danno del prossimo. Se la Madonna avesse parlato, oh, allora! Ma cos’è stato? una vostra idea. Sapete cosa dovete promettere alla Madonna? Promettetele che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria: chè questo son qui anch’io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più onore alla Madonna: queste son divozioni che hanno più costrutto, e non portan danno a nessuno.»«No no; non dite così: non sapete quello che vi dite: non lo sapete voi cosa sia fare un voto: non ci siete stato voi in quel caso: non avete provato. Andate, andate, per amor del cielo!»E si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio.«Lucia!» disse Renzo, senza moversi: «ditemi almeno, ditemi: se non fosse questa ragione…. sareste la stessa per me?»«Uomo senza cuore!» rispose Lucia, voltandosi, e rattenendo a stento le lacrime: «quando m’aveste fatte dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di me: si vede che non eravamo destinati! Ci rivedremo lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo. Andate; cercate di far sapere a mia madre che son guarita, che anche qui Dio m’ha sempre assistita, che ho trovato un’anima buona, questa brava donna, che mi fa da madre; ditele che spero che lei sarà preservata da questo male, e che ci rivedremo quando Dio vorrà, e come vorrà…. Andate, per amor del cielo, e non pensate a me…. se non quando pregherete il Signore.»E, come chi non ha più altro da dire, nè vuol sentir altro, come chi vuol sottrarsi a un pericolo, si ritirò ancor più vicino al lettuccio, dov’era la donna di cui aveva parlato.«Sentite, Lucia, sentite!» disse Renzo, senza però accostarsele di più.«No, no; andate per carità!»«Sentite: il padre Cristoforo….»«Che?»«È qui.»«Qui? dove? Come lo sapete?»«Gli ho parlato poco fa; sono stato un pezzo con lui; e un religioso della sua qualità, mi pare….»«È qui! per assistere i poveri appestati, sicuro. Ma lui? l’ha avuta la peste?»«Ah Lucia! ho paura, ho paura pur troppo…» e mentre Renzo esitava così a proferir la parola dolorosa per lui, e che doveva esserlo tanto a Lucia, questa s’era staccata di nuovo dal lettuccio, e si ravvicinava a lui: «ho paura che l’abbia adesso!»«Oh povero sant’uomo! Ma cosa dico, pover’uomo? Poveri noi! Com’è? è a letto? è assistito?»«È levato, gira, assiste gli altri; ma se lo vedeste, che colore che ha, come si regge! Se n’è visti tanti e tanti, che pur troppo… non si sbaglia!»«Oh poveri noi! E è proprio qui!»«Qui, e poco lontano; poco più che da casa vostra a casa mia…. se vi ricordate….!»«Oh Vergine santissima!»«Bene, poco più. E pensate se abbiam parlato di voi! M’ha detto delle cose… E se sapeste cosa m’ha fatto vedere! Sentirete; ma ora voglio cominciare a dirvi quel che m’ha detto prima, lui, con la sua propria bocca. M’ha detto che facevo bene a venirvi a cercare, e che al Signore gli piace che un giovine tratti così, e m’avrebbe aiutato a far che vi trovassi; come è proprio stato la verità: ma già è un santo. Sicchè, vedete!»«Ma, se ha parlato così, è perchè lui non sa….»«Che volete che sappia lui delle cose che avete fatte voi di vostra testa, senza regola e senza il parere di nessuno? Un brav’uomo, un uomo di giudizio, come è lui, non va a pensar cose di questa sorte. Ma quel che m’ha fatto vedere!» E qui raccontò la visita fatta a quella capanna: Lucia, quantunque i suoi sensi e il suo animo, avessero, in quel soggiorno, dovuto avvezzarsi alle più forti impressioni, stava tutta compresa d’orrore e di compassione.«E anche lì,» proseguì Renzo, «ha parlato da santo: ha detto che il Signore forse ha destinato di far la grazia a quel meschino…. (ora non potrei proprio dargli un altro nome)… che aspetta di prenderlo in un buon punto; ma vuole che noi preghiamo insieme per lui…. Insieme! avete inteso?»«Sì, sì; lo pregheremo, ognuno dove il Signore ci terrà: le orazioni le sa mettere insieme Lui.»«Ma se vi dico le sue parole….!»«Ma Renzo, lui non sa…»«Ma non capite che, quando è un santo che parla, è il Signore che lo fa parlare? e che non avrebbe parlato così, se non dovesse esser proprio così…. E l’anima di quel poverino? Io ho bensì pregato, e pregherò per lui: di cuore ho pregato, proprio come se fosse stato per un mio fratello. Ma come volete che stia nel mondo di là, il poverino, se di qua non s’accomoda questa cosa, se non è disfatto il male che ha fatto lui? Che se voi intendete la ragione, allora tutto è come prima: quel che è stato è stato: lui ha fatto la sua penitenza di qua….»«No, Renzo, no. Il Signore non vuole che facciamo del male, per far Lui misericordia. Lasciate fare a Lui, per questo: noi, il nostro dovere è di pregarlo. S’io fossi morta quella notte, non gli avrebbe dunque potuto perdonare? E se non son morta, se sono stata liberata…»«E vostra madre, quella povera Agnese, che m’ha sempre voluto tanto bene, e che si struggeva tanto di vederci marito e moglie, non ve l’ha detto anche lei che l’è un’idea storta? Lei, che v’ha fatto intender la ragione anche dell’altre volte, perchè, in certe cose, pensa più giusto di voi….»«Mia madre! volete che mia madre mi desse il parere di mancare a un voto! Ma, Renzo! non siete in voi.»«Oh! volete che ve la dica? Voi altre donne, queste cose non le potete sapere. Il padre Cristoforo m’ha detto che tornassi da lui a raccontargli se v’avevo trovata. Vo: lo sentiremo: quel che dirà lui…»«Sì, sì; andate da quel sant’uomo; ditegli che prego per lui, e che preghi per me, che n’ho bisogno tanto tanto! Ma, per amor del cielo, per l’anima vostra, per l’anima mia, non venite più qui, a farmi del male, a… tentarmi. Il padre Cristoforo, lui saprà spiegarvi le cose, e farvi tornare in voi; lui vi farà mettere il cuore in pace.»«Il cuore in pace! Oh! questo, levatevelo dalla testa. Già me l’avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che m’ha fatto patire; e ora avete anche il cuore di dirmela. E io in vece vi dico chiaro e tondo che il cuore in pace non lo metterò mai. Voi volete dimenticarvi di me; e io non voglio dimenticarmi di voi. E vi prometto, vedete, che, se mi fate perdere il giudizio, non lo racquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona condotta! Volete condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita; e da arrabbiato viverò…. E quel disgraziato! Lo sa il Signore se gli ho perdonato di cuore; ma voi… Volete dunque farmi pensare per tutta la vita che se non era lui…? Lucia! avete detto ch’io vi dimentichi: ch’io vi dimentichi! Come devo fare? A chi credete ch’io pensassi in tutto questo tempo?… E dopo tante cose! dopo tante promesse! Cosa v’ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati? Perchè ho patito, mi trattate così? perchè ho avuto delle disgrazie? perchè la gente del mondo m’ha perseguitato? perchè ho passato tanto tempo fuori di casa, tristo, lontano da voi? perchè, al primo momento che ho potuto, son venuto a cercarvi?»Lucia, quando il pianto le permise di formar parole, esclamò, giungendo di nuovo le mani, e alzando al cielo gli occhi pregni di lacrime: «o Vergine santissima, aiutatemi voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come questo non l’ho mai passato. M’avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!»«Sì, Lucia; fate bene d’invocar la Madonna; ma perchè volete credere che Lei che è tanto buona, la madre delle misericordie, possa aver piacere di farci patire…. me almeno…. per una parola scappata in un momento che non sapevate quello che vi dicevate? Volete credere che v’abbia aiutata allora, per lasciarci imbrogliati dopo?… Se poi questa fosse una scusa; se è ch’io vi sia venuto in odio…. ditemelo…. parlate chiaro.»«Per carità, Renzo, per carità, per i vostri poveri morti, finitela, finitela; non mi fate morire… Non sarebbe un buon momento. Andate dal padre Cristoforo, raccomandatemi a lui, non tornate più qui, non tornate più qui.»«Vo; ma pensate se non voglio tornare! Tornerei se fosse in capo al mondo, tornerei.» E disparve.Lucia andò a sedere, o piuttosto si lasciò cadere in terra, accanto al lettuccio; e, appoggiata a quello la testa, continuò a piangere dirottamente. La donna, che fin allora era stata a occhi e orecchi aperti, senza fiatare, domandò cosa fosse quell’apparizione, quella contesa, questo pianto. Ma forse il lettore domanda dal canto suo chi fosse costei; e, per soddisfarlo, non ci vorranno, nè anche qui, troppe parole.Era un’agiata mercantessa, di forse trent’anni. Nello spazio di pochi giorni, s’era visto morire in casa il marito e tutti i figliuoli: di lì a poco, venutale la peste anche a lei, era stata trasportata al lazzeretto, e messa in quella capannuccia, nel tempo che Lucia, dopo aver superata, senza avvedersene, la furia del male, e cambiate, ugualmente senza avvedersene, più compagne, cominciava a riaversi, e a tornare in sè; chè, fin dal principio della malattia, trovandosi ancora in casa di don Ferrante, era rimasta come insensata. La capanna non poteva contenere che due persone: e tra queste due, afflitte, derelitte, sbigottite, sole in tanta moltitudine, era presto nata un’intrinsichezza, un’affezione, che appena sarebbe potuta venire da un lungo vivere insieme. In poco tempo, Lucia era stata in grado di potere aiutar l’altra, che s’era trovata aggravatissima. Ora che questa pure era fuori di pericolo, si facevano compagnia e coraggio e guardia a vicenda; s’eran promesse di non uscir dal lazzeretto, se non insieme; e avevan presi altri concerti per non separarsi neppur dopo. La mercantessa che, avendo lasciata in custodia d’un suo fratello commissario della sanità, la casa e il fondaco e la cassa, tutto ben fornito, era per trovarsi sola e trista padrona di molto più di quel che le bisognasse per viver comodamente, voleva tener Lucia con sè, come una figliuola o una sorella. Lucia aveva aderito, pensate con che gratitudine per lei, e per la Provvidenza; ma soltanto fin che potesse aver nuove di sua madre, e sapere, come sperava, la volontà di essa. Del resto, riservata com’era, nè della promessa dello sposalizio, nè dell’altre sue avventure straordinarie, non aveva mai detta una parola. Ma ora, in un così gran ribollimento d’affetti, aveva almen tanto bisogno di sfogarsi, quanto l’altra desiderio di sentire. E, stretta con tutt’e due le mani la destra di lei, si mise subito a soddisfare alla domanda, senz’altro ritegno, che quello che le facevano i singhiozzi.Renzo intanto trottava verso il quartiere del buon frate. Con un po’ di studio, e non senza dover rifare qualche pezzette di strada, gli riuscì finalmente d’arrivarci. Trovò la capanna; lui non ce lo trovò; ma, ronzando e cercando nel contorno, lo vide in una baracca, che, piegato a terra, e quasi bocconi, stava confortando un moribondo. Si fermò lì, aspettando in silenzio. Poco dopo, lo vide chiuder gli occhi a quel poverino, poi mettersi in ginocchio, far orazione un momento, e alzarsi. Allora si mosse, e gli andò incontro.«Oh!» disse il frate, vistolo venire; «ebbene?»«La c’è: l’ho trovata!»«In che stato?»«Guarita, o almeno levata.»«Sia ringraziato il Signore!»«Ma….» disse Renzo, quando gli fu vicino da poter parlar sottovoce: «c’è un altro imbroglio.»«Cosa c’è?»«Voglio dire che… Già lei lo sa come è buona quella povera giovine; ma alle volte è un po’ fissa nelle sue idee. Dopo tante promesse, dopo tutto quello che sa anche lei, ora dice che non mi può sposare, perchè dice, che so io? che, quella notte della paura, s’è scaldata la testa, e s’è, come a dire, votata alla Madonna. Cose senza costrutto, n’è vero? Cose buone, chi ha la scienza e il fondamento da farle, ma per noi gente ordinaria, che non sappiamo bene come si devon fare…. n’è vero che son cose che non valgono?»«Dimmi: è molto lontana di qui?»«Oh no: pochi passi di là dalla chiesa.»«Aspettami qui un momento,» disse il frate: «e poi ci anderemo insieme.»«Vuoi dire che lei le farà intendere….»«Non so nulla, figliuolo; bisogna ch’io senta lei.»«Capisco,» disse Renzo, e stette con gli occhi fissi a terra, e con le braccia incrociate sul petto, a masticarsi la sua incertezza, rimasta intera. Il frate andò di nuovo in cerca di quel padre Vittore, lo pregò di supplire ancora per lui, entrò nella sua capanna, n’uscì con la sporta in braccio, tornò da Renzo, gli disse: «andiamo;» e andò innanzi, avviandosi a quella tal capanna, dove, qualche tempo prima, erano entrati insieme. Questa volta, entrò solo, e dopo un momento ricomparve, e disse: «niente! Preghiamo; preghiamo.» Poi riprese: «ora, conducimi tu.»E senza dir altro, s’avviarono.Il tempo s’era andato sempre più rabbuiando, e annunziava ormai certa e poco lontana la burrasca. De’ lampi fitti rompevano l’oscurità cresciuta, e lumeggiavano d’un chiarore istantaneo i lunghissimi tetti e gli archi de’ portici, la cupola della cappella, i bassi comignoli delle capanne; e i tuoni scoppiati con istrepito repentino, scorrevano rumoreggiando dall’una all’altra regione del cielo. Andava innanzi il giovine, attento alla strada, con una grand’impazienza d’arrivare, e rallentando però il passo, per misurarlo alle forze del compagno; il quale, stanco dalle fatiche, aggravato dal male, oppresso dall’afa, camminava stentatamente, alzando ogni tanto al cielo la faccia smunta, come per cercare un respiro più libero.Renzo, quando vide la capanna, si fermò, si voltò indietro, disse con voce tremante: «è qui.»Entrano…. «Eccoli!» grida la donna del lettuccio. Lucia si volta, s’alza precipitosamente, va incontro al vecchio, gridando: «oh chi vedo! O padre Cristoforo!»«Ebbene, Lucia! da quante angustie v’ha liberata il Signore! Dovete esser ben contenta d’aver sempre sperato in Lui.»«Oh sì! Ma lei, padre? Povera me, come è cambiato! Come sta? dica: come sta?»«Come Dio vuole, e come, per sua grazia, voglio anch’io,» rispose, con volto sereno, il frate. E, tiratala in un canto, soggiunse: «sentite: io non posso rimaner qui che pochi momenti. Siete voi disposta a confidarvi in me, come altre volte?»«Oh! non è lei sempre il mio padre?»«Figliuola, dunque; cos’è codesto voto che m’ha detto Renzo?»«È un voto che ho fatto alla Madonna…. oh! in una gran tribolazione!…. di non maritarmi.»«Poverina! Ma avete pensato allora, ch’eravate legata da una promessa?»«Trattandosi del Signore e della Madonna!… non ci ho pensato.»«Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l’offerte, quando le tacciamo del nostro. È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d’un altro, al quale v’eravate già obbligata.»«Ho fatto male?»«No, poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l’intenzione del vostro cuore afflitto, e l’avrà offerta a Dio per voi. Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?»«Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.»«Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete fatta a Renzo?»«In quanto a questo…. per me…. che motivo…? Non potrei proprio dire…» rispose Lucia, con un’esitazione che indicava tutt’altro che un’incertezza del pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt’a un tratto del più vivo rossore.«Credete voi,» riprese il vecchio, abbassando gli occhi, «che Dio ha data alla sua Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?»«Sì, che lo credo.»«Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell’anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall’obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.»«Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d’una promessa fatta alla Madonna? Io allora l’ho fatta proprio di cuore….» disse Lucia, violentemente agitata dall’assalto d’una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall’insorgere opposto d’un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell’animo suo.«Peccato, figliuola?» disse il padre: «peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell’autorità che ha ricevuto da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m’è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli: ora non vedo perchè Dio v’abbia a voler separati. E lo benedico che m’abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi chiedete ch’io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo chiediate.»«Allora…! allora…! lo chiedo;» disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore.Il frate chiamò con un cenno il giovine, il quale se ne stava nel cantuccio il più lontano, guardando (giacchè non poteva far altro) fisso fisso al dialogo in cui era tanto interessato; e, quando quello fu lì, disse, a voce più alta, a Lucia: «con l’autorità che ho dalla Chiesa, vi dichiaro sciolta dal voto di verginità, annullando ciò che ci potè essere d’inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione che poteste averne contratta.»Pensi il lettore che suono facessero all’orecchio di Renzo tali parole. Ringraziò vivamente con gli occhi colui che le aveva proferite; e cercò subito, ma invano, quelli di Lucia.«Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri d’una volta,» seguì a dirle il cappuccino: «chiedete di nuovo al Signore le grazie che Gli chiedevate, per essere una moglie santa; e confidate che ve le concederà più abbondanti, dopo tanti guai. E tu,» disse, voltandosi a Renzo, «ricordati, figliuolo, che se la Chiesa ti rende questa compagna, non lo fa per procurarti una consolazione temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura d’alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi; ma lo fa per avviarvi tutt’e due sulla strada della consolazione che non avrà fine. Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a un’allegrezza raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, d’istillar loro l’amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto. Lucia! v’ha detto,» e accennava Renzo, «chi ha visto qui?»«Oh padre, me l’ha detto!»C’era un movimento straordinario…. per ripararsi dalla burrasca imminente. (pag. 546).«Voi pregherete per lui! Non ve ne stancate. E anche per me pregherete!… Figliuoli! voglio che abbiate un ricordo del povero frate.» E qui levò dalla sporta una scatola d’un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca; e proseguì: «qui dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate!»E porse la scatola a Lucia, che la prese con rispetto, come si farebbe d’una reliquia. Poi, con voce più tranquilla, riprese: «ora ditemi; che appoggi avete qui in Milano? Dove pensate d’andare a alloggiare, appena uscita di qui? E chi vi condurrà da vostra madre, che Dio voglia aver conservata in salute?»«Questa buona signora mi fa lei intanto da madre: noi due usciremo di qui insieme, e poi essa penserà a tutto.»«Dio la benedica,» disse il frate, accostandosi al lettuccio.«La ringrazio anch’io,» disse la vedova, «della consolazione che ha data a queste povere creature; sebbene io avessi fatto conto di tenerla sempre con me, questa cara Lucia. Ma la terrò intanto; l’accompagnerò io al suo paese, la consegnerò a sua madre; e,» soggiunse poi sottovoce, «voglio farle io il corredo. N’ho troppa della roba; e di quelli che dovevan goderla con me, non ho più nessuno!»«Così,» rispose il frate, «lei può fare un gran sacrifizio al Signore, e del bene al prossimo. Non le raccomando questa giovine: già vedo che è come sua: non c’è che da lodare il Signore, il quale sa mostrarsi padre anche ne’ flagelli, e che, col farle trovare insieme, ha dato un così chiaro segno d’amore all’una e all’altra. Orsù,» riprese poi, voltandosi a Renzo, e prendendolo per una mano: «noi due non abbiam più nulla da far qui: e ci siamo stati anche troppo. Andiamo.»«Oh padre!» disse Lucia: «la vedrò ancora? Io sono guarita, io che non fo nulla di bene a questo mondo; e lei…!»«È già molto tempo,» rispose con tono serio e dolce il vecchio, «che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m’aiutino a ringraziarlo. Via; date a Renzo le vostre commissioni per vostra madre.»«Raccontatele quel che avete veduto,» disse Lucia al promesso sposo: «che ho trovata qui un’altra madre, che verrò con questa più presto che potrò, e che spero, spero di trovarla sana.»«Se avete bisogno di danari,» disse Renzo, «ho qui tutti quelli che m’avete mandati, e…»«No, no,» interruppe la vedova: «ne ho io anche troppi.»«Andiamo,» replicò il frate.«A rivederci, Lucia…! e anche lei, dunque, quella buona signora,» disse Renzo, non trovando parole che significassero quello che sentiva.«Chi sa che il Signore ci faccia la grazia di rivederci ancora tutti!» esclamò Lucia.«Sia Egli sempre con voi, e vi benedica,» disse alle due compagne fra Cristoforo; e uscì con Renzo dalla capanna.Mancava poco alla sera, e il tempo pareva sempre più vicino a risolversi. Il cappuccino esibì di nuovo al giovine di ricoverarlo per quella notte nella sua baracca. «Compagnia, non te ne potrò fare,» soggiunse: «ma avrai da stare al coperto.»Renzo però si sentiva una smania d’andare; e non si curava di rimaner più a lungo in un luogo simile, quando non poteva profittarne per veder Lucia, e non avrebbe neppur potuto starsene un po’ col buon frate. In quanto all’ora e al tempo, si può dire che notte e giorno, sole e pioggia, zeffiro e tramontano, eran tutt’uno per lui in quel momento. Ringraziò dunque il frate, dicendo che voleva andar più presto che fosse possibile in cerca d’Agnese.Quando furono nella strada di mezzo, il frate gli strinse la mano, e disse: «se la trovi, che Dio voglia! quella buona Agnese, salutala anche in mio nome; e a lei, e a tutti quelli che rimangono, e si ricordano di fra Cristoforo, dì che preghin per lui. Dio t’accompagni, e ti benedica per sempre.»«Oh caro padre…! ci rivedremo? ci rivedremo?»«Lassù, spero.» E con queste parole, si staccò da Renzo; il quale, stato lì a guardarlo fin che non l’ebbe perso di vista, prese in fretta verso la porta, dando a destra e a sinistra l’ultime occhiate di compassione a quel luogo di dolori. C’era un movimento straordinario, un correr di monatti, un trasportar di roba, un accomodar le tende delle baracche, uno strascicarsi di convalescenti a queste e ai portici, per ripararsi dalla burrasca imminente.CAPITOLO XXXVII.Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto, e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverío; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel susurrío, in quel brulichío dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino.Ma quanto più schietto e intero sarebbe stato questo sentimento, se Renzo avesse potuto indovinare quel che si vide pochi giorni dopo: che quell’acqua portava via il contagio; che, dopo quella, il lazzeretto, se non era per restituire ai viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non n’avrebbe più ingoiati altri; che, tra una settimana, si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più che di quarantina; e della peste non rimarrebbe se non qualche resticciolo qua e là; quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sè per qualche tempo!Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato nè dove, nè come, nè quando, nè se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d’Agnese. Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi!—E l’ho trovata viva!—concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’ convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo. E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodío continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmentechè non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.Arrivò a Sesto, sulla sera; nè pareva che l’acqua volesse cessare. Ma, sentendosi più in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovar dove alloggiare, e così inzuppato, non ci pensò neppure. La sola cosa che l’incomodasse, era un grand’appetito; chè una consolazione come quella gli avrebbe fatto smaltire altro che la poca minestra del cappuccino. Guardò se trovasse anche qui una bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani con le molle, e con quell’altre cerimonie. Uno in tasca e l’altro alla bocca, e avanti.Quando passò per Monza, era notte fatta: nonostante, gli riuscì di trovar la porta che metteva sulla strada giusta. Ma meno questo, che, per dir la verità, era un gran merito, potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento. Affondata (com’eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove) tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell’ora potuta dire, se non un fiume, una gora davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe. Ma Renzo n’usciva come poteva, senz’atti d’impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l’acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno, e che la strada che faceva intanto, allora sarebbe fatta.E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversíe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l’aiutassero a trovar sempre la buona, o se l’indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; chè lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare. Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell’Adda.Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non che que’ monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua. Diede un’occhiata anche a sè, e si trovò un po’ strano, quale, per dir la verità, da quel che si sentiva, s’immaginava già di dover parere: sciupata e attaccata addosso ogni cosa: dalla testa alla vita, tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de’ piedi, melletta e mota: le parti dove non ce ne fosse si sarebbero potute chiamare esse zacchere e schizzi. E se si fosse visto tutt’intero in uno specchio, con la tesa del cappello floscia e cascante, e i capelli stesi e incollati sul viso, si sarebbe fatto ancor più specie. In quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva nulla: e il frescolino dell’alba aggiunto a quello della notte e di quel poco bagno, non gli dava altro che una fierezza, una voglia di camminar più presto.È a Pescate; costeggia quell’ultimo tratto dell’Adda, dando però un’occhiata malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per istrade e campi, arriva in un momento alla casa dell’ospite amico. Questo, che s’era levato allora, e stava sull’uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a’ suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento.«Ohe!» disse: «già qui? e con questo tempo? Com’è andata?»«La c’è,» disse Renzo: «la c’è: la c’è.»«Sana?»«Guarita, che è meglio. Devo ringraziare il Signore e la Madonna fin che campo. Ma cose grandi, cose di fuoco: ti racconterò poi tutto.»«Ma come sei conciato!»«Son bello eh?»«A dir la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù. Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco.»«Non dico di no. Sai dove la m’ha preso? proprio alla porta del lazzeretto. Ma niente! il tempo il suo mestiere, e io il mio.»L’amico andò e tornò con due bracciate di stipa: ne mise una in terra, l’altra sul focolare, e, con un po’ di brace rimasta della sera avanti, fece presto una bella fiammata. Renzo intanto s’era levato il cappello, e, dopo averlo scosso due o tre volte, l’aveva buttato in terra; e, non così facilmente, s’era tirato via anche il farsetto. Levò poi dal taschino de’ calzoni il coltello, col fodero tutto fradicio, che pareva stato in molle; lo mise su un panchetto, e disse: «anche costui è accomodato a dovere; ma l’è acqua! l’è acqua! sia ringraziato il Signore…. Sono stato lì lì….! Ti dirò poi.» E si fregava le mani. «Ora fammi un altro piacere,» soggiunse: «quel fagottino che ho lasciato su in camera, va a prendermelo, chè prima che s’asciughi questa roba che ho addosso….!»Tornato col fagotto, l’amico disse: «penso che avrai anche appetito: capisco che da bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare….»«Ho trovato da comprar due pani, ieri sul tardi; ma, per dir la verità, non m’hanno toccato un dente.»«Lascia fare,» disse l’amico; mise l’acqua in un paiolo, che attaccò poi alla catena; e soggiunse: «vado a mungere: quando tornerò col latte, l’acqua sarà all’ordine; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa il tuo comodo.»Renzo, rimasto solo, si levò, non senza fatica, il resto de’ panni, che gli s’eran come appiccicati addosso; s’asciugò, si rivestì da capo a piedi. L’amico tornò, e andò al suo paiolo: Renzo intanto si mise a sedere, aspettando.«Ora sento che sono stanco,» disse: «ma è una bella tirata! Però questo è nulla. Ne ho da raccontartene per tutta la giornata. Com’è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le cose che bisogna toccare! Cose da farsi poi schifo a sè medesimo. Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto. E quel che m’hanno voluto fare que’ signori di laggiù! Sentirai. Ma se tu vedessi il lazzeretto! C’è da perdersi nelle miserie. Basta; ti racconterò tutto…. E la c’è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio, e, peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri.»Del resto mantenne ciò che aveva detto all’amico, di voler raccontargliene per tutta la giornata; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare, questo la passò tutta in casa, parte seduto accanto all’amico, parte in faccende intorno a un suo piccolo tino, e a una botticina, e ad altri lavori, in preparazione della vendemmia; ne’ quali Renzo non lasciò di dargli una mano; chè, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far nulla, che a lavorare. Non potè però tenersi di non fare una scappatina alla casa d’Agnese, per rivedere una certa finestra, e per dare anche lì una fregatina di mani. Tornò senza essere stato visto da nessuno; e andò subito a letto. S’alzò prima che facesse giorno; e, vedendo cessata l’acqua, se non ritornato il sereno, si mise in cammino per Pasturo.Era ancor presto quando ci arrivò: chè non aveva meno fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore. Cercò d’Agnese; sentì che stava bene, e gli fu insegnata una casuccia isolata dove abitava. Ci andò; la chiamò dalla strada: a una tal voce, essa s’affacciò di corsa alla finestra; e, mentre stava a bocca aperta per mandar fuori non so che parola, non so che suono, Renzo la prevenne dicendo: «Lucia è guarita: l’ho veduta ierlaltro; vi saluta; verrà presto. E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi.»Tra la sorpresa dell’apparizione, e la contentezza della notizia, e la smania di saperne di più, Agnese cominciava ora un’esclamazione, ora una domanda, senza finir nulla: poi, dimenticando le precauzioni ch’era solita a prendere da molto tempo, disse: «vengo ad aprirvi.»«Aspettate: e la peste?» disse Renzo: «voi non l’avete avuta, credo.»«Io no: e voi?»«Io sì; ma voi dunque dovete aver giudizio. Vengo da Milano; e, sentirete, sono proprio stato nel contagio fino agli occhi. È vero che mi son mutato tutto da capo a piedi; ma l’è una porcheria che s’attacca alle volte come un malefizio. E giacchè il Signore v’ha preservata finora, voglio che stiate riguardata fin che non è finito quest’influsso; perchè siete la nostra mamma: e voglio che campiamo insieme un bel pezzo allegramente, a conto del gran patire che abbiam fatto, almeno io.»«Ma….» cominciava Agnese.«Eh!» interruppe Renzo: «non c’è ma che tenga. So quel che volete dire; ma sentirete, sentirete, che de’ ma non ce n’è più. Andiamo in qualche luogo all’aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo; e sentirete.»Agnese gl’indicò un orto ch’era dietro alla casa; e soggiunse: «entrate lì, e vedrete che c’è due panche, l’una in faccia all’altra, che paion messe apposta. Io vengo subito.»….passa il ponte…. (pag. 550).Renzo andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò lì sull’altra: e son certo che se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que’ racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell’esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell’avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l’ultimo a venir via. Ma d’averla sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d’inchiostro, e senza trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli piaccia più d’indovinarla da sè. La conclusione fu che s’anderebbe a metter su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon avviamento: in quanto al tempo, non si poteva decider nulla, perchè dipendeva dalla peste, e da altre circostanze: appena cessato il pericolo, Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l’aspetterebbe: intanto Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a tenerla informata di quel che potesse accadere.Prima di partire, offrì anche a lei danari, dicendo: «gli ho qui tutti, vedete, que’ tali: avevo fatto voto anch’io di non toccarli, fin che la cosa non fosse venuta in chiaro. Ora, se n’avete bisogno, portate qui una scodella d’acqua e aceto; vi butto dentro i cinquanta scudi belli e lampanti.»«No, no,» disse Agnese: «ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, serbateli, che saran buoni per metter su casa.»Renzo tornò al paese con questa consolazione di più d’aver trovata sana e salva una persona tanto cara. Stette il rimanente di quella giornata, e la notte, in casa dell’amico; il giorno dopo, in viaggio di nuovo, ma da un’altra parte, cioè verso il paese adottivo.Trovò Bortolo, in buona salute anche lui, e in minor timore di perderla; chè, in que’ pochi giorni, le cose, anche là, avevan preso rapidamente una bonissima piega. Pochi eran quelli che s’ammalavano; e il male non era più quello; non più que’ lividi mortali, nè quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti la maggior parte, con al più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava come un fignolo ordinario. Già l’aspetto del paese compariva mutato; i rimasti vivi cominciavano a uscir fuori, a contarsi tra loro, a farsi a vicenda condoglianze e congratulazioni. Si parlava già di ravviare i lavori: i padroni pensavano già a cercare e a caparrare operai, e in quell’arti principalmente dove il numero n’era stato scarso anche prima del contagio, com’era quella della seta. Renzo, senza fare il lezioso, promise (salve però le debite approvazioni) al cugino di rimettersi al lavoro, quando verrebbe accompagnato, a stabilirsi in paese. S’occupò intanto de’ preparativi più necessari: trovò una casa più grande; cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa; e la fornì di mobili e d’attrezzi, intaccando questa volta il tesoro, ma senza farci un gran buco, chè tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la comprassero.Dopo non so quanti giorni, ritornò al paese nativo, che trovò ancor più notabilmente cambiato in bene. Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese rincoraggita affatto, e disposta a ritornare a casa quando si fosse; di maniera che ce la condusse lui: nè diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme que’ luoghi.Agnese trovò ogni cosa come l’aveva lasciata. Sicchè non potè far a meno di non dire che, questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli. «E l’altra volta,» soggiungeva, «che si sarebbe creduto che il Signore guardasse altrove, e non pensasse a noi, giacchè lasciava portar via il povero fatto nostro; ecco che ha fatto vedere il contrario, perchè m’ha mandato da un’altra parte di bei danari, con cui ho potuto rimettere ogni cosa. Dico ogni cosa, e non dico bene; perchè il corredo di Lucia che coloro avevan portato via bell’e nuovo, insieme col resto, quello mancava ancora; ma ecco che ora ci viene da un’altra parte. Chi m’avesse detto, quando io m’arrapinavo tanto a allestir quell’altro: tu credi di lavorar per Lucia: eh povera donna! lavori per chi non sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorte di creature anderanno indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci penserà un’anima buona, la quale tu non sai nè anche che la sia in questo mondo.»Il primo pensiero d’Agnese fu quello di preparare nella sua povera casuccia l’alloggio il più decente che potesse, a quell’anima buona: poi andò in cerca di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo.Renzo, dal canto suo, non passò in ozio que’ giorni già tanto lunghi per sè: sapeva far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino. Parte aiutava il suo ospite, per il quale era una gran fortuna l’avere in tal tempo spesso al suo comando un’opera, e un’opera di quell’abilità; parte coltivava, anzi dissodava l’orticello d’Agnese, trasandato affatto nell’assenza di lei. In quanto al suo proprio podere, non se n’occupava punto, dicendo ch’era una parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla. E non ci metteva neppure i piedi; come nè anche in casa: chè gli avrebbe fatto male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi d’ogni cosa, a qualunque prezzo, e d’impiegar nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare.Se i rimasti vivi erano, l’uno per l’altro, come morti resuscitati, Renzo, per quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia. Direte forse: come andava col bando? L’andava benone: lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più nè anche loro: e non s’ingannava. E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come s’è potuto vedere anche in vari luoghi di questa storia, cosa comune a que’ tempi, che i decreti, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c’era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l’avessero avuto sul primo momento; come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non danno fastidio a nessuno. Conseguenza necessaria della gran facilità con cui li seminavano que’ decreti. L’attività dell’uomo è limitata; e tutto il di più che c’era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell’eseguire. Quel che va nelle maniche, non può andar ne’ gheroni.Chi volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo d’aspetto, dirò che stavano alla larga l’uno dall’altro: don Abbondio, per timore di sentire intonar qualcosa di matrimonio: e, al solo pensarci, si vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, co’ suoi bravi, il cardinale dall’altra, co’ suoi argomenti: Renzo, perchè aveva fissato di non parlargliene che al momento di concludere, non volendo risicare di farlo inalberar prima del tempo, di suscitar, chi sa mai? qualche difficoltà, e d’imbrogliar le cose con chiacchiere inutili. Le sue chiacchiere, le faceva con Agnese. «Credete voi che verrà presto?» domandava l’uno. «Io spero di sì,» rispondeva l’altro: e spesso quello che aveva data la risposta, faceva poco dopo la domanda medesima. E con queste e con simili furberie, s’ingegnavano a far passare il tempo, che pareva loro più lungo, di mano in mano che n’era più passato.Al lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in compendio che, qualche giorno dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia n’uscì con la buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantina generale, la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest’ultima; che una parte del tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto un po’ di cerimonie, dovette lavorare anche lei; e che, terminata che fu la quarantina, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo fratello commissario; e si fecero i preparativi per il viaggio. Potremmo anche soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose appartenenti a quell’intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo fatto male.La prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in quell’agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della signora che l’aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempiron l’animo d’una dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un più severo. Chi volesse conoscere un po’ più in particolare questa trista storia, la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della stessa persona[44].L’altra cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che potè vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch’era morto di peste.Finalmente, prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de’ suoi antichi padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva. La vedova l’accompagnò alla casa, dove seppero che l’uno e l’altra erano andati tra que’ più. Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch’era stato dotto, l’anonimo ha creduto d’estendersi un po’ più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.«In rerum natura,» diceva, «non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser nè l’uno nè l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perchè bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perchè brucerebbe. Non è terrea; perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; chè questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi: perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princípi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci…?»«Tutte corbellerie,» scappò fuori una volta un tale.«No, no,» riprese don Ferrante: «non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, foruncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.»Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perchè non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorchè vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.«La c’è pur troppo la vera cagione,» diceva; «e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?»His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.E quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli.CAPITOLO XXXVIII.Una sera, Agnese sente fermarsi un legno all’uscio.—È lei, di certo!—Era proprio lei, con la buona vedova. L’accoglienze vicendevoli se le immagini il lettore.La mattina seguente, di buon’ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamente per isfogarsi un po’ con Agnese su quel gran tardare di Lucia. Gli atti che fece, e le cose che disse, al trovarsela davanti, si rimettono anche quelli all’immaginazion del lettore. Le dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che non ci vuol molto a descriverle. «Vi saluto: come state?» disse, a occhi bassi, e senza scomporsi. E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo asciutto, e se l’avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e, come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva due maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un’altra per tutta la gente che potesse conoscere.«Sto bene quando vi vedo,» rispose il giovine, con una frase vecchia, ma che avrebbe inventata lui, in quel momento.«Il nostro povero padre Cristoforo…!» disse Lucia: «pregate per l’anima sua: benchè si può esser quasi sicuri che a quest’ora prega lui per noi lassù.»«Me l’aspettavo, pur troppo,» disse Renzo. E non fu questa la sola trista corda che si toccasse in quel colloquio. Ma che? di qualunque cosa si parlasse, il colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come que’ cavalli bisbetici che s’impuntano, e si piantan lì, e alzano una zampa e poi un’altra, e le ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie, prima di fare un passo, e poi tutto a un tratto prendon l’andare, e via, come se il vento li portasse, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l’ore gli parevan minuti.La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro molto bene; e certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non se la sarebbe potuta immaginare d’un umore così socievole e gioviale. Ma il lazzeretto e la campagna, la morte e le nozze, non son tutt’uno. Con Agnese essa aveva già fatto amicizia; con Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente, e senza spinger troppo, appena quanto ci voleva per obbligarla a dimostrar tutta l’allegria che aveva in cuore.Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i concerti per lo sposalizio. Ci andò, e, con un certo fare tra burlevole e rispettoso, «signor curato,» gli disse: «le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c’è: e son qui per sentire quando le sia di comodo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto.» Don Abbondio non disse di no; ma cominciò a tentennare, a trovar cert’altre scuse, a far cert’altre insinuazioni: e perchè mettersi in piazza, e far gridare il suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente altrove; e questo e quest’altro.«Ho inteso,» disse Renzo: «lei ha ancora un po’ di quel mal di capo. Ma senta, senta.» E cominciò a descrivere in che stato aveva visto quel povero don Rodrigo; e che già a quell’ora doveva sicuramente essere andato. «Speriamo,» concluse, «che il Signore gli avrà usato misericordia.»«Questo non ci ha che fare,» disse don Abbondio: «v’ho forse detto di no? Io non dico di no; parlo… parlo per delle buone ragioni. Del resto, vedete, fin che c’è fiato… Guardatemi me: sono una conca fessa; sono stato anch’io, più di là che di qua: e son qui; e… se non mi vengono addosso de’ guai… basta… posso sperare di starci ancora un pochino. Figuratevi poi certi temperamenti. Ma, come dico, questo non ci ha che far nulla.»Dopo qualche altra botta e risposta, nè più nè meno concludenti, Renzo strisciò una bella riverenza, se ne tornò alla sua compagnia, fece la sua relazione, e finì con dire: «son venuto via, che n’ero pieno, e per non risicar di perdere la pazienza, e di levargli il rispetto. In certi momenti, pareva proprio quello dell’altra volta; proprio quella mutria, quelle ragioni: son sicuro che, se la durava ancora un poco, mi tornava in campo con qualche parola in latino. Vedo che vuol essere un’altra lungagnata: è meglio fare addirittura come dice lui, andare a maritarsi dove andiamo a stare.»«Sapete cosa faremo?» disse la vedova: «voglio che andiamo noi altre donne a fare un’altra prova, e vedere se ci riesce meglio. Così avrò anch’io il gusto di conoscerlo quest’uomo, se è proprio come dite. Dopo desinare voglio che andiamo; per non tornare a dargli addosso subito. Ora, signore sposo, menateci un po’ a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende: chè a Lucia farò io da mamma: e ho proprio voglia di vedere un po’ meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito tanto parlare; e il poco che n’ho già visto, mi pare una gran bella cosa.»Renzo le condusse prima di tutto alla casa del suo ospite dove fu un’altra festa: e gli fecero promettere che, non solo quel giorno, ma tutti i giorni, se potesse, verrebbe a desinare con loro.Passeggiato, desinato, Renzo se n’andò, senza dir dove. Le donne rimasero un pezzette a discorrere, a concertarsi sulla maniera di prender don Abbondio; e finalmente andarono all’assalto.—Son qui loro,—disse questo tra sè; ma fece faccia tosta: gran congratulazioni a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera. Le fece mettere a sedere, e poi entrò subito a parlar della peste: volle sentir da Lucia come l’aveva passata in que’ guai: il lazzeretto diede opportunità di far parlare anche quella che l’era stata compagna; poi, com’era giusto, don Abbondio parlò anche della sua burrasca; poi de’ gran mirallegri anche a Agnese, che l’aveva passata liscia. La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due anziane stavano alle velette, se mai venisse l’occasione d’entrar nel discorso essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma cosa volete? Don Abbondio era sordo da quell’orecchio. Non che dicesse di no; ma eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltar di palo in frasca. «Bisognerebbe,» diceva, «poter far levare quella catturaccia. Lei, signora, che è di Milano, conoscerà più o meno il filo delle cose, avrà delle buone protezioni, qualche cavaliere di peso: chè con questi mezzi si sana ogni piaga. Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie; giacchè codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare che si potrebbe far tutto là, dove non c’è cattura che tenga. Non vedo proprio l’ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei concluso bene, tranquillamente. Dico la verità: qui, con quella cattura viva, spiattellar dall’altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio. Veda lei; vedete voi altre.»Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don Abbondio a rimetterle in campo, sott’altra forma: s’era sempre da capo; quando entra Renzo, con un passo risoluto, e con una notizia in viso; e dice: «è arrivato il signor marchese ***.»«Cosa vuol dir questo? arrivato dove?» domanda don Abbondio, alzandosi.«E arrivato nel suo palazzo, ch’era quello di don Rodrigo; perchè questo signor marchese è l’erede per fidecommisso, come dicono; sicchè non c’è più dubbio. Per me, ne sarei contento, se potessi sapere che quel pover’uomo fosse morto bene. A buon conto, finora ho detto per lui de’ paternostri, adesso gli dirò de’ De profundis. E questo signor marchese è un bravissim’uomo.»«Sicuro,» disse don Abbondio: «l’ho sentito nominar più d’una volta per un bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica. Ma che sia proprio vero….?»«Al sagrestano gli crede?»«Perchè?»«Perchè lui l’ha veduto co’ suoi occhi. Io sono stato solamente lì ne’ contorni, e, per dir la verità, ci sono andato appunto perchè ho pensato: qualcosa là si dovrebbe sapere. E più d’uno m’ha detto lo stesso. Ho poi incontrato Ambrogio che veniva proprio di lassù, e che l’ha veduto, come dico, far da padrone. Lo vuol sentire, Ambrogio? L’ho fatto aspettar qui fuori apposta.»«Sentiamo,» disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano. Questo confermò la cosa in tutto e per tutto, ci aggiunse altre circostanze, sciolse tutti i dubbi; e poi se n’andò.«Ah! è morto dunque! è proprio andato!» esclamò don Abbondio. «Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! chè non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci. E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagia, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.»«Io gli ho perdonato di cuore,» disse Renzo.«E fai il tuo dovere,» rispose don Abbondio: «ma si può anche ringraziare il cielo, che ce n’abbia liberati. Ora, tornando a noi, vi ripeto: fate voi altri quel che credete. Se volete che vi mariti io, son qui; se vi torna più comodo in altra maniera, fate voi altri. In quanto alla cattura, vedo anch’io che, non essendoci ora più nessuno che vi tenga di mira, e voglia farvi del male, non è cosa da prendersene gran pensiero: tanto più, che c’è stato di mezzo quel decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante. E poi la peste! la peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste! Sicchè, se volete…. oggi è giovedì…. domenica vi dico in chiesa; perchè quel che s’è fatto l’altra volta, non conta più niente, dopo tanto tempo; e poi ho la consolazione di maritarvi io.»«Lei sa bene ch’eravamo venuti appunto per questo,» disse Renzo.

Willi Solemn JUN 2021

All’s Well That Ends Well
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ACT I
SCENE I. Rousillon. The COUNT’s palace.
Enter BERTRAM, the COUNTESS of Rousillon, HELENA, and LAFEU, all in black
COUNTESS
In delivering my son from me, I bury a second husband.
BERTRAM
And I in going, madam, weep o’er my father’s death
anew: but I must attend his majesty’s command, to
whom I am now in ward, evermore in subjection.
LAFEU
You shall find of the king a husband, madam; you,
sir, a father: he that so generally is at all times
good must of necessity hold his virtue to you; whose
worthiness would stir it up where it wanted rather
than lack it where there is such abundance.
COUNTESS
What hope is there of his majesty’s amendment?
LAFEU
He hath abandoned his physicians, madam; under whose
practises he hath persecuted time with hope, and
finds no other advantage in the process but only the
losing of hope by time.
COUNTESS
This young gentlewoman had a father,–O, that
‘had’! how sad a passage ’tis!–whose skill was
almost as great as his honesty; had it stretched so
far, would have made nature immortal, and death
should have play for lack of work. Would, for the
king’s sake, he were living! I think it would be
the death of the king’s disease.
LAFEU
How called you the man you speak of, madam?
COUNTESS
He was famous, sir, in his profession, and it was
his great right to be so: Gerard de Narbon.
LAFEU
He was excellent indeed, madam: the king very
lately spoke of him admiringly and mourningly: he
was skilful enough to have lived still, if knowledge
could be set up against mortality.
BERTRAM
What is it, my good lord, the king languishes of?
LAFEU
A fistula, my lord.
BERTRAM
I heard not of it before.
LAFEU
I would it were not notorious. Was this gentlewoman
the daughter of Gerard de Narbon?
COUNTESS
His sole child, my lord, and bequeathed to my
overlooking. I have those hopes of her good that
her education promises; her dispositions she
inherits, which makes fair gifts fairer; for where
an unclean mind carries virtuous qualities, there
commendations go with pity; they are virtues and
traitors too; in her they are the better for their
simpleness; she derives her honesty and achieves her goodness.
LAFEU
Your commendations, madam, get from her tears.
COUNTESS
‘Tis the best brine a maiden can season her praise
in. The remembrance of her father never approaches
her heart but the tyranny of her sorrows takes all
livelihood from her cheek. No more of this, Helena;
go to, no more; lest it be rather thought you affect
a sorrow than have it.
HELENA
I do affect a sorrow indeed, but I have it too.
LAFEU
Moderate lamentation is the right of the dead,
excessive grief the enemy to the living.
COUNTESS
If the living be enemy to the grief, the excess
makes it soon mortal.
BERTRAM
Madam, I desire your holy wishes.
LAFEU
How understand we that?
COUNTESS
Be thou blest, Bertram, and succeed thy father
In manners, as in shape! thy blood and virtue
Contend for empire in thee, and thy goodness
Share with thy birthright! Love all, trust a few,
Do wrong to none: be able for thine enemy
Rather in power than use, and keep thy friend
Under thy own life’s key: be cheque’d for silence,
But never tax’d for speech. What heaven more will,
That thee may furnish and my prayers pluck down,
Fall on thy head! Farewell, my lord;
‘Tis an unseason’d courtier; good my lord,
Advise him.
LAFEU
He cannot want the best
That shall attend his love.
COUNTESS
Heaven bless him! Farewell, Bertram.
Exit

BERTRAM
[To HELENA] The best wishes that can be forged in
your thoughts be servants to you! Be comfortable
to my mother, your mistress, and make much of her.
LAFEU
Farewell, pretty lady: you must hold the credit of
your father.
Exeunt BERTRAM and LAFEU

HELENA
O, were that all! I think not on my father;
And these great tears grace his remembrance more
Than those I shed for him. What was he like?
I have forgot him: my imagination
Carries no favour in’t but Bertram’s.
I am undone: there is no living, none,
If Bertram be away. ‘Twere all one
That I should love a bright particular star
And think to wed it, he is so above me:
In his bright radiance and collateral light
Must I be comforted, not in his sphere.
The ambition in my love thus plagues itself:
The hind that would be mated by the lion
Must die for love. ‘Twas pretty, though plague,
To see him every hour; to sit and draw
His arched brows, his hawking eye, his curls,
In our heart’s table; heart too capable
Of every line and trick of his sweet favour:
But now he’s gone, and my idolatrous fancy
Must sanctify his reliques. Who comes here?
Enter PAROLLES

Aside

One that goes with him: I love him for his sake;
And yet I know him a notorious liar,
Think him a great way fool, solely a coward;
Yet these fixed evils sit so fit in him,
That they take place, when virtue’s steely bones
Look bleak i’ the cold wind: withal, full oft we see
Cold wisdom waiting on superfluous folly.
PAROLLES
Save you, fair queen!
HELENA
And you, monarch!
PAROLLES
No.
HELENA
And no.
PAROLLES
Are you meditating on virginity?
HELENA
Ay. You have some stain of soldier in you: let me
ask you a question. Man is enemy to virginity; how
may we barricado it against him?
PAROLLES
Keep him out.
HELENA
But he assails; and our virginity, though valiant,
in the defence yet is weak: unfold to us some
warlike resistance.
PAROLLES
There is none: man, sitting down before you, will
undermine you and blow you up.
HELENA
Bless our poor virginity from underminers and
blowers up! Is there no military policy, how
virgins might blow up men?
PAROLLES
Virginity being blown down, man will quicklier be
blown up: marry, in blowing him down again, with
the breach yourselves made, you lose your city. It
is not politic in the commonwealth of nature to
preserve virginity. Loss of virginity is rational
increase and there was never virgin got till
virginity was first lost. That you were made of is
metal to make virgins. Virginity by being once lost
may be ten times found; by being ever kept, it is
ever lost: ’tis too cold a companion; away with ‘t!
HELENA
I will stand for ‘t a little, though therefore I die a virgin.
PAROLLES
There’s little can be said in ‘t; ’tis against the
rule of nature. To speak on the part of virginity,
is to accuse your mothers; which is most infallible
disobedience. He that hangs himself is a virgin:
virginity murders itself and should be buried in
highways out of all sanctified limit, as a desperate
offendress against nature. Virginity breeds mites,
much like a cheese; consumes itself to the very
paring, and so dies with feeding his own stomach.
Besides, virginity is peevish, proud, idle, made of
self-love, which is the most inhibited sin in the
canon. Keep it not; you cannot choose but loose
by’t: out with ‘t! within ten year it will make
itself ten, which is a goodly increase; and the
principal itself not much the worse: away with ‘t!
HELENA
How might one do, sir, to lose it to her own liking?
PAROLLES
Let me see: marry, ill, to like him that ne’er it
likes. ‘Tis a commodity will lose the gloss with
lying; the longer kept, the less worth: off with ‘t
while ’tis vendible; answer the time of request.
Virginity, like an old courtier, wears her cap out
of fashion: richly suited, but unsuitable: just
like the brooch and the tooth-pick, which wear not
now. Your date is better in your pie and your
porridge than in your cheek; and your virginity,
your old virginity, is like one of our French
withered pears, it looks ill, it eats drily; marry,
’tis a withered pear; it was formerly better;
marry, yet ’tis a withered pear: will you anything with it?
HELENA
Not my virginity yet [ ]
There shall your master have a thousand loves,
A mother and a mistress and a friend,
A phoenix, captain and an enemy,
A guide, a goddess, and a sovereign,
A counsellor, a traitress, and a dear;
His humble ambition, proud humility,
His jarring concord, and his discord dulcet,
His faith, his sweet disaster; with a world
Of pretty, fond, adoptious christendoms,
That blinking Cupid gossips. Now shall he–
I know not what he shall. God send him well!
The court’s a learning place, and he is one–
PAROLLES
What one, i’ faith?
HELENA
That I wish well. ‘Tis pity–
PAROLLES
What’s pity?
HELENA
That wishing well had not a body in’t,
Which might be felt; that we, the poorer born,
Whose baser stars do shut us up in wishes,
Might with effects of them follow our friends,
And show what we alone must think, which never
Return us thanks.
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Monsieur Parolles, my lord calls for you.
Exit

PAROLLES
Little Helen, farewell; if I can remember thee, I
will think of thee at court.
HELENA
Monsieur Parolles, you were born under a charitable star.
PAROLLES
Under Mars, I.
HELENA
I especially think, under Mars.
PAROLLES
Why under Mars?
HELENA
The wars have so kept you under that you must needs
be born under Mars.
PAROLLES
When he was predominant.
HELENA
When he was retrograde, I think, rather.
PAROLLES
Why think you so?
HELENA
You go so much backward when you fight.
PAROLLES
That’s for advantage.
HELENA
So is running away, when fear proposes the safety;
but the composition that your valour and fear makes
in you is a virtue of a good wing, and I like the wear well.
PAROLLES
I am so full of businesses, I cannot answer thee
acutely. I will return perfect courtier; in the
which, my instruction shall serve to naturalize
thee, so thou wilt be capable of a courtier’s
counsel and understand what advice shall thrust upon
thee; else thou diest in thine unthankfulness, and
thine ignorance makes thee away: farewell. When
thou hast leisure, say thy prayers; when thou hast
none, remember thy friends; get thee a good husband,
and use him as he uses thee; so, farewell.
Exit

HELENA
Our remedies oft in ourselves do lie,
Which we ascribe to heaven: the fated sky
Gives us free scope, only doth backward pull
Our slow designs when we ourselves are dull.
What power is it which mounts my love so high,
That makes me see, and cannot feed mine eye?
The mightiest space in fortune nature brings
To join like likes and kiss like native things.
Impossible be strange attempts to those
That weigh their pains in sense and do suppose
What hath been cannot be: who ever strove
So show her merit, that did miss her love?
The king’s disease–my project may deceive me,
But my intents are fix’d and will not leave me.
Exit

SCENE II. Paris. The KING’s palace.
Flourish of cornets. Enter the KING of France, with letters, and divers Attendants
KING
The Florentines and Senoys are by the ears;
Have fought with equal fortune and continue
A braving war.
First Lord
So ’tis reported, sir.
KING
Nay, ’tis most credible; we here received it
A certainty, vouch’d from our cousin Austria,
With caution that the Florentine will move us
For speedy aid; wherein our dearest friend
Prejudicates the business and would seem
To have us make denial.
First Lord
His love and wisdom,
Approved so to your majesty, may plead
For amplest credence.
KING
He hath arm’d our answer,
And Florence is denied before he comes:
Yet, for our gentlemen that mean to see
The Tuscan service, freely have they leave
To stand on either part.
Second Lord
It well may serve
A nursery to our gentry, who are sick
For breathing and exploit.
KING
What’s he comes here?
Enter BERTRAM, LAFEU, and PAROLLES

First Lord
It is the Count Rousillon, my good lord,
Young Bertram.
KING
Youth, thou bear’st thy father’s face;
Frank nature, rather curious than in haste,
Hath well composed thee. Thy father’s moral parts
Mayst thou inherit too! Welcome to Paris.
BERTRAM
My thanks and duty are your majesty’s.
KING
I would I had that corporal soundness now,
As when thy father and myself in friendship
First tried our soldiership! He did look far
Into the service of the time and was
Discipled of the bravest: he lasted long;
But on us both did haggish age steal on
And wore us out of act. It much repairs me
To talk of your good father. In his youth
He had the wit which I can well observe
To-day in our young lords; but they may jest
Till their own scorn return to them unnoted
Ere they can hide their levity in honour;
So like a courtier, contempt nor bitterness
Were in his pride or sharpness; if they were,
His equal had awaked them, and his honour,
Clock to itself, knew the true minute when
Exception bid him speak, and at this time
His tongue obey’d his hand: who were below him
He used as creatures of another place
And bow’d his eminent top to their low ranks,
Making them proud of his humility,
In their poor praise he humbled. Such a man
Might be a copy to these younger times;
Which, follow’d well, would demonstrate them now
But goers backward.
BERTRAM
His good remembrance, sir,
Lies richer in your thoughts than on his tomb;
So in approof lives not his epitaph
As in your royal speech.
KING
Would I were with him! He would always say–
Methinks I hear him now; his plausive words
He scatter’d not in ears, but grafted them,
To grow there and to bear,–‘Let me not live,’–
This his good melancholy oft began,
On the catastrophe and heel of pastime,
When it was out,–‘Let me not live,’ quoth he,
‘After my flame lacks oil, to be the snuff
Of younger spirits, whose apprehensive senses
All but new things disdain; whose judgments are
Mere fathers of their garments; whose constancies
Expire before their fashions.’ This he wish’d;
I after him do after him wish too,
Since I nor wax nor honey can bring home,
I quickly were dissolved from my hive,
To give some labourers room.
Second Lord
You are loved, sir:
They that least lend it you shall lack you first.
KING
I fill a place, I know’t. How long is’t, count,
Since the physician at your father’s died?
He was much famed.
BERTRAM
Some six months since, my lord.
KING
If he were living, I would try him yet.
Lend me an arm; the rest have worn me out
With several applications; nature and sickness
Debate it at their leisure. Welcome, count;
My son’s no dearer.
BERTRAM
Thank your majesty.
Exeunt. Flourish

SCENE III. Rousillon. The COUNT’s palace.
Enter COUNTESS, Steward, and Clown
COUNTESS
I will now hear; what say you of this gentlewoman?
Steward
Madam, the care I have had to even your content, I
wish might be found in the calendar of my past
endeavours; for then we wound our modesty and make
foul the clearness of our deservings, when of
ourselves we publish them.
COUNTESS
What does this knave here? Get you gone, sirrah:
the complaints I have heard of you I do not all
believe: ’tis my slowness that I do not; for I know
you lack not folly to commit them, and have ability
enough to make such knaveries yours.
Clown
‘Tis not unknown to you, madam, I am a poor fellow.
COUNTESS
Well, sir.
Clown
No, madam, ’tis not so well that I am poor, though
many of the rich are damned: but, if I may have
your ladyship’s good will to go to the world, Isbel
the woman and I will do as we may.
COUNTESS
Wilt thou needs be a beggar?
Clown
I do beg your good will in this case.
COUNTESS
In what case?
Clown
In Isbel’s case and mine own. Service is no
heritage: and I think I shall never have the
blessing of God till I have issue o’ my body; for
they say barnes are blessings.
COUNTESS
Tell me thy reason why thou wilt marry.
Clown
My poor body, madam, requires it: I am driven on
by the flesh; and he must needs go that the devil drives.
COUNTESS
Is this all your worship’s reason?
Clown
Faith, madam, I have other holy reasons such as they
are.
COUNTESS
May the world know them?
Clown
I have been, madam, a wicked creature, as you and
all flesh and blood are; and, indeed, I do marry
that I may repent.
COUNTESS
Thy marriage, sooner than thy wickedness.
Clown
I am out o’ friends, madam; and I hope to have
friends for my wife’s sake.
COUNTESS
Such friends are thine enemies, knave.
Clown
You’re shallow, madam, in great friends; for the
knaves come to do that for me which I am aweary of.
He that ears my land spares my team and gives me
leave to in the crop; if I be his cuckold, he’s my
drudge: he that comforts my wife is the cherisher
of my flesh and blood; he that cherishes my flesh
and blood loves my flesh and blood; he that loves my
flesh and blood is my friend: ergo, he that kisses
my wife is my friend. If men could be contented to
be what they are, there were no fear in marriage;
for young Charbon the Puritan and old Poysam the
Papist, howsome’er their hearts are severed in
religion, their heads are both one; they may jowl
horns together, like any deer i’ the herd.
COUNTESS
Wilt thou ever be a foul-mouthed and calumnious knave?
Clown
A prophet I, madam; and I speak the truth the next
way:
For I the ballad will repeat,
Which men full true shall find;
Your marriage comes by destiny,
Your cuckoo sings by kind.
COUNTESS
Get you gone, sir; I’ll talk with you more anon.
Steward
May it please you, madam, that he bid Helen come to
you: of her I am to speak.
COUNTESS
Sirrah, tell my gentlewoman I would speak with her;
Helen, I mean.
Clown
Was this fair face the cause, quoth she,
Why the Grecians sacked Troy?
Fond done, done fond,
Was this King Priam’s joy?
With that she sighed as she stood,
With that she sighed as she stood,
And gave this sentence then;
Among nine bad if one be good,
Among nine bad if one be good,
There’s yet one good in ten.
COUNTESS
What, one good in ten? you corrupt the song, sirrah.
Clown
One good woman in ten, madam; which is a purifying
o’ the song: would God would serve the world so all
the year! we’ld find no fault with the tithe-woman,
if I were the parson. One in ten, quoth a’! An we
might have a good woman born but one every blazing
star, or at an earthquake, ‘twould mend the lottery
well: a man may draw his heart out, ere a’ pluck
one.
COUNTESS
You’ll be gone, sir knave, and do as I command you.
Clown
That man should be at woman’s command, and yet no
hurt done! Though honesty be no puritan, yet it
will do no hurt; it will wear the surplice of
humility over the black gown of a big heart. I am
going, forsooth: the business is for Helen to come hither.
Exit

COUNTESS
Well, now.
Steward
I know, madam, you love your gentlewoman entirely.
COUNTESS
Faith, I do: her father bequeathed her to me; and
she herself, without other advantage, may lawfully
make title to as much love as she finds: there is
more owing her than is paid; and more shall be paid
her than she’ll demand.
Steward
Madam, I was very late more near her than I think
she wished me: alone she was, and did communicate
to herself her own words to her own ears; she
thought, I dare vow for her, they touched not any
stranger sense. Her matter was, she loved your son:
Fortune, she said, was no goddess, that had put
such difference betwixt their two estates; Love no
god, that would not extend his might, only where
qualities were level; Dian no queen of virgins, that
would suffer her poor knight surprised, without
rescue in the first assault or ransom afterward.
This she delivered in the most bitter touch of
sorrow that e’er I heard virgin exclaim in: which I
held my duty speedily to acquaint you withal;
sithence, in the loss that may happen, it concerns
you something to know it.
COUNTESS
You have discharged this honestly; keep it to
yourself: many likelihoods informed me of this
before, which hung so tottering in the balance that
I could neither believe nor misdoubt. Pray you,
leave me: stall this in your bosom; and I thank you
for your honest care: I will speak with you further anon.
Exit Steward

Enter HELENA

Even so it was with me when I was young:
If ever we are nature’s, these are ours; this thorn
Doth to our rose of youth rightly belong;
Our blood to us, this to our blood is born;
It is the show and seal of nature’s truth,
Where love’s strong passion is impress’d in youth:
By our remembrances of days foregone,
Such were our faults, or then we thought them none.
Her eye is sick on’t: I observe her now.
HELENA
What is your pleasure, madam?
COUNTESS
You know, Helen,
I am a mother to you.
HELENA
Mine honourable mistress.
COUNTESS
Nay, a mother:
Why not a mother? When I said ‘a mother,’
Methought you saw a serpent: what’s in ‘mother,’
That you start at it? I say, I am your mother;
And put you in the catalogue of those
That were enwombed mine: ’tis often seen
Adoption strives with nature and choice breeds
A native slip to us from foreign seeds:
You ne’er oppress’d me with a mother’s groan,
Yet I express to you a mother’s care:
God’s mercy, maiden! does it curd thy blood
To say I am thy mother? What’s the matter,
That this distemper’d messenger of wet,
The many-colour’d Iris, rounds thine eye?
Why? that you are my daughter?
HELENA
That I am not.
COUNTESS
I say, I am your mother.
HELENA
Pardon, madam;
The Count Rousillon cannot be my brother:
I am from humble, he from honour’d name;
No note upon my parents, his all noble:
My master, my dear lord he is; and I
His servant live, and will his vassal die:
He must not be my brother.
COUNTESS
Nor I your mother?
HELENA
You are my mother, madam; would you were,–
So that my lord your son were not my brother,–
Indeed my mother! or were you both our mothers,
I care no more for than I do for heaven,
So I were not his sister. Can’t no other,
But, I your daughter, he must be my brother?
COUNTESS
Yes, Helen, you might be my daughter-in-law:
God shield you mean it not! daughter and mother
So strive upon your pulse. What, pale again?
My fear hath catch’d your fondness: now I see
The mystery of your loneliness, and find
Your salt tears’ head: now to all sense ’tis gross
You love my son; invention is ashamed,
Against the proclamation of thy passion,
To say thou dost not: therefore tell me true;
But tell me then, ’tis so; for, look thy cheeks
Confess it, th’ one to th’ other; and thine eyes
See it so grossly shown in thy behaviors
That in their kind they speak it: only sin
And hellish obstinacy tie thy tongue,
That truth should be suspected. Speak, is’t so?
If it be so, you have wound a goodly clew;
If it be not, forswear’t: howe’er, I charge thee,
As heaven shall work in me for thine avail,
Tell me truly.
HELENA
Good madam, pardon me!
COUNTESS
Do you love my son?
HELENA
Your pardon, noble mistress!
COUNTESS
Love you my son?
HELENA
Do not you love him, madam?
COUNTESS
Go not about; my love hath in’t a bond,
Whereof the world takes note: come, come, disclose
The state of your affection; for your passions
Have to the full appeach’d.
HELENA
Then, I confess,
Here on my knee, before high heaven and you,
That before you, and next unto high heaven,
I love your son.
My friends were poor, but honest; so’s my love:
Be not offended; for it hurts not him
That he is loved of me: I follow him not
By any token of presumptuous suit;
Nor would I have him till I do deserve him;
Yet never know how that desert should be.
I know I love in vain, strive against hope;
Yet in this captious and intenible sieve
I still pour in the waters of my love
And lack not to lose still: thus, Indian-like,
Religious in mine error, I adore
The sun, that looks upon his worshipper,
But knows of him no more. My dearest madam,
Let not your hate encounter with my love
For loving where you do: but if yourself,
Whose aged honour cites a virtuous youth,
Did ever in so true a flame of liking
Wish chastely and love dearly, that your Dian
Was both herself and love: O, then, give pity
To her, whose state is such that cannot choose
But lend and give where she is sure to lose;
That seeks not to find that her search implies,
But riddle-like lives sweetly where she dies!
COUNTESS
Had you not lately an intent,–speak truly,–
To go to Paris?
HELENA
Madam, I had.
COUNTESS
Wherefore? tell true.
HELENA
I will tell truth; by grace itself I swear.
You know my father left me some prescriptions
Of rare and proved effects, such as his reading
And manifest experience had collected
For general sovereignty; and that he will’d me
In heedfull’st reservation to bestow them,
As notes whose faculties inclusive were
More than they were in note: amongst the rest,
There is a remedy, approved, set down,
To cure the desperate languishings whereof
The king is render’d lost.
COUNTESS
This was your motive
For Paris, was it? speak.
HELENA
My lord your son made me to think of this;
Else Paris and the medicine and the king
Had from the conversation of my thoughts
Haply been absent then.
COUNTESS
But think you, Helen,
If you should tender your supposed aid,
He would receive it? he and his physicians
Are of a mind; he, that they cannot help him,
They, that they cannot help: how shall they credit
A poor unlearned virgin, when the schools,
Embowell’d of their doctrine, have left off
The danger to itself?
HELENA
There’s something in’t,
More than my father’s skill, which was the greatest
Of his profession, that his good receipt
Shall for my legacy be sanctified
By the luckiest stars in heaven: and, would your honour
But give me leave to try success, I’ld venture
The well-lost life of mine on his grace’s cure
By such a day and hour.
COUNTESS
Dost thou believe’t?
HELENA
Ay, madam, knowingly.
COUNTESS
Why, Helen, thou shalt have my leave and love,
Means and attendants and my loving greetings
To those of mine in court: I’ll stay at home
And pray God’s blessing into thy attempt:
Be gone to-morrow; and be sure of this,
What I can help thee to thou shalt not miss.
Exeunt

ACT II
SCENE I. Paris. The KING’s palace.
Flourish of cornets. Enter the KING, attended with divers young Lords taking leave for the Florentine war; BERTRAM, and PAROLLES
KING
Farewell, young lords; these warlike principles
Do not throw from you: and you, my lords, farewell:
Share the advice betwixt you; if both gain, all
The gift doth stretch itself as ’tis received,
And is enough for both.
First Lord
‘Tis our hope, sir,
After well enter’d soldiers, to return
And find your grace in health.
KING
No, no, it cannot be; and yet my heart
Will not confess he owes the malady
That doth my life besiege. Farewell, young lords;
Whether I live or die, be you the sons
Of worthy Frenchmen: let higher Italy,–
Those bated that inherit but the fall
Of the last monarchy,–see that you come
Not to woo honour, but to wed it; when
The bravest questant shrinks, find what you seek,
That fame may cry you loud: I say, farewell.
Second Lord
Health, at your bidding, serve your majesty!
KING
Those girls of Italy, take heed of them:
They say, our French lack language to deny,
If they demand: beware of being captives,
Before you serve.
Both
Our hearts receive your warnings.
KING
Farewell. Come hither to me.
Exit, attended

First Lord
O, my sweet lord, that you will stay behind us!
PAROLLES
‘Tis not his fault, the spark.
Second Lord
O, ’tis brave wars!
PAROLLES
Most admirable: I have seen those wars.
BERTRAM
I am commanded here, and kept a coil with
‘Too young’ and ‘the next year’ and ”tis too early.’
PAROLLES
An thy mind stand to’t, boy, steal away bravely.
BERTRAM
I shall stay here the forehorse to a smock,
Creaking my shoes on the plain masonry,
Till honour be bought up and no sword worn
But one to dance with! By heaven, I’ll steal away.
First Lord
There’s honour in the theft.
PAROLLES
Commit it, count.
Second Lord
I am your accessary; and so, farewell.
BERTRAM
I grow to you, and our parting is a tortured body.
First Lord
Farewell, captain.
Second Lord
Sweet Monsieur Parolles!
PAROLLES
Noble heroes, my sword and yours are kin. Good
sparks and lustrous, a word, good metals: you shall
find in the regiment of the Spinii one Captain
Spurio, with his cicatrice, an emblem of war, here
on his sinister cheek; it was this very sword
entrenched it: say to him, I live; and observe his
reports for me.
First Lord
We shall, noble captain.
Exeunt Lords

PAROLLES
Mars dote on you for his novices! what will ye do?
BERTRAM
Stay: the king.
Re-enter KING. BERTRAM and PAROLLES retire

PAROLLES
[To BERTRAM] Use a more spacious ceremony to the
noble lords; you have restrained yourself within the
list of too cold an adieu: be more expressive to
them: for they wear themselves in the cap of the
time, there do muster true gait, eat, speak, and
move under the influence of the most received star;
and though the devil lead the measure, such are to
be followed: after them, and take a more dilated farewell.
BERTRAM
And I will do so.
PAROLLES
Worthy fellows; and like to prove most sinewy sword-men.
Exeunt BERTRAM and PAROLLES

Enter LAFEU

LAFEU
[Kneeling] Pardon, my lord, for me and for my tidings.
KING
I’ll fee thee to stand up.
LAFEU
Then here’s a man stands, that has brought his pardon.
I would you had kneel’d, my lord, to ask me mercy,
And that at my bidding you could so stand up.
KING
I would I had; so I had broke thy pate,
And ask’d thee mercy for’t.
LAFEU
Good faith, across: but, my good lord ’tis thus;
Will you be cured of your infirmity?
KING
No.
LAFEU
O, will you eat no grapes, my royal fox?
Yes, but you will my noble grapes, an if
My royal fox could reach them: I have seen a medicine
That’s able to breathe life into a stone,
Quicken a rock, and make you dance canary
With spritely fire and motion; whose simple touch,
Is powerful to araise King Pepin, nay,
To give great Charlemain a pen in’s hand,
And write to her a love-line.
KING
What ‘her’ is this?
LAFEU
Why, Doctor She: my lord, there’s one arrived,
If you will see her: now, by my faith and honour,
If seriously I may convey my thoughts
In this my light deliverance, I have spoke
With one that, in her sex, her years, profession,
Wisdom and constancy, hath amazed me more
Than I dare blame my weakness: will you see her
For that is her demand, and know her business?
That done, laugh well at me.
KING
Now, good Lafeu,
Bring in the admiration; that we with thee
May spend our wonder too, or take off thine
By wondering how thou took’st it.
LAFEU
Nay, I’ll fit you,
And not be all day neither.
Exit

KING
Thus he his special nothing ever prologues.
Re-enter LAFEU, with HELENA

LAFEU
Nay, come your ways.
KING
This haste hath wings indeed.
LAFEU
Nay, come your ways:
This is his majesty; say your mind to him:
A traitor you do look like; but such traitors
His majesty seldom fears: I am Cressid’s uncle,
That dare leave two together; fare you well.
Exit

KING
Now, fair one, does your business follow us?
HELENA
Ay, my good lord.
Gerard de Narbon was my father;
In what he did profess, well found.
KING
I knew him.
HELENA
The rather will I spare my praises towards him:
Knowing him is enough. On’s bed of death
Many receipts he gave me: chiefly one.
Which, as the dearest issue of his practise,
And of his old experience the oily darling,
He bade me store up, as a triple eye,
Safer than mine own two, more dear; I have so;
And hearing your high majesty is touch’d
With that malignant cause wherein the honour
Of my dear father’s gift stands chief in power,
I come to tender it and my appliance
With all bound humbleness.
KING
We thank you, maiden;
But may not be so credulous of cure,
When our most learned doctors leave us and
The congregated college have concluded
That labouring art can never ransom nature
From her inaidible estate; I say we must not
So stain our judgment, or corrupt our hope,
To prostitute our past-cure malady
To empirics, or to dissever so
Our great self and our credit, to esteem
A senseless help when help past sense we deem.
HELENA
My duty then shall pay me for my pains:
I will no more enforce mine office on you.
Humbly entreating from your royal thoughts
A modest one, to bear me back again.
KING
I cannot give thee less, to be call’d grateful:
Thou thought’st to help me; and such thanks I give
As one near death to those that wish him live:
But what at full I know, thou know’st no part,
I knowing all my peril, thou no art.
HELENA
What I can do can do no hurt to try,
Since you set up your rest ‘gainst remedy.
He that of greatest works is finisher
Oft does them by the weakest minister:
So holy writ in babes hath judgment shown,
When judges have been babes; great floods have flown
From simple sources, and great seas have dried
When miracles have by the greatest been denied.
Oft expectation fails and most oft there
Where most it promises, and oft it hits
Where hope is coldest and despair most fits.
KING
I must not hear thee; fare thee well, kind maid;
Thy pains not used must by thyself be paid:
Proffers not took reap thanks for their reward.
HELENA
Inspired merit so by breath is barr’d:
It is not so with Him that all things knows
As ’tis with us that square our guess by shows;
But most it is presumption in us when
The help of heaven we count the act of men.
Dear sir, to my endeavours give consent;
Of heaven, not me, make an experiment.
I am not an impostor that proclaim
Myself against the level of mine aim;
But know I think and think I know most sure
My art is not past power nor you past cure.
KING
Are thou so confident? within what space
Hopest thou my cure?
HELENA
The great’st grace lending grace
Ere twice the horses of the sun shall bring
Their fiery torcher his diurnal ring,
Ere twice in murk and occidental damp
Moist Hesperus hath quench’d his sleepy lamp,
Or four and twenty times the pilot’s glass
Hath told the thievish minutes how they pass,
What is infirm from your sound parts shall fly,
Health shall live free and sickness freely die.
KING
Upon thy certainty and confidence
What darest thou venture?
HELENA
Tax of impudence,
A strumpet’s boldness, a divulged shame
Traduced by odious ballads: my maiden’s name
Sear’d otherwise; nay, worse–if worse–extended
With vilest torture let my life be ended.
KING
Methinks in thee some blessed spirit doth speak
His powerful sound within an organ weak:
And what impossibility would slay
In common sense, sense saves another way.
Thy life is dear; for all that life can rate
Worth name of life in thee hath estimate,
Youth, beauty, wisdom, courage, all
That happiness and prime can happy call:
Thou this to hazard needs must intimate
Skill infinite or monstrous desperate.
Sweet practiser, thy physic I will try,
That ministers thine own death if I die.
HELENA
If I break time, or flinch in property
Of what I spoke, unpitied let me die,
And well deserved: not helping, death’s my fee;
But, if I help, what do you promise me?
KING
Make thy demand.
HELENA
But will you make it even?
KING
Ay, by my sceptre and my hopes of heaven.
HELENA
Then shalt thou give me with thy kingly hand
What husband in thy power I will command:
Exempted be from me the arrogance
To choose from forth the royal blood of France,
My low and humble name to propagate
With any branch or image of thy state;
But such a one, thy vassal, whom I know
Is free for me to ask, thee to bestow.
KING
Here is my hand; the premises observed,
Thy will by my performance shall be served:
So make the choice of thy own time, for I,
Thy resolved patient, on thee still rely.
More should I question thee, and more I must,
Though more to know could not be more to trust,
From whence thou camest, how tended on: but rest
Unquestion’d welcome and undoubted blest.
Give me some help here, ho! If thou proceed
As high as word, my deed shall match thy meed.
Flourish. Exeunt

SCENE II. Rousillon. The COUNT’s palace.
Enter COUNTESS and Clown
COUNTESS
Come on, sir; I shall now put you to the height of
your breeding.
Clown
I will show myself highly fed and lowly taught: I
know my business is but to the court.
COUNTESS
To the court! why, what place make you special,
when you put off that with such contempt? But to the court!
Clown
Truly, madam, if God have lent a man any manners, he
may easily put it off at court: he that cannot make
a leg, put off’s cap, kiss his hand and say nothing,
has neither leg, hands, lip, nor cap; and indeed
such a fellow, to say precisely, were not for the
court; but for me, I have an answer will serve all
men.
COUNTESS
Marry, that’s a bountiful answer that fits all
questions.
Clown
It is like a barber’s chair that fits all buttocks,
the pin-buttock, the quatch-buttock, the brawn
buttock, or any buttock.
COUNTESS
Will your answer serve fit to all questions?
Clown
As fit as ten groats is for the hand of an attorney,
as your French crown for your taffeta punk, as Tib’s
rush for Tom’s forefinger, as a pancake for Shrove
Tuesday, a morris for May-day, as the nail to his
hole, the cuckold to his horn, as a scolding queen
to a wrangling knave, as the nun’s lip to the
friar’s mouth, nay, as the pudding to his skin.
COUNTESS
Have you, I say, an answer of such fitness for all
questions?
Clown
From below your duke to beneath your constable, it
will fit any question.
COUNTESS
It must be an answer of most monstrous size that
must fit all demands.
Clown
But a trifle neither, in good faith, if the learned
should speak truth of it: here it is, and all that
belongs to’t. Ask me if I am a courtier: it shall
do you no harm to learn.
COUNTESS
To be young again, if we could: I will be a fool in
question, hoping to be the wiser by your answer. I
pray you, sir, are you a courtier?
Clown
O Lord, sir! There’s a simple putting off. More,
more, a hundred of them.
COUNTESS
Sir, I am a poor friend of yours, that loves you.
Clown
O Lord, sir! Thick, thick, spare not me.
COUNTESS
I think, sir, you can eat none of this homely meat.
Clown
O Lord, sir! Nay, put me to’t, I warrant you.
COUNTESS
You were lately whipped, sir, as I think.
Clown
O Lord, sir! spare not me.
COUNTESS
Do you cry, ‘O Lord, sir!’ at your whipping, and
‘spare not me?’ Indeed your ‘O Lord, sir!’ is very
sequent to your whipping: you would answer very well
to a whipping, if you were but bound to’t.
Clown
I ne’er had worse luck in my life in my ‘O Lord,
sir!’ I see things may serve long, but not serve ever.
COUNTESS
I play the noble housewife with the time
To entertain’t so merrily with a fool.
Clown
O Lord, sir! why, there’t serves well again.
COUNTESS
An end, sir; to your business. Give Helen this,
And urge her to a present answer back:
Commend me to my kinsmen and my son:
This is not much.
Clown
Not much commendation to them.
COUNTESS
Not much employment for you: you understand me?
Clown
Most fruitfully: I am there before my legs.
COUNTESS
Haste you again.
Exeunt severally

SCENE III. Paris. The KING’s palace.
Enter BERTRAM, LAFEU, and PAROLLES
LAFEU
They say miracles are past; and we have our
philosophical persons, to make modern and familiar,
things supernatural and causeless. Hence is it that
we make trifles of terrors, ensconcing ourselves
into seeming knowledge, when we should submit
ourselves to an unknown fear.
PAROLLES
Why, ’tis the rarest argument of wonder that hath
shot out in our latter times.
BERTRAM
And so ’tis.
LAFEU
To be relinquish’d of the artists,–
PAROLLES
So I say.
LAFEU
Both of Galen and Paracelsus.
PAROLLES
So I say.
LAFEU
Of all the learned and authentic fellows,–
PAROLLES
Right; so I say.
LAFEU
That gave him out incurable,–
PAROLLES
Why, there ’tis; so say I too.
LAFEU
Not to be helped,–
PAROLLES
Right; as ’twere, a man assured of a–
LAFEU
Uncertain life, and sure death.
PAROLLES
Just, you say well; so would I have said.
LAFEU
I may truly say, it is a novelty to the world.
PAROLLES
It is, indeed: if you will have it in showing, you
shall read it in–what do you call there?
LAFEU
A showing of a heavenly effect in an earthly actor.
PAROLLES
That’s it; I would have said the very same.
LAFEU
Why, your dolphin is not lustier: ‘fore me,
I speak in respect–
PAROLLES
Nay, ’tis strange, ’tis very strange, that is the
brief and the tedious of it; and he’s of a most
facinerious spirit that will not acknowledge it to be the–
LAFEU
Very hand of heaven.
PAROLLES
Ay, so I say.
LAFEU
In a most weak–
pausing

and debile minister, great power, great
transcendence: which should, indeed, give us a
further use to be made than alone the recovery of
the king, as to be–
pausing

generally thankful.
PAROLLES
I would have said it; you say well. Here comes the king.
Enter KING, HELENA, and Attendants. LAFEU and PAROLLES retire

LAFEU
Lustig, as the Dutchman says: I’ll like a maid the
better, whilst I have a tooth in my head: why, he’s
able to lead her a coranto.
PAROLLES
Mort du vinaigre! is not this Helen?
LAFEU
‘Fore God, I think so.
KING
Go, call before me all the lords in court.
Sit, my preserver, by thy patient’s side;
And with this healthful hand, whose banish’d sense
Thou hast repeal’d, a second time receive
The confirmation of my promised gift,
Which but attends thy naming.
Enter three or four Lords

Fair maid, send forth thine eye: this youthful parcel
Of noble bachelors stand at my bestowing,
O’er whom both sovereign power and father’s voice
I have to use: thy frank election make;
Thou hast power to choose, and they none to forsake.
HELENA
To each of you one fair and virtuous mistress
Fall, when Love please! marry, to each, but one!
LAFEU
I’ld give bay Curtal and his furniture,
My mouth no more were broken than these boys’,
And writ as little beard.
KING
Peruse them well:
Not one of those but had a noble father.
HELENA
Gentlemen,
Heaven hath through me restored the king to health.
All
We understand it, and thank heaven for you.
HELENA
I am a simple maid, and therein wealthiest,
That I protest I simply am a maid.
Please it your majesty, I have done already:
The blushes in my cheeks thus whisper me,
‘We blush that thou shouldst choose; but, be refused,
Let the white death sit on thy cheek for ever;
We’ll ne’er come there again.’
KING
Make choice; and, see,
Who shuns thy love shuns all his love in me.
HELENA
Now, Dian, from thy altar do I fly,
And to imperial Love, that god most high,
Do my sighs stream. Sir, will you hear my suit?
First Lord
And grant it.
HELENA
Thanks, sir; all the rest is mute.
LAFEU
I had rather be in this choice than throw ames-ace
for my life.
HELENA
The honour, sir, that flames in your fair eyes,
Before I speak, too threateningly replies:
Love make your fortunes twenty times above
Her that so wishes and her humble love!
Second Lord
No better, if you please.
HELENA
My wish receive,
Which great Love grant! and so, I take my leave.
LAFEU
Do all they deny her? An they were sons of mine,
I’d have them whipped; or I would send them to the
Turk, to make eunuchs of.
HELENA
Be not afraid that I your hand should take;
I’ll never do you wrong for your own sake:
Blessing upon your vows! and in your bed
Find fairer fortune, if you ever wed!
LAFEU
These boys are boys of ice, they’ll none have her:
sure, they are bastards to the English; the French
ne’er got ’em.
HELENA
You are too young, too happy, and too good,
To make yourself a son out of my blood.
Fourth Lord
Fair one, I think not so.
LAFEU
There’s one grape yet; I am sure thy father drunk
wine: but if thou be’st not an ass, I am a youth
of fourteen; I have known thee already.
HELENA
[To BERTRAM] I dare not say I take you; but I give
Me and my service, ever whilst I live,
Into your guiding power. This is the man.
KING
Why, then, young Bertram, take her; she’s thy wife.
BERTRAM
My wife, my liege! I shall beseech your highness,
In such a business give me leave to use
The help of mine own eyes.
KING
Know’st thou not, Bertram,
What she has done for me?
BERTRAM
Yes, my good lord;
But never hope to know why I should marry her.
KING
Thou know’st she has raised me from my sickly bed.
BERTRAM
But follows it, my lord, to bring me down
Must answer for your raising? I know her well:
She had her breeding at my father’s charge.
A poor physician’s daughter my wife! Disdain
Rather corrupt me ever!
KING
‘Tis only title thou disdain’st in her, the which
I can build up. Strange is it that our bloods,
Of colour, weight, and heat, pour’d all together,
Would quite confound distinction, yet stand off
In differences so mighty. If she be
All that is virtuous, save what thou dislikest,
A poor physician’s daughter, thou dislikest
Of virtue for the name: but do not so:
From lowest place when virtuous things proceed,
The place is dignified by the doer’s deed:
Where great additions swell’s, and virtue none,
It is a dropsied honour. Good alone
Is good without a name. Vileness is so:
The property by what it is should go,
Not by the title. She is young, wise, fair;
In these to nature she’s immediate heir,
And these breed honour: that is honour’s scorn,
Which challenges itself as honour’s born
And is not like the sire: honours thrive,
When rather from our acts we them derive
Than our foregoers: the mere word’s a slave
Debosh’d on every tomb, on every grave
A lying trophy, and as oft is dumb
Where dust and damn’d oblivion is the tomb
Of honour’d bones indeed. What should be said?
If thou canst like this creature as a maid,
I can create the rest: virtue and she
Is her own dower; honour and wealth from me.
BERTRAM
I cannot love her, nor will strive to do’t.
KING
Thou wrong’st thyself, if thou shouldst strive to choose.
HELENA
That you are well restored, my lord, I’m glad:
Let the rest go.
KING
My honour’s at the stake; which to defeat,
I must produce my power. Here, take her hand,
Proud scornful boy, unworthy this good gift;
That dost in vile misprision shackle up
My love and her desert; that canst not dream,
We, poising us in her defective scale,
Shall weigh thee to the beam; that wilt not know,
It is in us to plant thine honour where
We please to have it grow. Cheque thy contempt:
Obey our will, which travails in thy good:
Believe not thy disdain, but presently
Do thine own fortunes that obedient right
Which both thy duty owes and our power claims;
Or I will throw thee from my care for ever
Into the staggers and the careless lapse
Of youth and ignorance; both my revenge and hate
Loosing upon thee, in the name of justice,
Without all terms of pity. Speak; thine answer.
BERTRAM
Pardon, my gracious lord; for I submit
My fancy to your eyes: when I consider
What great creation and what dole of honour
Flies where you bid it, I find that she, which late
Was in my nobler thoughts most base, is now
The praised of the king; who, so ennobled,
Is as ’twere born so.
KING
Take her by the hand,
And tell her she is thine: to whom I promise
A counterpoise, if not to thy estate
A balance more replete.
BERTRAM
I take her hand.
KING
Good fortune and the favour of the king
Smile upon this contract; whose ceremony
Shall seem expedient on the now-born brief,
And be perform’d to-night: the solemn feast
Shall more attend upon the coming space,
Expecting absent friends. As thou lovest her,
Thy love’s to me religious; else, does err.
Exeunt all but LAFEU and PAROLLES

LAFEU
[Advancing] Do you hear, monsieur? a word with you.
PAROLLES
Your pleasure, sir?
LAFEU
Your lord and master did well to make his
recantation.
PAROLLES
Recantation! My lord! my master!
LAFEU
Ay; is it not a language I speak?
PAROLLES
A most harsh one, and not to be understood without
bloody succeeding. My master!
LAFEU
Are you companion to the Count Rousillon?
PAROLLES
To any count, to all counts, to what is man.
LAFEU
To what is count’s man: count’s master is of
another style.
PAROLLES
You are too old, sir; let it satisfy you, you are too old.
LAFEU
I must tell thee, sirrah, I write man; to which
title age cannot bring thee.
PAROLLES
What I dare too well do, I dare not do.
LAFEU
I did think thee, for two ordinaries, to be a pretty
wise fellow; thou didst make tolerable vent of thy
travel; it might pass: yet the scarfs and the
bannerets about thee did manifoldly dissuade me from
believing thee a vessel of too great a burthen. I
have now found thee; when I lose thee again, I care
not: yet art thou good for nothing but taking up; and
that thou’t scarce worth.
PAROLLES
Hadst thou not the privilege of antiquity upon thee,–
LAFEU
Do not plunge thyself too far in anger, lest thou
hasten thy trial; which if–Lord have mercy on thee
for a hen! So, my good window of lattice, fare thee
well: thy casement I need not open, for I look
through thee. Give me thy hand.
PAROLLES
My lord, you give me most egregious indignity.
LAFEU
Ay, with all my heart; and thou art worthy of it.
PAROLLES
I have not, my lord, deserved it.
LAFEU
Yes, good faith, every dram of it; and I will not
bate thee a scruple.
PAROLLES
Well, I shall be wiser.
LAFEU
Even as soon as thou canst, for thou hast to pull at
a smack o’ the contrary. If ever thou be’st bound
in thy scarf and beaten, thou shalt find what it is
to be proud of thy bondage. I have a desire to hold
my acquaintance with thee, or rather my knowledge,
that I may say in the default, he is a man I know.
PAROLLES
My lord, you do me most insupportable vexation.
LAFEU
I would it were hell-pains for thy sake, and my poor
doing eternal: for doing I am past: as I will by
thee, in what motion age will give me leave.
Exit

PAROLLES
Well, thou hast a son shall take this disgrace off
me; scurvy, old, filthy, scurvy lord! Well, I must
be patient; there is no fettering of authority.
I’ll beat him, by my life, if I can meet him with
any convenience, an he were double and double a
lord. I’ll have no more pity of his age than I
would of–I’ll beat him, an if I could but meet him again.
Re-enter LAFEU

LAFEU
Sirrah, your lord and master’s married; there’s news
for you: you have a new mistress.
PAROLLES
I most unfeignedly beseech your lordship to make
some reservation of your wrongs: he is my good
lord: whom I serve above is my master.
LAFEU
Who? God?
PAROLLES
Ay, sir.
LAFEU
The devil it is that’s thy master. Why dost thou
garter up thy arms o’ this fashion? dost make hose of
sleeves? do other servants so? Thou wert best set
thy lower part where thy nose stands. By mine
honour, if I were but two hours younger, I’ld beat
thee: methinks, thou art a general offence, and
every man should beat thee: I think thou wast
created for men to breathe themselves upon thee.
PAROLLES
This is hard and undeserved measure, my lord.
LAFEU
Go to, sir; you were beaten in Italy for picking a
kernel out of a pomegranate; you are a vagabond and
no true traveller: you are more saucy with lords
and honourable personages than the commission of your
birth and virtue gives you heraldry. You are not
worth another word, else I’ld call you knave. I leave you.
Exit

PAROLLES
Good, very good; it is so then: good, very good;
let it be concealed awhile.
Re-enter BERTRAM

BERTRAM
Undone, and forfeited to cares for ever!
PAROLLES
What’s the matter, sweet-heart?
BERTRAM
Although before the solemn priest I have sworn,
I will not bed her.
PAROLLES
What, what, sweet-heart?
BERTRAM
O my Parolles, they have married me!
I’ll to the Tuscan wars, and never bed her.
PAROLLES
France is a dog-hole, and it no more merits
The tread of a man’s foot: to the wars!
BERTRAM
There’s letters from my mother: what the import is,
I know not yet.
PAROLLES
Ay, that would be known. To the wars, my boy, to the wars!
He wears his honour in a box unseen,
That hugs his kicky-wicky here at home,
Spending his manly marrow in her arms,
Which should sustain the bound and high curvet
Of Mars’s fiery steed. To other regions
France is a stable; we that dwell in’t jades;
Therefore, to the war!
BERTRAM
It shall be so: I’ll send her to my house,
Acquaint my mother with my hate to her,
And wherefore I am fled; write to the king
That which I durst not speak; his present gift
Shall furnish me to those Italian fields,
Where noble fellows strike: war is no strife
To the dark house and the detested wife.
PAROLLES
Will this capriccio hold in thee? art sure?
BERTRAM
Go with me to my chamber, and advise me.
I’ll send her straight away: to-morrow
I’ll to the wars, she to her single sorrow.
PAROLLES
Why, these balls bound; there’s noise in it. ‘Tis hard:
A young man married is a man that’s marr’d:
Therefore away, and leave her bravely; go:
The king has done you wrong: but, hush, ’tis so.
Exeunt

SCENE IV. Paris. The KING’s palace.
Enter HELENA and Clown
HELENA
My mother greets me kindly; is she well?
Clown
She is not well; but yet she has her health: she’s
very merry; but yet she is not well: but thanks be
given, she’s very well and wants nothing i’, the
world; but yet she is not well.
HELENA
If she be very well, what does she ail, that she’s
not very well?
Clown
Truly, she’s very well indeed, but for two things.
HELENA
What two things?
Clown
One, that she’s not in heaven, whither God send her
quickly! the other that she’s in earth, from whence
God send her quickly!
Enter PAROLLES

PAROLLES
Bless you, my fortunate lady!
HELENA
I hope, sir, I have your good will to have mine own
good fortunes.
PAROLLES
You had my prayers to lead them on; and to keep them
on, have them still. O, my knave, how does my old lady?
Clown
So that you had her wrinkles and I her money,
I would she did as you say.
PAROLLES
Why, I say nothing.
Clown
Marry, you are the wiser man; for many a man’s
tongue shakes out his master’s undoing: to say
nothing, to do nothing, to know nothing, and to have
nothing, is to be a great part of your title; which
is within a very little of nothing.
PAROLLES
Away! thou’rt a knave.
Clown
You should have said, sir, before a knave thou’rt a
knave; that’s, before me thou’rt a knave: this had
been truth, sir.
PAROLLES
Go to, thou art a witty fool; I have found thee.
Clown
Did you find me in yourself, sir? or were you
taught to find me? The search, sir, was profitable;
and much fool may you find in you, even to the
world’s pleasure and the increase of laughter.
PAROLLES
A good knave, i’ faith, and well fed.
Madam, my lord will go away to-night;
A very serious business calls on him.
The great prerogative and rite of love,
Which, as your due, time claims, he does acknowledge;
But puts it off to a compell’d restraint;
Whose want, and whose delay, is strew’d with sweets,
Which they distil now in the curbed time,
To make the coming hour o’erflow with joy
And pleasure drown the brim.
HELENA
What’s his will else?
PAROLLES
That you will take your instant leave o’ the king
And make this haste as your own good proceeding,
Strengthen’d with what apology you think
May make it probable need.
HELENA
What more commands he?
PAROLLES
That, having this obtain’d, you presently
Attend his further pleasure.
HELENA
In every thing I wait upon his will.
PAROLLES
I shall report it so.
HELENA
I pray you.
Exit PAROLLES

Come, sirrah.
Exeunt

SCENE V. Paris. The KING’s palace.
Enter LAFEU and BERTRAM
LAFEU
But I hope your lordship thinks not him a soldier.
BERTRAM
Yes, my lord, and of very valiant approof.
LAFEU
You have it from his own deliverance.
BERTRAM
And by other warranted testimony.
LAFEU
Then my dial goes not true: I took this lark for a bunting.
BERTRAM
I do assure you, my lord, he is very great in
knowledge and accordingly valiant.
LAFEU
I have then sinned against his experience and
transgressed against his valour; and my state that
way is dangerous, since I cannot yet find in my
heart to repent. Here he comes: I pray you, make
us friends; I will pursue the amity.
Enter PAROLLES

PAROLLES
[To BERTRAM] These things shall be done, sir.
LAFEU
Pray you, sir, who’s his tailor?
PAROLLES
Sir?
LAFEU
O, I know him well, I, sir; he, sir, ‘s a good
workman, a very good tailor.
BERTRAM
[Aside to PAROLLES] Is she gone to the king?
PAROLLES
She is.
BERTRAM
Will she away to-night?
PAROLLES
As you’ll have her.
BERTRAM
I have writ my letters, casketed my treasure,
Given order for our horses; and to-night,
When I should take possession of the bride,
End ere I do begin.
LAFEU
A good traveller is something at the latter end of a
dinner; but one that lies three thirds and uses a
known truth to pass a thousand nothings with, should
be once heard and thrice beaten. God save you, captain.
BERTRAM
Is there any unkindness between my lord and you, monsieur?
PAROLLES
I know not how I have deserved to run into my lord’s
displeasure.
LAFEU
You have made shift to run into ‘t, boots and spurs
and all, like him that leaped into the custard; and
out of it you’ll run again, rather than suffer
question for your residence.
BERTRAM
It may be you have mistaken him, my lord.
LAFEU
And shall do so ever, though I took him at ‘s
prayers. Fare you well, my lord; and believe this
of me, there can be no kernel in this light nut; the
soul of this man is his clothes. Trust him not in
matter of heavy consequence; I have kept of them
tame, and know their natures. Farewell, monsieur:
I have spoken better of you than you have or will to
deserve at my hand; but we must do good against evil.
Exit

PAROLLES
An idle lord. I swear.
BERTRAM
I think so.
PAROLLES
Why, do you not know him?
BERTRAM
Yes, I do know him well, and common speech
Gives him a worthy pass. Here comes my clog.
Enter HELENA

HELENA
I have, sir, as I was commanded from you,
Spoke with the king and have procured his leave
For present parting; only he desires
Some private speech with you.
BERTRAM
I shall obey his will.
You must not marvel, Helen, at my course,
Which holds not colour with the time, nor does
The ministration and required office
On my particular. Prepared I was not
For such a business; therefore am I found
So much unsettled: this drives me to entreat you
That presently you take our way for home;
And rather muse than ask why I entreat you,
For my respects are better than they seem
And my appointments have in them a need
Greater than shows itself at the first view
To you that know them not. This to my mother:
Giving a letter

‘Twill be two days ere I shall see you, so
I leave you to your wisdom.
HELENA
Sir, I can nothing say,
But that I am your most obedient servant.
BERTRAM
Come, come, no more of that.
HELENA
And ever shall
With true observance seek to eke out that
Wherein toward me my homely stars have fail’d
To equal my great fortune.
BERTRAM
Let that go:
My haste is very great: farewell; hie home.
HELENA
Pray, sir, your pardon.
BERTRAM
Well, what would you say?
HELENA
I am not worthy of the wealth I owe,
Nor dare I say ’tis mine, and yet it is;
But, like a timorous thief, most fain would steal
What law does vouch mine own.
BERTRAM
What would you have?
HELENA
Something; and scarce so much: nothing, indeed.
I would not tell you what I would, my lord:
Faith yes;
Strangers and foes do sunder, and not kiss.
BERTRAM
I pray you, stay not, but in haste to horse.
HELENA
I shall not break your bidding, good my lord.
BERTRAM
Where are my other men, monsieur? Farewell.
Exit HELENA

Go thou toward home; where I will never come
Whilst I can shake my sword or hear the drum.
Away, and for our flight.
PAROLLES
Bravely, coragio!
Exeunt

ACT III
SCENE I. Florence. The DUKE’s palace.
Flourish. Enter the DUKE of Florence attended; the two Frenchmen, with a troop of soldiers.
DUKE
So that from point to point now have you heard
The fundamental reasons of this war,
Whose great decision hath much blood let forth
And more thirsts after.
First Lord
Holy seems the quarrel
Upon your grace’s part; black and fearful
On the opposer.
DUKE
Therefore we marvel much our cousin France
Would in so just a business shut his bosom
Against our borrowing prayers.
Second Lord
Good my lord,
The reasons of our state I cannot yield,
But like a common and an outward man,
That the great figure of a council frames
By self-unable motion: therefore dare not
Say what I think of it, since I have found
Myself in my incertain grounds to fail
As often as I guess’d.
DUKE
Be it his pleasure.
First Lord
But I am sure the younger of our nature,
That surfeit on their ease, will day by day
Come here for physic.
DUKE
Welcome shall they be;
And all the honours that can fly from us
Shall on them settle. You know your places well;
When better fall, for your avails they fell:
To-morrow to the field.
Flourish. Exeunt

SCENE II. Rousillon. The COUNT’s palace.
Enter COUNTESS and Clown
COUNTESS
It hath happened all as I would have had it, save
that he comes not along with her.
Clown
By my troth, I take my young lord to be a very
melancholy man.
COUNTESS
By what observance, I pray you?
Clown
Why, he will look upon his boot and sing; mend the
ruff and sing; ask questions and sing; pick his
teeth and sing. I know a man that had this trick of
melancholy sold a goodly manor for a song.
COUNTESS
Let me see what he writes, and when he means to come.
Opening a letter

Clown
I have no mind to Isbel since I was at court: our
old ling and our Isbels o’ the country are nothing
like your old ling and your Isbels o’ the court:
the brains of my Cupid’s knocked out, and I begin to
love, as an old man loves money, with no stomach.
COUNTESS
What have we here?
Clown
E’en that you have there.
Exit

COUNTESS
[Reads] I have sent you a daughter-in-law: she hath
recovered the king, and undone me. I have wedded
her, not bedded her; and sworn to make the ‘not’
eternal. You shall hear I am run away: know it
before the report come. If there be breadth enough
in the world, I will hold a long distance. My duty
to you. Your unfortunate son,
BERTRAM.
This is not well, rash and unbridled boy.
To fly the favours of so good a king;
To pluck his indignation on thy head
By the misprising of a maid too virtuous
For the contempt of empire.
Re-enter Clown

Clown
O madam, yonder is heavy news within between two
soldiers and my young lady!
COUNTESS
What is the matter?
Clown
Nay, there is some comfort in the news, some
comfort; your son will not be killed so soon as I
thought he would.
COUNTESS
Why should he be killed?
Clown
So say I, madam, if he run away, as I hear he does:
the danger is in standing to’t; that’s the loss of
men, though it be the getting of children. Here
they come will tell you more: for my part, I only
hear your son was run away.
Exit

Enter HELENA, and two Gentlemen

First Gentleman
Save you, good madam.
HELENA
Madam, my lord is gone, for ever gone.
Second Gentleman
Do not say so.
COUNTESS
Think upon patience. Pray you, gentlemen,
I have felt so many quirks of joy and grief,
That the first face of neither, on the start,
Can woman me unto’t: where is my son, I pray you?
Second Gentleman
Madam, he’s gone to serve the duke of Florence:
We met him thitherward; for thence we came,
And, after some dispatch in hand at court,
Thither we bend again.
HELENA
Look on his letter, madam; here’s my passport.
Reads

When thou canst get the ring upon my finger which
never shall come off, and show me a child begotten
of thy body that I am father to, then call me
husband: but in such a ‘then’ I write a ‘never.’
This is a dreadful sentence.
COUNTESS
Brought you this letter, gentlemen?
First Gentleman
Ay, madam;
And for the contents’ sake are sorry for our pain.
COUNTESS
I prithee, lady, have a better cheer;
If thou engrossest all the griefs are thine,
Thou robb’st me of a moiety: he was my son;
But I do wash his name out of my blood,
And thou art all my child. Towards Florence is he?
Second Gentleman
Ay, madam.
COUNTESS
And to be a soldier?
Second Gentleman
Such is his noble purpose; and believe ‘t,
The duke will lay upon him all the honour
That good convenience claims.
COUNTESS
Return you thither?
First Gentleman
Ay, madam, with the swiftest wing of speed.
HELENA
[Reads] Till I have no wife I have nothing in France.
‘Tis bitter.
COUNTESS
Find you that there?
HELENA
Ay, madam.
First Gentleman
‘Tis but the boldness of his hand, haply, which his
heart was not consenting to.
COUNTESS
Nothing in France, until he have no wife!
There’s nothing here that is too good for him
But only she; and she deserves a lord
That twenty such rude boys might tend upon
And call her hourly mistress. Who was with him?
First Gentleman
A servant only, and a gentleman
Which I have sometime known.
COUNTESS
Parolles, was it not?
First Gentleman
Ay, my good lady, he.
COUNTESS
A very tainted fellow, and full of wickedness.
My son corrupts a well-derived nature
With his inducement.
First Gentleman
Indeed, good lady,
The fellow has a deal of that too much,
Which holds him much to have.
COUNTESS
You’re welcome, gentlemen.
I will entreat you, when you see my son,
To tell him that his sword can never win
The honour that he loses: more I’ll entreat you
Written to bear along.
Second Gentleman
We serve you, madam,
In that and all your worthiest affairs.
COUNTESS
Not so, but as we change our courtesies.
Will you draw near!
Exeunt COUNTESS and Gentlemen

HELENA
‘Till I have no wife, I have nothing in France.’
Nothing in France, until he has no wife!
Thou shalt have none, Rousillon, none in France;
Then hast thou all again. Poor lord! is’t I
That chase thee from thy country and expose
Those tender limbs of thine to the event
Of the none-sparing war? and is it I
That drive thee from the sportive court, where thou
Wast shot at with fair eyes, to be the mark
Of smoky muskets? O you leaden messengers,
That ride upon the violent speed of fire,
Fly with false aim; move the still-peering air,
That sings with piercing; do not touch my lord.
Whoever shoots at him, I set him there;
Whoever charges on his forward breast,
I am the caitiff that do hold him to’t;
And, though I kill him not, I am the cause
His death was so effected: better ’twere
I met the ravin lion when he roar’d
With sharp constraint of hunger; better ’twere
That all the miseries which nature owes
Were mine at once. No, come thou home, Rousillon,
Whence honour but of danger wins a scar,
As oft it loses all: I will be gone;
My being here it is that holds thee hence:
Shall I stay here to do’t? no, no, although
The air of paradise did fan the house
And angels officed all: I will be gone,
That pitiful rumour may report my flight,
To consolate thine ear. Come, night; end, day!
For with the dark, poor thief, I’ll steal away.
Exit

SCENE III. Florence. Before the DUKE’s palace.
Flourish. Enter the DUKE of Florence, BERTRAM, PAROLLES, Soldiers, Drum, and Trumpets
DUKE
The general of our horse thou art; and we,
Great in our hope, lay our best love and credence
Upon thy promising fortune.
BERTRAM
Sir, it is
A charge too heavy for my strength, but yet
We’ll strive to bear it for your worthy sake
To the extreme edge of hazard.
DUKE
Then go thou forth;
And fortune play upon thy prosperous helm,
As thy auspicious mistress!
BERTRAM
This very day,
Great Mars, I put myself into thy file:
Make me but like my thoughts, and I shall prove
A lover of thy drum, hater of love.
Exeunt

SCENE IV. Rousillon. The COUNT’s palace.
Enter COUNTESS and Steward
COUNTESS
Alas! and would you take the letter of her?
Might you not know she would do as she has done,
By sending me a letter? Read it again.
Steward
[Reads]
I am Saint Jaques’ pilgrim, thither gone:
Ambitious love hath so in me offended,
That barefoot plod I the cold ground upon,
With sainted vow my faults to have amended.
Write, write, that from the bloody course of war
My dearest master, your dear son, may hie:
Bless him at home in peace, whilst I from far
His name with zealous fervor sanctify:
His taken labours bid him me forgive;
I, his despiteful Juno, sent him forth
From courtly friends, with camping foes to live,
Where death and danger dogs the heels of worth:
He is too good and fair for death and me:
Whom I myself embrace, to set him free.
COUNTESS
Ah, what sharp stings are in her mildest words!
Rinaldo, you did never lack advice so much,
As letting her pass so: had I spoke with her,
I could have well diverted her intents,
Which thus she hath prevented.
Steward
Pardon me, madam:
If I had given you this at over-night,
She might have been o’erta’en; and yet she writes,
Pursuit would be but vain.
COUNTESS
What angel shall
Bless this unworthy husband? he cannot thrive,
Unless her prayers, whom heaven delights to hear
And loves to grant, reprieve him from the wrath
Of greatest justice. Write, write, Rinaldo,
To this unworthy husband of his wife;
Let every word weigh heavy of her worth
That he does weigh too light: my greatest grief.
Though little he do feel it, set down sharply.
Dispatch the most convenient messenger:
When haply he shall hear that she is gone,
He will return; and hope I may that she,
Hearing so much, will speed her foot again,
Led hither by pure love: which of them both
Is dearest to me. I have no skill in sense
To make distinction: provide this messenger:
My heart is heavy and mine age is weak;
Grief would have tears, and sorrow bids me speak.
Exeunt

SCENE V. Florence. Without the walls. A tucket afar off.
Enter an old Widow of Florence, DIANA, VIOLENTA, and MARIANA, with other Citizens
Widow
Nay, come; for if they do approach the city, we
shall lose all the sight.
DIANA
They say the French count has done most honourable service.
Widow
It is reported that he has taken their greatest
commander; and that with his own hand he slew the
duke’s brother.
Tucket

We have lost our labour; they are gone a contrary
way: hark! you may know by their trumpets.
MARIANA
Come, let’s return again, and suffice ourselves with
the report of it. Well, Diana, take heed of this
French earl: the honour of a maid is her name; and
no legacy is so rich as honesty.
Widow
I have told my neighbour how you have been solicited
by a gentleman his companion.
MARIANA
I know that knave; hang him! one Parolles: a
filthy officer he is in those suggestions for the
young earl. Beware of them, Diana; their promises,
enticements, oaths, tokens, and all these engines of
lust, are not the things they go under: many a maid
hath been seduced by them; and the misery is,
example, that so terrible shows in the wreck of
maidenhood, cannot for all that dissuade succession,
but that they are limed with the twigs that threaten
them. I hope I need not to advise you further; but
I hope your own grace will keep you where you are,
though there were no further danger known but the
modesty which is so lost.
DIANA
You shall not need to fear me.
Widow
I hope so.
Enter HELENA, disguised like a Pilgrim

Look, here comes a pilgrim: I know she will lie at
my house; thither they send one another: I’ll
question her. God save you, pilgrim! whither are you bound?
HELENA
To Saint Jaques le Grand.
Where do the palmers lodge, I do beseech you?
Widow
At the Saint Francis here beside the port.
HELENA
Is this the way?
Widow
Ay, marry, is’t.
A march afar

Hark you! they come this way.
If you will tarry, holy pilgrim,
But till the troops come by,
I will conduct you where you shall be lodged;
The rather, for I think I know your hostess
As ample as myself.
HELENA
Is it yourself?
Widow
If you shall please so, pilgrim.
HELENA
I thank you, and will stay upon your leisure.
Widow
You came, I think, from France?
HELENA
I did so.
Widow
Here you shall see a countryman of yours
That has done worthy service.
HELENA
His name, I pray you.
DIANA
The Count Rousillon: know you such a one?
HELENA
But by the ear, that hears most nobly of him:
His face I know not.
DIANA
Whatsome’er he is,
He’s bravely taken here. He stole from France,
As ’tis reported, for the king had married him
Against his liking: think you it is so?
HELENA
Ay, surely, mere the truth: I know his lady.
DIANA
There is a gentleman that serves the count
Reports but coarsely of her.
HELENA
What’s his name?
DIANA
Monsieur Parolles.
HELENA
O, I believe with him,
In argument of praise, or to the worth
Of the great count himself, she is too mean
To have her name repeated: all her deserving
Is a reserved honesty, and that
I have not heard examined.
DIANA
Alas, poor lady!
‘Tis a hard bondage to become the wife
Of a detesting lord.
Widow
I warrant, good creature, wheresoe’er she is,
Her heart weighs sadly: this young maid might do her
A shrewd turn, if she pleased.
HELENA
How do you mean?
May be the amorous count solicits her
In the unlawful purpose.
Widow
He does indeed;
And brokes with all that can in such a suit
Corrupt the tender honour of a maid:
But she is arm’d for him and keeps her guard
In honestest defence.
MARIANA
The gods forbid else!
Widow
So, now they come:
Drum and Colours

Enter BERTRAM, PAROLLES, and the whole army

That is Antonio, the duke’s eldest son;
That, Escalus.
HELENA
Which is the Frenchman?
DIANA
He;
That with the plume: ’tis a most gallant fellow.
I would he loved his wife: if he were honester
He were much goodlier: is’t not a handsome gentleman?
HELENA
I like him well.
DIANA
‘Tis pity he is not honest: yond’s that same knave
That leads him to these places: were I his lady,
I would Poison that vile rascal.
HELENA
Which is he?
DIANA
That jack-an-apes with scarfs: why is he melancholy?
HELENA
Perchance he’s hurt i’ the battle.
PAROLLES
Lose our drum! well.
MARIANA
He’s shrewdly vexed at something: look, he has spied us.
Widow
Marry, hang you!
MARIANA
And your courtesy, for a ring-carrier!
Exeunt BERTRAM, PAROLLES, and army

Widow
The troop is past. Come, pilgrim, I will bring you
Where you shall host: of enjoin’d penitents
There’s four or five, to great Saint Jaques bound,
Already at my house.
HELENA
I humbly thank you:
Please it this matron and this gentle maid
To eat with us to-night, the charge and thanking
Shall be for me; and, to requite you further,
I will bestow some precepts of this virgin
Worthy the note.
BOTH
We’ll take your offer kindly.
Exeunt

SCENE VI. Camp before Florence.
Enter BERTRAM and the two French Lords
Second Lord
Nay, good my lord, put him to’t; let him have his
way.
First Lord
If your lordship find him not a hilding, hold me no
more in your respect.
Second Lord
On my life, my lord, a bubble.
BERTRAM
Do you think I am so far deceived in him?
Second Lord
Believe it, my lord, in mine own direct knowledge,
without any malice, but to speak of him as my
kinsman, he’s a most notable coward, an infinite and
endless liar, an hourly promise-breaker, the owner
of no one good quality worthy your lordship’s
entertainment.
First Lord
It were fit you knew him; lest, reposing too far in
his virtue, which he hath not, he might at some
great and trusty business in a main danger fail you.
BERTRAM
I would I knew in what particular action to try him.
First Lord
None better than to let him fetch off his drum,
which you hear him so confidently undertake to do.
Second Lord
I, with a troop of Florentines, will suddenly
surprise him; such I will have, whom I am sure he
knows not from the enemy: we will bind and hoodwink
him so, that he shall suppose no other but that he
is carried into the leaguer of the adversaries, when
we bring him to our own tents. Be but your lordship
present at his examination: if he do not, for the
promise of his life and in the highest compulsion of
base fear, offer to betray you and deliver all the
intelligence in his power against you, and that with
the divine forfeit of his soul upon oath, never
trust my judgment in any thing.
First Lord
O, for the love of laughter, let him fetch his drum;
he says he has a stratagem for’t: when your
lordship sees the bottom of his success in’t, and to
what metal this counterfeit lump of ore will be
melted, if you give him not John Drum’s
entertainment, your inclining cannot be removed.
Here he comes.
Enter PAROLLES

Second Lord
[Aside to BERTRAM] O, for the love of laughter,
hinder not the honour of his design: let him fetch
off his drum in any hand.
BERTRAM
How now, monsieur! this drum sticks sorely in your
disposition.
First Lord
A pox on’t, let it go; ’tis but a drum.
PAROLLES
‘But a drum’! is’t ‘but a drum’? A drum so lost!
There was excellent command,–to charge in with our
horse upon our own wings, and to rend our own soldiers!
First Lord
That was not to be blamed in the command of the
service: it was a disaster of war that Caesar
himself could not have prevented, if he had been
there to command.
BERTRAM
Well, we cannot greatly condemn our success: some
dishonour we had in the loss of that drum; but it is
not to be recovered.
PAROLLES
It might have been recovered.
BERTRAM
It might; but it is not now.
PAROLLES
It is to be recovered: but that the merit of
service is seldom attributed to the true and exact
performer, I would have that drum or another, or
‘hic jacet.’
BERTRAM
Why, if you have a stomach, to’t, monsieur: if you
think your mystery in stratagem can bring this
instrument of honour again into his native quarter,
be magnanimous in the enterprise and go on; I will
grace the attempt for a worthy exploit: if you
speed well in it, the duke shall both speak of it.
and extend to you what further becomes his
greatness, even to the utmost syllable of your
worthiness.
PAROLLES
By the hand of a soldier, I will undertake it.
BERTRAM
But you must not now slumber in it.
PAROLLES
I’ll about it this evening: and I will presently
pen down my dilemmas, encourage myself in my
certainty, put myself into my mortal preparation;
and by midnight look to hear further from me.
BERTRAM
May I be bold to acquaint his grace you are gone about it?
PAROLLES
I know not what the success will be, my lord; but
the attempt I vow.
BERTRAM
I know thou’rt valiant; and, to the possibility of
thy soldiership, will subscribe for thee. Farewell.
PAROLLES
I love not many words.
Exit

Second Lord
No more than a fish loves water. Is not this a
strange fellow, my lord, that so confidently seems
to undertake this business, which he knows is not to
be done; damns himself to do and dares better be
damned than to do’t?
First Lord
You do not know him, my lord, as we do: certain it
is that he will steal himself into a man’s favour and
for a week escape a great deal of discoveries; but
when you find him out, you have him ever after.
BERTRAM
Why, do you think he will make no deed at all of
this that so seriously he does address himself unto?
Second Lord
None in the world; but return with an invention and
clap upon you two or three probable lies: but we
have almost embossed him; you shall see his fall
to-night; for indeed he is not for your lordship’s respect.
First Lord
We’ll make you some sport with the fox ere we case
him. He was first smoked by the old lord Lafeu:
when his disguise and he is parted, tell me what a
sprat you shall find him; which you shall see this
very night.
Second Lord
I must go look my twigs: he shall be caught.
BERTRAM
Your brother he shall go along with me.
Second Lord
As’t please your lordship: I’ll leave you.
Exit

BERTRAM
Now will I lead you to the house, and show you
The lass I spoke of.
First Lord
But you say she’s honest.
BERTRAM
That’s all the fault: I spoke with her but once
And found her wondrous cold; but I sent to her,
By this same coxcomb that we have i’ the wind,
Tokens and letters which she did re-send;
And this is all I have done. She’s a fair creature:
Will you go see her?
First Lord
With all my heart, my lord.
Exeunt

SCENE VII. Florence. The Widow’s house.
Enter HELENA and Widow
HELENA
If you misdoubt me that I am not she,
I know not how I shall assure you further,
But I shall lose the grounds I work upon.
Widow
Though my estate be fallen, I was well born,
Nothing acquainted with these businesses;
And would not put my reputation now
In any staining act.
HELENA
Nor would I wish you.
First, give me trust, the count he is my husband,
And what to your sworn counsel I have spoken
Is so from word to word; and then you cannot,
By the good aid that I of you shall borrow,
Err in bestowing it.
Widow
I should believe you:
For you have show’d me that which well approves
You’re great in fortune.
HELENA
Take this purse of gold,
And let me buy your friendly help thus far,
Which I will over-pay and pay again
When I have found it. The count he wooes your daughter,
Lays down his wanton siege before her beauty,
Resolved to carry her: let her in fine consent,
As we’ll direct her how ’tis best to bear it.
Now his important blood will nought deny
That she’ll demand: a ring the county wears,
That downward hath succeeded in his house
From son to son, some four or five descents
Since the first father wore it: this ring he holds
In most rich choice; yet in his idle fire,
To buy his will, it would not seem too dear,
Howe’er repented after.
Widow
Now I see
The bottom of your purpose.
HELENA
You see it lawful, then: it is no more,
But that your daughter, ere she seems as won,
Desires this ring; appoints him an encounter;
In fine, delivers me to fill the time,
Herself most chastely absent: after this,
To marry her, I’ll add three thousand crowns
To what is passed already.
Widow
I have yielded:
Instruct my daughter how she shall persever,
That time and place with this deceit so lawful
May prove coherent. Every night he comes
With musics of all sorts and songs composed
To her unworthiness: it nothing steads us
To chide him from our eaves; for he persists
As if his life lay on’t.
HELENA
Why then to-night
Let us assay our plot; which, if it speed,
Is wicked meaning in a lawful deed
And lawful meaning in a lawful act,
Where both not sin, and yet a sinful fact:
But let’s about it.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. Without the Florentine camp.
Enter Second French Lord, with five or six other Soldiers in ambush
Second Lord
He can come no other way but by this hedge-corner.
When you sally upon him, speak what terrible
language you will: though you understand it not
yourselves, no matter; for we must not seem to
understand him, unless some one among us whom we
must produce for an interpreter.
First Soldier
Good captain, let me be the interpreter.
Second Lord
Art not acquainted with him? knows he not thy voice?
First Soldier
No, sir, I warrant you.
Second Lord
But what linsey-woolsey hast thou to speak to us again?
First Soldier
E’en such as you speak to me.
Second Lord
He must think us some band of strangers i’ the
adversary’s entertainment. Now he hath a smack of
all neighbouring languages; therefore we must every
one be a man of his own fancy, not to know what we
speak one to another; so we seem to know, is to
know straight our purpose: choughs’ language,
gabble enough, and good enough. As for you,
interpreter, you must seem very politic. But couch,
ho! here he comes, to beguile two hours in a sleep,
and then to return and swear the lies he forges.
Enter PAROLLES

PAROLLES
Ten o’clock: within these three hours ’twill be
time enough to go home. What shall I say I have
done? It must be a very plausive invention that
carries it: they begin to smoke me; and disgraces
have of late knocked too often at my door. I find
my tongue is too foolhardy; but my heart hath the
fear of Mars before it and of his creatures, not
daring the reports of my tongue.
Second Lord
This is the first truth that e’er thine own tongue
was guilty of.
PAROLLES
What the devil should move me to undertake the
recovery of this drum, being not ignorant of the
impossibility, and knowing I had no such purpose? I
must give myself some hurts, and say I got them in
exploit: yet slight ones will not carry it; they
will say, ‘Came you off with so little?’ and great
ones I dare not give. Wherefore, what’s the
instance? Tongue, I must put you into a
butter-woman’s mouth and buy myself another of
Bajazet’s mule, if you prattle me into these perils.
Second Lord
Is it possible he should know what he is, and be
that he is?
PAROLLES
I would the cutting of my garments would serve the
turn, or the breaking of my Spanish sword.
Second Lord
We cannot afford you so.
PAROLLES
Or the baring of my beard; and to say it was in
stratagem.
Second Lord
‘Twould not do.
PAROLLES
Or to drown my clothes, and say I was stripped.
Second Lord
Hardly serve.
PAROLLES
Though I swore I leaped from the window of the citadel.
Second Lord
How deep?
PAROLLES
Thirty fathom.
Second Lord
Three great oaths would scarce make that be believed.
PAROLLES
I would I had any drum of the enemy’s: I would swear
I recovered it.
Second Lord
You shall hear one anon.
PAROLLES
A drum now of the enemy’s,–
Alarum within

Second Lord
Throca movousus, cargo, cargo, cargo.
All
Cargo, cargo, cargo, villiando par corbo, cargo.
PAROLLES
O, ransom, ransom! do not hide mine eyes.
They seize and blindfold him

First Soldier
Boskos thromuldo boskos.
PAROLLES
I know you are the Muskos’ regiment:
And I shall lose my life for want of language;
If there be here German, or Dane, low Dutch,
Italian, or French, let him speak to me; I’ll
Discover that which shall undo the Florentine.
First Soldier
Boskos vauvado: I understand thee, and can speak
thy tongue. Kerely bonto, sir, betake thee to thy
faith, for seventeen poniards are at thy bosom.
PAROLLES
O!
First Soldier
O, pray, pray, pray! Manka revania dulche.
Second Lord
Oscorbidulchos volivorco.
First Soldier
The general is content to spare thee yet;
And, hoodwink’d as thou art, will lead thee on
To gather from thee: haply thou mayst inform
Something to save thy life.
PAROLLES
O, let me live!
And all the secrets of our camp I’ll show,
Their force, their purposes; nay, I’ll speak that
Which you will wonder at.
First Soldier
But wilt thou faithfully?
PAROLLES
If I do not, damn me.
First Soldier
Acordo linta.
Come on; thou art granted space.
Exit, with PAROLLES guarded. A short alarum within

Second Lord
Go, tell the Count Rousillon, and my brother,
We have caught the woodcock, and will keep him muffled
Till we do hear from them.
Second Soldier
Captain, I will.
Second Lord
A’ will betray us all unto ourselves:
Inform on that.
Second Soldier
So I will, sir.
Second Lord
Till then I’ll keep him dark and safely lock’d.
Exeunt

SCENE II. Florence. The Widow’s house.
Enter BERTRAM and DIANA
BERTRAM
They told me that your name was Fontibell.
DIANA
No, my good lord, Diana.
BERTRAM
Titled goddess;
And worth it, with addition! But, fair soul,
In your fine frame hath love no quality?
If quick fire of youth light not your mind,
You are no maiden, but a monument:
When you are dead, you should be such a one
As you are now, for you are cold and stem;
And now you should be as your mother was
When your sweet self was got.
DIANA
She then was honest.
BERTRAM
So should you be.
DIANA
No:
My mother did but duty; such, my lord,
As you owe to your wife.
BERTRAM
No more o’ that;
I prithee, do not strive against my vows:
I was compell’d to her; but I love thee
By love’s own sweet constraint, and will for ever
Do thee all rights of service.
DIANA
Ay, so you serve us
Till we serve you; but when you have our roses,
You barely leave our thorns to prick ourselves
And mock us with our bareness.
BERTRAM
How have I sworn!
DIANA
‘Tis not the many oaths that makes the truth,
But the plain single vow that is vow’d true.
What is not holy, that we swear not by,
But take the High’st to witness: then, pray you, tell me,
If I should swear by God’s great attributes,
I loved you dearly, would you believe my oaths,
When I did love you ill? This has no holding,
To swear by him whom I protest to love,
That I will work against him: therefore your oaths
Are words and poor conditions, but unseal’d,
At least in my opinion.
BERTRAM
Change it, change it;
Be not so holy-cruel: love is holy;
And my integrity ne’er knew the crafts
That you do charge men with. Stand no more off,
But give thyself unto my sick desires,
Who then recover: say thou art mine, and ever
My love as it begins shall so persever.
DIANA
I see that men make ropes in such a scarre
That we’ll forsake ourselves. Give me that ring.
BERTRAM
I’ll lend it thee, my dear; but have no power
To give it from me.
DIANA
Will you not, my lord?
BERTRAM
It is an honour ‘longing to our house,
Bequeathed down from many ancestors;
Which were the greatest obloquy i’ the world
In me to lose.
DIANA
Mine honour’s such a ring:
My chastity’s the jewel of our house,
Bequeathed down from many ancestors;
Which were the greatest obloquy i’ the world
In me to lose: thus your own proper wisdom
Brings in the champion Honour on my part,
Against your vain assault.
BERTRAM
Here, take my ring:
My house, mine honour, yea, my life, be thine,
And I’ll be bid by thee.
DIANA
When midnight comes, knock at my chamber-window:
I’ll order take my mother shall not hear.
Now will I charge you in the band of truth,
When you have conquer’d my yet maiden bed,
Remain there but an hour, nor speak to me:
My reasons are most strong; and you shall know them
When back again this ring shall be deliver’d:
And on your finger in the night I’ll put
Another ring, that what in time proceeds
May token to the future our past deeds.
Adieu, till then; then, fail not. You have won
A wife of me, though there my hope be done.
BERTRAM
A heaven on earth I have won by wooing thee.
Exit

DIANA
For which live long to thank both heaven and me!
You may so in the end.
My mother told me just how he would woo,
As if she sat in ‘s heart; she says all men
Have the like oaths: he had sworn to marry me
When his wife’s dead; therefore I’ll lie with him
When I am buried. Since Frenchmen are so braid,
Marry that will, I live and die a maid:
Only in this disguise I think’t no sin
To cozen him that would unjustly win.
Exit

SCENE III. The Florentine camp.
Enter the two French Lords and some two or three Soldiers
First Lord
You have not given him his mother’s letter?
Second Lord
I have delivered it an hour since: there is
something in’t that stings his nature; for on the
reading it he changed almost into another man.
First Lord
He has much worthy blame laid upon him for shaking
off so good a wife and so sweet a lady.
Second Lord
Especially he hath incurred the everlasting
displeasure of the king, who had even tuned his
bounty to sing happiness to him. I will tell you a
thing, but you shall let it dwell darkly with you.
First Lord
When you have spoken it, ’tis dead, and I am the
grave of it.
Second Lord
He hath perverted a young gentlewoman here in
Florence, of a most chaste renown; and this night he
fleshes his will in the spoil of her honour: he hath
given her his monumental ring, and thinks himself
made in the unchaste composition.
First Lord
Now, God delay our rebellion! as we are ourselves,
what things are we!
Second Lord
Merely our own traitors. And as in the common course
of all treasons, we still see them reveal
themselves, till they attain to their abhorred ends,
so he that in this action contrives against his own
nobility, in his proper stream o’erflows himself.
First Lord
Is it not meant damnable in us, to be trumpeters of
our unlawful intents? We shall not then have his
company to-night?
Second Lord
Not till after midnight; for he is dieted to his hour.
First Lord
That approaches apace; I would gladly have him see
his company anatomized, that he might take a measure
of his own judgments, wherein so curiously he had
set this counterfeit.
Second Lord
We will not meddle with him till he come; for his
presence must be the whip of the other.
First Lord
In the mean time, what hear you of these wars?
Second Lord
I hear there is an overture of peace.
First Lord
Nay, I assure you, a peace concluded.
Second Lord
What will Count Rousillon do then? will he travel
higher, or return again into France?
First Lord
I perceive, by this demand, you are not altogether
of his council.
Second Lord
Let it be forbid, sir; so should I be a great deal
of his act.
First Lord
Sir, his wife some two months since fled from his
house: her pretence is a pilgrimage to Saint Jaques
le Grand; which holy undertaking with most austere
sanctimony she accomplished; and, there residing the
tenderness of her nature became as a prey to her
grief; in fine, made a groan of her last breath, and
now she sings in heaven.
Second Lord
How is this justified?
First Lord
The stronger part of it by her own letters, which
makes her story true, even to the point of her
death: her death itself, which could not be her
office to say is come, was faithfully confirmed by
the rector of the place.
Second Lord
Hath the count all this intelligence?
First Lord
Ay, and the particular confirmations, point from
point, so to the full arming of the verity.
Second Lord
I am heartily sorry that he’ll be glad of this.
First Lord
How mightily sometimes we make us comforts of our losses!
Second Lord
And how mightily some other times we drown our gain
in tears! The great dignity that his valour hath
here acquired for him shall at home be encountered
with a shame as ample.
First Lord
The web of our life is of a mingled yarn, good and
ill together: our virtues would be proud, if our
faults whipped them not; and our crimes would
despair, if they were not cherished by our virtues.
Enter a Messenger

How now! where’s your master?
Servant
He met the duke in the street, sir, of whom he hath
taken a solemn leave: his lordship will next
morning for France. The duke hath offered him
letters of commendations to the king.
Second Lord
They shall be no more than needful there, if they
were more than they can commend.
First Lord
They cannot be too sweet for the king’s tartness.
Here’s his lordship now.
Enter BERTRAM

How now, my lord! is’t not after midnight?
BERTRAM
I have to-night dispatched sixteen businesses, a
month’s length a-piece, by an abstract of success:
I have congied with the duke, done my adieu with his
nearest; buried a wife, mourned for her; writ to my
lady mother I am returning; entertained my convoy;
and between these main parcels of dispatch effected
many nicer needs; the last was the greatest, but
that I have not ended yet.
Second Lord
If the business be of any difficulty, and this
morning your departure hence, it requires haste of
your lordship.
BERTRAM
I mean, the business is not ended, as fearing to
hear of it hereafter. But shall we have this
dialogue between the fool and the soldier? Come,
bring forth this counterfeit module, he has deceived
me, like a double-meaning prophesier.
Second Lord
Bring him forth: has sat i’ the stocks all night,
poor gallant knave.
BERTRAM
No matter: his heels have deserved it, in usurping
his spurs so long. How does he carry himself?
Second Lord
I have told your lordship already, the stocks carry
him. But to answer you as you would be understood;
he weeps like a wench that had shed her milk: he
hath confessed himself to Morgan, whom he supposes
to be a friar, from the time of his remembrance to
this very instant disaster of his setting i’ the
stocks: and what think you he hath confessed?
BERTRAM
Nothing of me, has a’?
Second Lord
His confession is taken, and it shall be read to his
face: if your lordship be in’t, as I believe you
are, you must have the patience to hear it.
Enter PAROLLES guarded, and First Soldier

BERTRAM
A plague upon him! muffled! he can say nothing of
me: hush, hush!
First Lord
Hoodman comes! Portotartarosa
First Soldier
He calls for the tortures: what will you say
without ’em?
PAROLLES
I will confess what I know without constraint: if
ye pinch me like a pasty, I can say no more.
First Soldier
Bosko chimurcho.
First Lord
Boblibindo chicurmurco.
First Soldier
You are a merciful general. Our general bids you
answer to what I shall ask you out of a note.
PAROLLES
And truly, as I hope to live.
First Soldier
[Reads] ‘First demand of him how many horse the
duke is strong.’ What say you to that?
PAROLLES
Five or six thousand; but very weak and
unserviceable: the troops are all scattered, and
the commanders very poor rogues, upon my reputation
and credit and as I hope to live.
First Soldier
Shall I set down your answer so?
PAROLLES
Do: I’ll take the sacrament on’t, how and which way you will.
BERTRAM
All’s one to him. What a past-saving slave is this!
First Lord
You’re deceived, my lord: this is Monsieur
Parolles, the gallant militarist,–that was his own
phrase,–that had the whole theoric of war in the
knot of his scarf, and the practise in the chape of
his dagger.
Second Lord
I will never trust a man again for keeping his sword
clean. nor believe he can have every thing in him
by wearing his apparel neatly.
First Soldier
Well, that’s set down.
PAROLLES
Five or six thousand horse, I said,– I will say
true,–or thereabouts, set down, for I’ll speak truth.
First Lord
He’s very near the truth in this.
BERTRAM
But I con him no thanks for’t, in the nature he
delivers it.
PAROLLES
Poor rogues, I pray you, say.
First Soldier
Well, that’s set down.
PAROLLES
I humbly thank you, sir: a truth’s a truth, the
rogues are marvellous poor.
First Soldier
[Reads] ‘Demand of him, of what strength they are
a-foot.’ What say you to that?
PAROLLES
By my troth, sir, if I were to live this present
hour, I will tell true. Let me see: Spurio, a
hundred and fifty; Sebastian, so many; Corambus, so
many; Jaques, so many; Guiltian, Cosmo, Lodowick,
and Gratii, two hundred and fifty each; mine own
company, Chitopher, Vaumond, Bentii, two hundred and
fifty each: so that the muster-file, rotten and
sound, upon my life, amounts not to fifteen thousand
poll; half of the which dare not shake snow from off
their cassocks, lest they shake themselves to pieces.
BERTRAM
What shall be done to him?
First Lord
Nothing, but let him have thanks. Demand of him my
condition, and what credit I have with the duke.
First Soldier
Well, that’s set down.
Reads

‘You shall demand of him, whether one Captain Dumain
be i’ the camp, a Frenchman; what his reputation is
with the duke; what his valour, honesty, and
expertness in wars; or whether he thinks it were not
possible, with well-weighing sums of gold, to
corrupt him to revolt.’ What say you to this? what
do you know of it?
PAROLLES
I beseech you, let me answer to the particular of
the inter’gatories: demand them singly.
First Soldier
Do you know this Captain Dumain?
PAROLLES
I know him: a’ was a botcher’s ‘prentice in Paris,
from whence he was whipped for getting the shrieve’s
fool with child,–a dumb innocent, that could not
say him nay.
BERTRAM
Nay, by your leave, hold your hands; though I know
his brains are forfeit to the next tile that falls.
First Soldier
Well, is this captain in the duke of Florence’s camp?
PAROLLES
Upon my knowledge, he is, and lousy.
First Lord
Nay look not so upon me; we shall hear of your
lordship anon.
First Soldier
What is his reputation with the duke?
PAROLLES
The duke knows him for no other but a poor officer
of mine; and writ to me this other day to turn him
out o’ the band: I think I have his letter in my pocket.
First Soldier
Marry, we’ll search.
PAROLLES
In good sadness, I do not know; either it is there,
or it is upon a file with the duke’s other letters
in my tent.
First Soldier
Here ’tis; here’s a paper: shall I read it to you?
PAROLLES
I do not know if it be it or no.
BERTRAM
Our interpreter does it well.
First Lord
Excellently.
First Soldier
[Reads] ‘Dian, the count’s a fool, and full of gold,’–
PAROLLES
That is not the duke’s letter, sir; that is an
advertisement to a proper maid in Florence, one
Diana, to take heed of the allurement of one Count
Rousillon, a foolish idle boy, but for all that very
ruttish: I pray you, sir, put it up again.
First Soldier
Nay, I’ll read it first, by your favour.
PAROLLES
My meaning in’t, I protest, was very honest in the
behalf of the maid; for I knew the young count to be
a dangerous and lascivious boy, who is a whale to
virginity and devours up all the fry it finds.
BERTRAM
Damnable both-sides rogue!
First Soldier
[Reads] ‘When he swears oaths, bid him drop gold, and take it;
After he scores, he never pays the score:
Half won is match well made; match, and well make it;
He ne’er pays after-debts, take it before;
And say a soldier, Dian, told thee this,
Men are to mell with, boys are not to kiss:
For count of this, the count’s a fool, I know it,
Who pays before, but not when he does owe it.
Thine, as he vowed to thee in thine ear,
PAROLLES.’
BERTRAM
He shall be whipped through the army with this rhyme
in’s forehead.
Second Lord
This is your devoted friend, sir, the manifold
linguist and the armipotent soldier.
BERTRAM
I could endure any thing before but a cat, and now
he’s a cat to me.
First Soldier
I perceive, sir, by the general’s looks, we shall be
fain to hang you.
PAROLLES
My life, sir, in any case: not that I am afraid to
die; but that, my offences being many, I would
repent out the remainder of nature: let me live,
sir, in a dungeon, i’ the stocks, or any where, so I may live.
First Soldier
We’ll see what may be done, so you confess freely;
therefore, once more to this Captain Dumain: you
have answered to his reputation with the duke and to
his valour: what is his honesty?
PAROLLES
He will steal, sir, an egg out of a cloister: for
rapes and ravishments he parallels Nessus: he
professes not keeping of oaths; in breaking ’em he
is stronger than Hercules: he will lie, sir, with
such volubility, that you would think truth were a
fool: drunkenness is his best virtue, for he will
be swine-drunk; and in his sleep he does little
harm, save to his bed-clothes about him; but they
know his conditions and lay him in straw. I have but
little more to say, sir, of his honesty: he has
every thing that an honest man should not have; what
an honest man should have, he has nothing.
First Lord
I begin to love him for this.
BERTRAM
For this description of thine honesty? A pox upon
him for me, he’s more and more a cat.
First Soldier
What say you to his expertness in war?
PAROLLES
Faith, sir, he has led the drum before the English
tragedians; to belie him, I will not, and more of
his soldiership I know not; except, in that country
he had the honour to be the officer at a place there
called Mile-end, to instruct for the doubling of
files: I would do the man what honour I can, but of
this I am not certain.
First Lord
He hath out-villained villany so far, that the
rarity redeems him.
BERTRAM
A pox on him, he’s a cat still.
First Soldier
His qualities being at this poor price, I need not
to ask you if gold will corrupt him to revolt.
PAROLLES
Sir, for a quart d’ecu he will sell the fee-simple
of his salvation, the inheritance of it; and cut the
entail from all remainders, and a perpetual
succession for it perpetually.
First Soldier
What’s his brother, the other Captain Dumain?
Second Lord
Why does be ask him of me?
First Soldier
What’s he?
PAROLLES
E’en a crow o’ the same nest; not altogether so
great as the first in goodness, but greater a great
deal in evil: he excels his brother for a coward,
yet his brother is reputed one of the best that is:
in a retreat he outruns any lackey; marry, in coming
on he has the cramp.
First Soldier
If your life be saved, will you undertake to betray
the Florentine?
PAROLLES
Ay, and the captain of his horse, Count Rousillon.
First Soldier
I’ll whisper with the general, and know his pleasure.
PAROLLES
[Aside] I’ll no more drumming; a plague of all
drums! Only to seem to deserve well, and to
beguile the supposition of that lascivious young boy
the count, have I run into this danger. Yet who
would have suspected an ambush where I was taken?
First Soldier
There is no remedy, sir, but you must die: the
general says, you that have so traitorously
discovered the secrets of your army and made such
pestiferous reports of men very nobly held, can
serve the world for no honest use; therefore you
must die. Come, headsman, off with his head.
PAROLLES
O Lord, sir, let me live, or let me see my death!
First Lord
That shall you, and take your leave of all your friends.
Unblinding him

So, look about you: know you any here?
BERTRAM
Good morrow, noble captain.
Second Lord
God bless you, Captain Parolles.
First Lord
God save you, noble captain.
Second Lord
Captain, what greeting will you to my Lord Lafeu?
I am for France.
First Lord
Good captain, will you give me a copy of the sonnet
you writ to Diana in behalf of the Count Rousillon?
an I were not a very coward, I’ld compel it of you:
but fare you well.
Exeunt BERTRAM and Lords

First Soldier
You are undone, captain, all but your scarf; that
has a knot on’t yet
PAROLLES
Who cannot be crushed with a plot?
First Soldier
If you could find out a country where but women were
that had received so much shame, you might begin an
impudent nation. Fare ye well, sir; I am for France
too: we shall speak of you there.
Exit with Soldiers

PAROLLES
Yet am I thankful: if my heart were great,
‘Twould burst at this. Captain I’ll be no more;
But I will eat and drink, and sleep as soft
As captain shall: simply the thing I am
Shall make me live. Who knows himself a braggart,
Let him fear this, for it will come to pass
that every braggart shall be found an ass.
Rust, sword? cool, blushes! and, Parolles, live
Safest in shame! being fool’d, by foolery thrive!
There’s place and means for every man alive.
I’ll after them.
Exit

SCENE IV. Florence. The Widow’s house.
Enter HELENA, Widow, and DIANA
HELENA
That you may well perceive I have not wrong’d you,
One of the greatest in the Christian world
Shall be my surety; ‘fore whose throne ’tis needful,
Ere I can perfect mine intents, to kneel:
Time was, I did him a desired office,
Dear almost as his life; which gratitude
Through flinty Tartar’s bosom would peep forth,
And answer, thanks: I duly am inform’d
His grace is at Marseilles; to which place
We have convenient convoy. You must know
I am supposed dead: the army breaking,
My husband hies him home; where, heaven aiding,
And by the leave of my good lord the king,
We’ll be before our welcome.
Widow
Gentle madam,
You never had a servant to whose trust
Your business was more welcome.
HELENA
Nor you, mistress,
Ever a friend whose thoughts more truly labour
To recompense your love: doubt not but heaven
Hath brought me up to be your daughter’s dower,
As it hath fated her to be my motive
And helper to a husband. But, O strange men!
That can such sweet use make of what they hate,
When saucy trusting of the cozen’d thoughts
Defiles the pitchy night: so lust doth play
With what it loathes for that which is away.
But more of this hereafter. You, Diana,
Under my poor instructions yet must suffer
Something in my behalf.
DIANA
Let death and honesty
Go with your impositions, I am yours
Upon your will to suffer.
HELENA
Yet, I pray you:
But with the word the time will bring on summer,
When briers shall have leaves as well as thorns,
And be as sweet as sharp. We must away;
Our wagon is prepared, and time revives us:
All’s well that ends well; still the fine’s the crown;
Whate’er the course, the end is the renown.
Exeunt

SCENE V. Rousillon. The COUNT’s palace.
Enter COUNTESS, LAFEU, and Clown
LAFEU
No, no, no, your son was misled with a snipt-taffeta
fellow there, whose villanous saffron would have
made all the unbaked and doughy youth of a nation in
his colour: your daughter-in-law had been alive at
this hour, and your son here at home, more advanced
by the king than by that red-tailed humble-bee I speak of.
COUNTESS
I would I had not known him; it was the death of the
most virtuous gentlewoman that ever nature had
praise for creating. If she had partaken of my
flesh, and cost me the dearest groans of a mother, I
could not have owed her a more rooted love.
LAFEU
‘Twas a good lady, ’twas a good lady: we may pick a
thousand salads ere we light on such another herb.
Clown
Indeed, sir, she was the sweet marjoram of the
salad, or rather, the herb of grace.
LAFEU
They are not herbs, you knave; they are nose-herbs.
Clown
I am no great Nebuchadnezzar, sir; I have not much
skill in grass.
LAFEU
Whether dost thou profess thyself, a knave or a fool?
Clown
A fool, sir, at a woman’s service, and a knave at a man’s.
LAFEU
Your distinction?
Clown
I would cozen the man of his wife and do his service.
LAFEU
So you were a knave at his service, indeed.
Clown
And I would give his wife my bauble, sir, to do her service.
LAFEU
I will subscribe for thee, thou art both knave and fool.
Clown
At your service.
LAFEU
No, no, no.
Clown
Why, sir, if I cannot serve you, I can serve as
great a prince as you are.
LAFEU
Who’s that? a Frenchman?
Clown
Faith, sir, a’ has an English name; but his fisnomy
is more hotter in France than there.
LAFEU
What prince is that?
Clown
The black prince, sir; alias, the prince of
darkness; alias, the devil.
LAFEU
Hold thee, there’s my purse: I give thee not this
to suggest thee from thy master thou talkest of;
serve him still.
Clown
I am a woodland fellow, sir, that always loved a
great fire; and the master I speak of ever keeps a
good fire. But, sure, he is the prince of the
world; let his nobility remain in’s court. I am for
the house with the narrow gate, which I take to be
too little for pomp to enter: some that humble
themselves may; but the many will be too chill and
tender, and they’ll be for the flowery way that
leads to the broad gate and the great fire.
LAFEU
Go thy ways, I begin to be aweary of thee; and I
tell thee so before, because I would not fall out
with thee. Go thy ways: let my horses be well
looked to, without any tricks.
Clown
If I put any tricks upon ’em, sir, they shall be
jades’ tricks; which are their own right by the law of nature.
Exit

LAFEU
A shrewd knave and an unhappy.
COUNTESS
So he is. My lord that’s gone made himself much
sport out of him: by his authority he remains here,
which he thinks is a patent for his sauciness; and,
indeed, he has no pace, but runs where he will.
LAFEU
I like him well; ’tis not amiss. And I was about to
tell you, since I heard of the good lady’s death and
that my lord your son was upon his return home, I
moved the king my master to speak in the behalf of
my daughter; which, in the minority of them both,
his majesty, out of a self-gracious remembrance, did
first propose: his highness hath promised me to do
it: and, to stop up the displeasure he hath
conceived against your son, there is no fitter
matter. How does your ladyship like it?
COUNTESS
With very much content, my lord; and I wish it
happily effected.
LAFEU
His highness comes post from Marseilles, of as able
body as when he numbered thirty: he will be here
to-morrow, or I am deceived by him that in such
intelligence hath seldom failed.
COUNTESS
It rejoices me, that I hope I shall see him ere I
die. I have letters that my son will be here
to-night: I shall beseech your lordship to remain
with me till they meet together.
LAFEU
Madam, I was thinking with what manners I might
safely be admitted.
COUNTESS
You need but plead your honourable privilege.
LAFEU
Lady, of that I have made a bold charter; but I
thank my God it holds yet.
Re-enter Clown

Clown
O madam, yonder’s my lord your son with a patch of
velvet on’s face: whether there be a scar under’t
or no, the velvet knows; but ’tis a goodly patch of
velvet: his left cheek is a cheek of two pile and a
half, but his right cheek is worn bare.
LAFEU
A scar nobly got, or a noble scar, is a good livery
of honour; so belike is that.
Clown
But it is your carbonadoed face.
LAFEU
Let us go see your son, I pray you: I long to talk
with the young noble soldier.
Clown
Faith there’s a dozen of ’em, with delicate fine
hats and most courteous feathers, which bow the head
and nod at every man.
Exeunt

ACT V
SCENE I. Marseilles. A street.
Enter HELENA, Widow, and DIANA, with two Attendants
HELENA
But this exceeding posting day and night
Must wear your spirits low; we cannot help it:
But since you have made the days and nights as one,
To wear your gentle limbs in my affairs,
Be bold you do so grow in my requital
As nothing can unroot you. In happy time;
Enter a Gentleman

This man may help me to his majesty’s ear,
If he would spend his power. God save you, sir.
Gentleman
And you.
HELENA
Sir, I have seen you in the court of France.
Gentleman
I have been sometimes there.
HELENA
I do presume, sir, that you are not fallen
From the report that goes upon your goodness;
An therefore, goaded with most sharp occasions,
Which lay nice manners by, I put you to
The use of your own virtues, for the which
I shall continue thankful.
Gentleman
What’s your will?
HELENA
That it will please you
To give this poor petition to the king,
And aid me with that store of power you have
To come into his presence.
Gentleman
The king’s not here.
HELENA
Not here, sir!
Gentleman
Not, indeed:
He hence removed last night and with more haste
Than is his use.
Widow
Lord, how we lose our pains!
HELENA
ALL’S WELL THAT ENDS WELL yet,
Though time seem so adverse and means unfit.
I do beseech you, whither is he gone?
Gentleman
Marry, as I take it, to Rousillon;
Whither I am going.
HELENA
I do beseech you, sir,
Since you are like to see the king before me,
Commend the paper to his gracious hand,
Which I presume shall render you no blame
But rather make you thank your pains for it.
I will come after you with what good speed
Our means will make us means.
Gentleman
This I’ll do for you.
HELENA
And you shall find yourself to be well thank’d,
Whate’er falls more. We must to horse again.
Go, go, provide.
Exeunt

SCENE II. Rousillon. Before the COUNT’s palace.
Enter Clown, and PAROLLES, following
PAROLLES
Good Monsieur Lavache, give my Lord Lafeu this
letter: I have ere now, sir, been better known to
you, when I have held familiarity with fresher
clothes; but I am now, sir, muddied in fortune’s
mood, and smell somewhat strong of her strong
displeasure.
Clown
Truly, fortune’s displeasure is but sluttish, if it
smell so strongly as thou speakest of: I will
henceforth eat no fish of fortune’s buttering.
Prithee, allow the wind.
PAROLLES
Nay, you need not to stop your nose, sir; I spake
but by a metaphor.
Clown
Indeed, sir, if your metaphor stink, I will stop my
nose; or against any man’s metaphor. Prithee, get
thee further.
PAROLLES
Pray you, sir, deliver me this paper.
Clown
Foh! prithee, stand away: a paper from fortune’s
close-stool to give to a nobleman! Look, here he
comes himself.
Enter LAFEU

Here is a purr of fortune’s, sir, or of fortune’s
cat,–but not a musk-cat,–that has fallen into the
unclean fishpond of her displeasure, and, as he
says, is muddied withal: pray you, sir, use the
carp as you may; for he looks like a poor, decayed,
ingenious, foolish, rascally knave. I do pity his
distress in my similes of comfort and leave him to
your lordship.
Exit

PAROLLES
My lord, I am a man whom fortune hath cruelly
scratched.
LAFEU
And what would you have me to do? ‘Tis too late to
pare her nails now. Wherein have you played the
knave with fortune, that she should scratch you, who
of herself is a good lady and would not have knaves
thrive long under her? There’s a quart d’ecu for
you: let the justices make you and fortune friends:
I am for other business.
PAROLLES
I beseech your honour to hear me one single word.
LAFEU
You beg a single penny more: come, you shall ha’t;
save your word.
PAROLLES
My name, my good lord, is Parolles.
LAFEU
You beg more than ‘word,’ then. Cox my passion!
give me your hand. How does your drum?
PAROLLES
O my good lord, you were the first that found me!
LAFEU
Was I, in sooth? and I was the first that lost thee.
PAROLLES
It lies in you, my lord, to bring me in some grace,
for you did bring me out.
LAFEU
Out upon thee, knave! dost thou put upon me at once
both the office of God and the devil? One brings
thee in grace and the other brings thee out.
Trumpets sound

The king’s coming; I know by his trumpets. Sirrah,
inquire further after me; I had talk of you last
night: though you are a fool and a knave, you shall
eat; go to, follow.
PAROLLES
I praise God for you.
Exeunt

SCENE III. Rousillon. The COUNT’s palace.
Flourish. Enter KING, COUNTESS, LAFEU, the two French Lords, with Attendants
KING
We lost a jewel of her; and our esteem
Was made much poorer by it: but your son,
As mad in folly, lack’d the sense to know
Her estimation home.
COUNTESS
‘Tis past, my liege;
And I beseech your majesty to make it
Natural rebellion, done i’ the blaze of youth;
When oil and fire, too strong for reason’s force,
O’erbears it and burns on.
KING
My honour’d lady,
I have forgiven and forgotten all;
Though my revenges were high bent upon him,
And watch’d the time to shoot.
LAFEU
This I must say,
But first I beg my pardon, the young lord
Did to his majesty, his mother and his lady
Offence of mighty note; but to himself
The greatest wrong of all. He lost a wife
Whose beauty did astonish the survey
Of richest eyes, whose words all ears took captive,
Whose dear perfection hearts that scorn’d to serve
Humbly call’d mistress.
KING
Praising what is lost
Makes the remembrance dear. Well, call him hither;
We are reconciled, and the first view shall kill
All repetition: let him not ask our pardon;
The nature of his great offence is dead,
And deeper than oblivion we do bury
The incensing relics of it: let him approach,
A stranger, no offender; and inform him
So ’tis our will he should.
Gentleman
I shall, my liege.
Exit

KING
What says he to your daughter? have you spoke?
LAFEU
All that he is hath reference to your highness.
KING
Then shall we have a match. I have letters sent me
That set him high in fame.
Enter BERTRAM

LAFEU
He looks well on’t.
KING
I am not a day of season,
For thou mayst see a sunshine and a hail
In me at once: but to the brightest beams
Distracted clouds give way; so stand thou forth;
The time is fair again.
BERTRAM
My high-repented blames,
Dear sovereign, pardon to me.
KING
All is whole;
Not one word more of the consumed time.
Let’s take the instant by the forward top;
For we are old, and on our quick’st decrees
The inaudible and noiseless foot of Time
Steals ere we can effect them. You remember
The daughter of this lord?
BERTRAM
Admiringly, my liege, at first
I stuck my choice upon her, ere my heart
Durst make too bold a herald of my tongue
Where the impression of mine eye infixing,
Contempt his scornful perspective did lend me,
Which warp’d the line of every other favour;
Scorn’d a fair colour, or express’d it stolen;
Extended or contracted all proportions
To a most hideous object: thence it came
That she whom all men praised and whom myself,
Since I have lost, have loved, was in mine eye
The dust that did offend it.
KING
Well excused:
That thou didst love her, strikes some scores away
From the great compt: but love that comes too late,
Like a remorseful pardon slowly carried,
To the great sender turns a sour offence,
Crying, ‘That’s good that’s gone.’ Our rash faults
Make trivial price of serious things we have,
Not knowing them until we know their grave:
Oft our displeasures, to ourselves unjust,
Destroy our friends and after weep their dust
Our own love waking cries to see what’s done,
While shame full late sleeps out the afternoon.
Be this sweet Helen’s knell, and now forget her.
Send forth your amorous token for fair Maudlin:
The main consents are had; and here we’ll stay
To see our widower’s second marriage-day.
COUNTESS
Which better than the first, O dear heaven, bless!
Or, ere they meet, in me, O nature, cesse!
LAFEU
Come on, my son, in whom my house’s name
Must be digested, give a favour from you
To sparkle in the spirits of my daughter,
That she may quickly come.
BERTRAM gives a ring

By my old beard,
And every hair that’s on’t, Helen, that’s dead,
Was a sweet creature: such a ring as this,
The last that e’er I took her at court,
I saw upon her finger.
BERTRAM
Hers it was not.
KING
Now, pray you, let me see it; for mine eye,
While I was speaking, oft was fasten’d to’t.
This ring was mine; and, when I gave it Helen,
I bade her, if her fortunes ever stood
Necessitied to help, that by this token
I would relieve her. Had you that craft, to reave
her
Of what should stead her most?
BERTRAM
My gracious sovereign,
Howe’er it pleases you to take it so,
The ring was never hers.
COUNTESS
Son, on my life,
I have seen her wear it; and she reckon’d it
At her life’s rate.
LAFEU
I am sure I saw her wear it.
BERTRAM
You are deceived, my lord; she never saw it:
In Florence was it from a casement thrown me,
Wrapp’d in a paper, which contain’d the name
Of her that threw it: noble she was, and thought
I stood engaged: but when I had subscribed
To mine own fortune and inform’d her fully
I could not answer in that course of honour
As she had made the overture, she ceased
In heavy satisfaction and would never
Receive the ring again.
KING
Plutus himself,
That knows the tinct and multiplying medicine,
Hath not in nature’s mystery more science
Than I have in this ring: ’twas mine, ’twas Helen’s,
Whoever gave it you. Then, if you know
That you are well acquainted with yourself,
Confess ’twas hers, and by what rough enforcement
You got it from her: she call’d the saints to surety
That she would never put it from her finger,
Unless she gave it to yourself in bed,
Where you have never come, or sent it us
Upon her great disaster.
BERTRAM
She never saw it.
KING
Thou speak’st it falsely, as I love mine honour;
And makest conjectural fears to come into me
Which I would fain shut out. If it should prove
That thou art so inhuman,–’twill not prove so;–
And yet I know not: thou didst hate her deadly,
And she is dead; which nothing, but to close
Her eyes myself, could win me to believe,
More than to see this ring. Take him away.
Guards seize BERTRAM

My fore-past proofs, howe’er the matter fall,
Shall tax my fears of little vanity,
Having vainly fear’d too little. Away with him!
We’ll sift this matter further.
BERTRAM
If you shall prove
This ring was ever hers, you shall as easy
Prove that I husbanded her bed in Florence,
Where yet she never was.
Exit, guarded

KING
I am wrapp’d in dismal thinkings.
Enter a Gentleman

Gentleman
Gracious sovereign,
Whether I have been to blame or no, I know not:
Here’s a petition from a Florentine,
Who hath for four or five removes come short
To tender it herself. I undertook it,
Vanquish’d thereto by the fair grace and speech
Of the poor suppliant, who by this I know
Is here attending: her business looks in her
With an importing visage; and she told me,
In a sweet verbal brief, it did concern
Your highness with herself.
KING
[Reads] Upon his many protestations to marry me
when his wife was dead, I blush to say it, he won
me. Now is the Count Rousillon a widower: his vows
are forfeited to me, and my honour’s paid to him. He
stole from Florence, taking no leave, and I follow
him to his country for justice: grant it me, O
king! in you it best lies; otherwise a seducer
flourishes, and a poor maid is undone.
DIANA CAPILET.
LAFEU
I will buy me a son-in-law in a fair, and toll for
this: I’ll none of him.
KING
The heavens have thought well on thee Lafeu,
To bring forth this discovery. Seek these suitors:
Go speedily and bring again the count.
I am afeard the life of Helen, lady,
Was foully snatch’d.
COUNTESS
Now, justice on the doers!
Re-enter BERTRAM, guarded

KING
I wonder, sir, sith wives are monsters to you,
And that you fly them as you swear them lordship,
Yet you desire to marry.
Enter Widow and DIANA

What woman’s that?
DIANA
I am, my lord, a wretched Florentine,
Derived from the ancient Capilet:
My suit, as I do understand, you know,
And therefore know how far I may be pitied.
Widow
I am her mother, sir, whose age and honour
Both suffer under this complaint we bring,
And both shall cease, without your remedy.
KING
Come hither, count; do you know these women?
BERTRAM
My lord, I neither can nor will deny
But that I know them: do they charge me further?
DIANA
Why do you look so strange upon your wife?
BERTRAM
She’s none of mine, my lord.
DIANA
If you shall marry,
You give away this hand, and that is mine;
You give away heaven’s vows, and those are mine;
You give away myself, which is known mine;
For I by vow am so embodied yours,
That she which marries you must marry me,
Either both or none.
LAFEU
Your reputation comes too short for my daughter; you
are no husband for her.
BERTRAM
My lord, this is a fond and desperate creature,
Whom sometime I have laugh’d with: let your highness
Lay a more noble thought upon mine honour
Than for to think that I would sink it here.
KING
Sir, for my thoughts, you have them ill to friend
Till your deeds gain them: fairer prove your honour
Than in my thought it lies.
DIANA
Good my lord,
Ask him upon his oath, if he does think
He had not my virginity.
KING
What say’st thou to her?
BERTRAM
She’s impudent, my lord,
And was a common gamester to the camp.
DIANA
He does me wrong, my lord; if I were so,
He might have bought me at a common price:
Do not believe him. O, behold this ring,
Whose high respect and rich validity
Did lack a parallel; yet for all that
He gave it to a commoner o’ the camp,
If I be one.
COUNTESS
He blushes, and ’tis it:
Of six preceding ancestors, that gem,
Conferr’d by testament to the sequent issue,
Hath it been owed and worn. This is his wife;
That ring’s a thousand proofs.
KING
Methought you said
You saw one here in court could witness it.
DIANA
I did, my lord, but loath am to produce
So bad an instrument: his name’s Parolles.
LAFEU
I saw the man to-day, if man he be.
KING
Find him, and bring him hither.
Exit an Attendant

BERTRAM
What of him?
He’s quoted for a most perfidious slave,
With all the spots o’ the world tax’d and debosh’d;
Whose nature sickens but to speak a truth.
Am I or that or this for what he’ll utter,
That will speak any thing?
KING
She hath that ring of yours.
BERTRAM
I think she has: certain it is I liked her,
And boarded her i’ the wanton way of youth:
She knew her distance and did angle for me,
Madding my eagerness with her restraint,
As all impediments in fancy’s course
Are motives of more fancy; and, in fine,
Her infinite cunning, with her modern grace,
Subdued me to her rate: she got the ring;
And I had that which any inferior might
At market-price have bought.
DIANA
I must be patient:
You, that have turn’d off a first so noble wife,
May justly diet me. I pray you yet;
Since you lack virtue, I will lose a husband;
Send for your ring, I will return it home,
And give me mine again.
BERTRAM
I have it not.
KING
What ring was yours, I pray you?
DIANA
Sir, much like
The same upon your finger.
KING
Know you this ring? this ring was his of late.
DIANA
And this was it I gave him, being abed.
KING
The story then goes false, you threw it him
Out of a casement.
DIANA
I have spoke the truth.
Enter PAROLLES

BERTRAM
My lord, I do confess the ring was hers.
KING
You boggle shrewdly, every feather stars you.
Is this the man you speak of?
DIANA
Ay, my lord.
KING
Tell me, sirrah, but tell me true, I charge you,
Not fearing the displeasure of your master,
Which on your just proceeding I’ll keep off,
By him and by this woman here what know you?
PAROLLES
So please your majesty, my master hath been an
honourable gentleman: tricks he hath had in him,
which gentlemen have.
KING
Come, come, to the purpose: did he love this woman?
PAROLLES
Faith, sir, he did love her; but how?
KING
How, I pray you?
PAROLLES
He did love her, sir, as a gentleman loves a woman.
KING
How is that?
PAROLLES
He loved her, sir, and loved her not.
KING
As thou art a knave, and no knave. What an
equivocal companion is this!
PAROLLES
I am a poor man, and at your majesty’s command.
LAFEU
He’s a good drum, my lord, but a naughty orator.
DIANA
Do you know he promised me marriage?
PAROLLES
Faith, I know more than I’ll speak.
KING
But wilt thou not speak all thou knowest?
PAROLLES
Yes, so please your majesty. I did go between them,
as I said; but more than that, he loved her: for
indeed he was mad for her, and talked of Satan and
of Limbo and of Furies and I know not what: yet I
was in that credit with them at that time that I
knew of their going to bed, and of other motions,
as promising her marriage, and things which would
derive me ill will to speak of; therefore I will not
speak what I know.
KING
Thou hast spoken all already, unless thou canst say
they are married: but thou art too fine in thy
evidence; therefore stand aside.
This ring, you say, was yours?
DIANA
Ay, my good lord.
KING
Where did you buy it? or who gave it you?
DIANA
It was not given me, nor I did not buy it.
KING
Who lent it you?
DIANA
It was not lent me neither.
KING
Where did you find it, then?
DIANA
I found it not.
KING
If it were yours by none of all these ways,
How could you give it him?
DIANA
I never gave it him.
LAFEU
This woman’s an easy glove, my lord; she goes off
and on at pleasure.
KING
This ring was mine; I gave it his first wife.
DIANA
It might be yours or hers, for aught I know.
KING
Take her away; I do not like her now;
To prison with her: and away with him.
Unless thou tell’st me where thou hadst this ring,
Thou diest within this hour.
DIANA
I’ll never tell you.
KING
Take her away.
DIANA
I’ll put in bail, my liege.
KING
I think thee now some common customer.
DIANA
By Jove, if ever I knew man, ’twas you.
KING
Wherefore hast thou accused him all this while?
DIANA
Because he’s guilty, and he is not guilty:
He knows I am no maid, and he’ll swear to’t;
I’ll swear I am a maid, and he knows not.
Great king, I am no strumpet, by my life;
I am either maid, or else this old man’s wife.
KING
She does abuse our ears: to prison with her.
DIANA
Good mother, fetch my bail. Stay, royal sir:
Exit Widow

The jeweller that owes the ring is sent for,
And he shall surety me. But for this lord,
Who hath abused me, as he knows himself,
Though yet he never harm’d me, here I quit him:
He knows himself my bed he hath defiled;
And at that time he got his wife with child:
Dead though she be, she feels her young one kick:
So there’s my riddle: one that’s dead is quick:
And now behold the meaning.
Re-enter Widow, with HELENA

KING
Is there no exorcist
Beguiles the truer office of mine eyes?
Is’t real that I see?
HELENA
No, my good lord;
‘Tis but the shadow of a wife you see,
The name and not the thing.
BERTRAM
Both, both. O, pardon!
HELENA
O my good lord, when I was like this maid,
I found you wondrous kind. There is your ring;
And, look you, here’s your letter; this it says:
‘When from my finger you can get this ring
And are by me with child,’ & c. This is done:
Will you be mine, now you are doubly won?
BERTRAM
If she, my liege, can make me know this clearly,
I’ll love her dearly, ever, ever dearly.
HELENA
If it appear not plain and prove untrue,
Deadly divorce step between me and you!
O my dear mother, do I see you living?
LAFEU
Mine eyes smell onions; I shall weep anon:
To PAROLLES

Good Tom Drum, lend me a handkercher: so,
I thank thee: wait on me home, I’ll make sport with thee:
Let thy courtesies alone, they are scurvy ones.
KING
Let us from point to point this story know,
To make the even truth in pleasure flow.
To DIANA

If thou be’st yet a fresh uncropped flower,
Choose thou thy husband, and I’ll pay thy dower;
For I can guess that by thy honest aid
Thou keep’st a wife herself, thyself a maid.
Of that and all the progress, more or less,
Resolvedly more leisure shall express:
All yet seems well; and if it end so meet,
The bitter past, more welcome is the sweet.
Flourish

EPILOGUE
KING
The king’s a beggar, now the play is done:
All is well ended, if this suit be won,
That you express content; which we will pay,
With strife to please you, day exceeding day:
Ours be your patience then, and yours our parts;
Your gentle hands lend us, and take our hearts.
Exeunt

CT ISCENE I. Rousillon. The COUNT’s palace.

Measure for Measure
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ACT I
SCENE I. An apartment in the DUKE’S palace.
Enter DUKE VINCENTIO, ESCALUS, Lords and Attendants
DUKE VINCENTIO
Escalus.
ESCALUS
My lord.
DUKE VINCENTIO
Of government the properties to unfold,
Would seem in me to affect speech and discourse;
Since I am put to know that your own science
Exceeds, in that, the lists of all advice
My strength can give you: then no more remains,
But that to your sufficiency as your Worth is able,
And let them work. The nature of our people,
Our city’s institutions, and the terms
For common justice, you’re as pregnant in
As art and practise hath enriched any
That we remember. There is our commission,
From which we would not have you warp. Call hither,
I say, bid come before us Angelo.
Exit an Attendant

What figure of us think you he will bear?
For you must know, we have with special soul
Elected him our absence to supply,
Lent him our terror, dress’d him with our love,
And given his deputation all the organs
Of our own power: what think you of it?
ESCALUS
If any in Vienna be of worth
To undergo such ample grace and honour,
It is Lord Angelo.
DUKE VINCENTIO
Look where he comes.
Enter ANGELO

ANGELO
Always obedient to your grace’s will,
I come to know your pleasure.
DUKE VINCENTIO
Angelo,
There is a kind of character in thy life,
That to the observer doth thy history
Fully unfold. Thyself and thy belongings
Are not thine own so proper as to waste
Thyself upon thy virtues, they on thee.
Heaven doth with us as we with torches do,
Not light them for themselves; for if our virtues
Did not go forth of us, ’twere all alike
As if we had them not. Spirits are not finely touch’d
But to fine issues, nor Nature never lends
The smallest scruple of her excellence
But, like a thrifty goddess, she determines
Herself the glory of a creditor,
Both thanks and use. But I do bend my speech
To one that can my part in him advertise;
Hold therefore, Angelo:–
In our remove be thou at full ourself;
Mortality and mercy in Vienna
Live in thy tongue and heart: old Escalus,
Though first in question, is thy secondary.
Take thy commission.
ANGELO
Now, good my lord,
Let there be some more test made of my metal,
Before so noble and so great a figure
Be stamp’d upon it.
DUKE VINCENTIO
No more evasion:
We have with a leaven’d and prepared choice
Proceeded to you; therefore take your honours.
Our haste from hence is of so quick condition
That it prefers itself and leaves unquestion’d
Matters of needful value. We shall write to you,
As time and our concernings shall importune,
How it goes with us, and do look to know
What doth befall you here. So, fare you well;
To the hopeful execution do I leave you
Of your commissions.
ANGELO
Yet give leave, my lord,
That we may bring you something on the way.
DUKE VINCENTIO
My haste may not admit it;
Nor need you, on mine honour, have to do
With any scruple; your scope is as mine own
So to enforce or qualify the laws
As to your soul seems good. Give me your hand:
I’ll privily away. I love the people,
But do not like to stage me to their eyes:
Through it do well, I do not relish well
Their loud applause and Aves vehement;
Nor do I think the man of safe discretion
That does affect it. Once more, fare you well.
ANGELO
The heavens give safety to your purposes!
ESCALUS
Lead forth and bring you back in happiness!
DUKE
I thank you. Fare you well.
Exit

ESCALUS
I shall desire you, sir, to give me leave
To have free speech with you; and it concerns me
To look into the bottom of my place:
A power I have, but of what strength and nature
I am not yet instructed.
ANGELO
‘Tis so with me. Let us withdraw together,
And we may soon our satisfaction have
Touching that point.
ESCALUS
I’ll wait upon your honour.
Exeunt

SCENE II. A Street.
Enter LUCIO and two Gentlemen
LUCIO
If the duke with the other dukes come not to
composition with the King of Hungary, why then all
the dukes fall upon the king.
First Gentleman
Heaven grant us its peace, but not the King of
Hungary’s!
Second Gentleman
Amen.
LUCIO
Thou concludest like the sanctimonious pirate, that
went to sea with the Ten Commandments, but scraped
one out of the table.
Second Gentleman
‘Thou shalt not steal’?
LUCIO
Ay, that he razed.
First Gentleman
Why, ’twas a commandment to command the captain and
all the rest from their functions: they put forth
to steal. There’s not a soldier of us all, that, in
the thanksgiving before meat, do relish the petition
well that prays for peace.
Second Gentleman
I never heard any soldier dislike it.
LUCIO
I believe thee; for I think thou never wast where
grace was said.
Second Gentleman
No? a dozen times at least.
First Gentleman
What, in metre?
LUCIO
In any proportion or in any language.
First Gentleman
I think, or in any religion.
LUCIO
Ay, why not? Grace is grace, despite of all
controversy: as, for example, thou thyself art a
wicked villain, despite of all grace.
First Gentleman
Well, there went but a pair of shears between us.
LUCIO
I grant; as there may between the lists and the
velvet. Thou art the list.
First Gentleman
And thou the velvet: thou art good velvet; thou’rt
a three-piled piece, I warrant thee: I had as lief
be a list of an English kersey as be piled, as thou
art piled, for a French velvet. Do I speak
feelingly now?
LUCIO
I think thou dost; and, indeed, with most painful
feeling of thy speech: I will, out of thine own
confession, learn to begin thy health; but, whilst I
live, forget to drink after thee.
First Gentleman
I think I have done myself wrong, have I not?
Second Gentleman
Yes, that thou hast, whether thou art tainted or free.
LUCIO
Behold, behold. where Madam Mitigation comes! I
have purchased as many diseases under her roof as come to–
Second Gentleman
To what, I pray?
LUCIO
Judge.
Second Gentleman
To three thousand dolours a year.
First Gentleman
Ay, and more.
LUCIO
A French crown more.
First Gentleman
Thou art always figuring diseases in me; but thou
art full of error; I am sound.
LUCIO
Nay, not as one would say, healthy; but so sound as
things that are hollow: thy bones are hollow;
impiety has made a feast of thee.
Enter MISTRESS OVERDONE

First Gentleman
How now! which of your hips has the most profound sciatica?
MISTRESS OVERDONE
Well, well; there’s one yonder arrested and carried
to prison was worth five thousand of you all.
Second Gentleman
Who’s that, I pray thee?
MISTRESS OVERDONE
Marry, sir, that’s Claudio, Signior Claudio.
First Gentleman
Claudio to prison? ’tis not so.
MISTRESS OVERDONE
Nay, but I know ’tis so: I saw him arrested, saw
him carried away; and, which is more, within these
three days his head to be chopped off.
LUCIO
But, after all this fooling, I would not have it so.
Art thou sure of this?
MISTRESS OVERDONE
I am too sure of it: and it is for getting Madam
Julietta with child.
LUCIO
Believe me, this may be: he promised to meet me two
hours since, and he was ever precise in
promise-keeping.
Second Gentleman
Besides, you know, it draws something near to the
speech we had to such a purpose.
First Gentleman
But, most of all, agreeing with the proclamation.
LUCIO
Away! let’s go learn the truth of it.
Exeunt LUCIO and Gentlemen

MISTRESS OVERDONE
Thus, what with the war, what with the sweat, what
with the gallows and what with poverty, I am
custom-shrunk.
Enter POMPEY

How now! what’s the news with you?
POMPEY
Yonder man is carried to prison.
MISTRESS OVERDONE
Well; what has he done?
POMPEY
A woman.
MISTRESS OVERDONE
But what’s his offence?
POMPEY
Groping for trouts in a peculiar river.
MISTRESS OVERDONE
What, is there a maid with child by him?
POMPEY
No, but there’s a woman with maid by him. You have
not heard of the proclamation, have you?
MISTRESS OVERDONE
What proclamation, man?
POMPEY
All houses in the suburbs of Vienna must be plucked down.
MISTRESS OVERDONE
And what shall become of those in the city?
POMPEY
They shall stand for seed: they had gone down too,
but that a wise burgher put in for them.
MISTRESS OVERDONE
But shall all our houses of resort in the suburbs be
pulled down?
POMPEY
To the ground, mistress.
MISTRESS OVERDONE
Why, here’s a change indeed in the commonwealth!
What shall become of me?
POMPEY
Come; fear you not: good counsellors lack no
clients: though you change your place, you need not
change your trade; I’ll be your tapster still.
Courage! there will be pity taken on you: you that
have worn your eyes almost out in the service, you
will be considered.
MISTRESS OVERDONE
What’s to do here, Thomas tapster? let’s withdraw.
POMPEY
Here comes Signior Claudio, led by the provost to
prison; and there’s Madam Juliet.
Exeunt

Enter Provost, CLAUDIO, JULIET, and Officers

CLAUDIO
Fellow, why dost thou show me thus to the world?
Bear me to prison, where I am committed.
Provost
I do it not in evil disposition,
But from Lord Angelo by special charge.
CLAUDIO
Thus can the demigod Authority
Make us pay down for our offence by weight
The words of heaven; on whom it will, it will;
On whom it will not, so; yet still ’tis just.
Re-enter LUCIO and two Gentlemen

LUCIO
Why, how now, Claudio! whence comes this restraint?
CLAUDIO
From too much liberty, my Lucio, liberty:
As surfeit is the father of much fast,
So every scope by the immoderate use
Turns to restraint. Our natures do pursue,
Like rats that ravin down their proper bane,
A thirsty evil; and when we drink we die.
LUCIO
If could speak so wisely under an arrest, I would
send for certain of my creditors: and yet, to say
the truth, I had as lief have the foppery of freedom
as the morality of imprisonment. What’s thy
offence, Claudio?
CLAUDIO
What but to speak of would offend again.
LUCIO
What, is’t murder?
CLAUDIO
No.
LUCIO
Lechery?
CLAUDIO
Call it so.
Provost
Away, sir! you must go.
CLAUDIO
One word, good friend. Lucio, a word with you.
LUCIO
A hundred, if they’ll do you any good.
Is lechery so look’d after?
CLAUDIO
Thus stands it with me: upon a true contract
I got possession of Julietta’s bed:
You know the lady; she is fast my wife,
Save that we do the denunciation lack
Of outward order: this we came not to,
Only for propagation of a dower
Remaining in the coffer of her friends,
From whom we thought it meet to hide our love
Till time had made them for us. But it chances
The stealth of our most mutual entertainment
With character too gross is writ on Juliet.
LUCIO
With child, perhaps?
CLAUDIO
Unhappily, even so.
And the new deputy now for the duke–
Whether it be the fault and glimpse of newness,
Or whether that the body public be
A horse whereon the governor doth ride,
Who, newly in the seat, that it may know
He can command, lets it straight feel the spur;
Whether the tyranny be in his place,
Or in his emmence that fills it up,
I stagger in:–but this new governor
Awakes me all the enrolled penalties
Which have, like unscour’d armour, hung by the wall
So long that nineteen zodiacs have gone round
And none of them been worn; and, for a name,
Now puts the drowsy and neglected act
Freshly on me: ’tis surely for a name.
LUCIO
I warrant it is: and thy head stands so tickle on
thy shoulders that a milkmaid, if she be in love,
may sigh it off. Send after the duke and appeal to
him.
CLAUDIO
I have done so, but he’s not to be found.
I prithee, Lucio, do me this kind service:
This day my sister should the cloister enter
And there receive her approbation:
Acquaint her with the danger of my state:
Implore her, in my voice, that she make friends
To the strict deputy; bid herself assay him:
I have great hope in that; for in her youth
There is a prone and speechless dialect,
Such as move men; beside, she hath prosperous art
When she will play with reason and discourse,
And well she can persuade.
LUCIO
I pray she may; as well for the encouragement of the
like, which else would stand under grievous
imposition, as for the enjoying of thy life, who I
would be sorry should be thus foolishly lost at a
game of tick-tack. I’ll to her.
CLAUDIO
I thank you, good friend Lucio.
LUCIO
Within two hours.
CLAUDIO
Come, officer, away!
Exeunt

SCENE III. A monastery.
Enter DUKE VINCENTIO and FRIAR THOMAS
DUKE VINCENTIO
No, holy father; throw away that thought;
Believe not that the dribbling dart of love
Can pierce a complete bosom. Why I desire thee
To give me secret harbour, hath a purpose
More grave and wrinkled than the aims and ends
Of burning youth.
FRIAR THOMAS
May your grace speak of it?
DUKE VINCENTIO
My holy sir, none better knows than you
How I have ever loved the life removed
And held in idle price to haunt assemblies
Where youth, and cost, and witless bravery keeps.
I have deliver’d to Lord Angelo,
A man of stricture and firm abstinence,
My absolute power and place here in Vienna,
And he supposes me travell’d to Poland;
For so I have strew’d it in the common ear,
And so it is received. Now, pious sir,
You will demand of me why I do this?
FRIAR THOMAS
Gladly, my lord.
DUKE VINCENTIO
We have strict statutes and most biting laws.
The needful bits and curbs to headstrong weeds,
Which for this nineteen years we have let slip;
Even like an o’ergrown lion in a cave,
That goes not out to prey. Now, as fond fathers,
Having bound up the threatening twigs of birch,
Only to stick it in their children’s sight
For terror, not to use, in time the rod
Becomes more mock’d than fear’d; so our decrees,
Dead to infliction, to themselves are dead;
And liberty plucks justice by the nose;
The baby beats the nurse, and quite athwart
Goes all decorum.
FRIAR THOMAS
It rested in your grace
To unloose this tied-up justice when you pleased:
And it in you more dreadful would have seem’d
Than in Lord Angelo.
DUKE VINCENTIO
I do fear, too dreadful:
Sith ’twas my fault to give the people scope,
‘Twould be my tyranny to strike and gall them
For what I bid them do: for we bid this be done,
When evil deeds have their permissive pass
And not the punishment. Therefore indeed, my father,
I have on Angelo imposed the office;
Who may, in the ambush of my name, strike home,
And yet my nature never in the fight
To do in slander. And to behold his sway,
I will, as ’twere a brother of your order,
Visit both prince and people: therefore, I prithee,
Supply me with the habit and instruct me
How I may formally in person bear me
Like a true friar. More reasons for this action
At our more leisure shall I render you;
Only, this one: Lord Angelo is precise;
Stands at a guard with envy; scarce confesses
That his blood flows, or that his appetite
Is more to bread than stone: hence shall we see,
If power change purpose, what our seemers be.
Exeunt

SCENE IV. A nunnery.
Enter ISABELLA and FRANCISCA
ISABELLA
And have you nuns no farther privileges?
FRANCISCA
Are not these large enough?
ISABELLA
Yes, truly; I speak not as desiring more;
But rather wishing a more strict restraint
Upon the sisterhood, the votarists of Saint Clare.
LUCIO
[Within] Ho! Peace be in this place!
ISABELLA
Who’s that which calls?
FRANCISCA
It is a man’s voice. Gentle Isabella,
Turn you the key, and know his business of him;
You may, I may not; you are yet unsworn.
When you have vow’d, you must not speak with men
But in the presence of the prioress:
Then, if you speak, you must not show your face,
Or, if you show your face, you must not speak.
He calls again; I pray you, answer him.
Exit

ISABELLA
Peace and prosperity! Who is’t that calls
Enter LUCIO

LUCIO
Hail, virgin, if you be, as those cheek-roses
Proclaim you are no less! Can you so stead me
As bring me to the sight of Isabella,
A novice of this place and the fair sister
To her unhappy brother Claudio?
ISABELLA
Why ‘her unhappy brother’? let me ask,
The rather for I now must make you know
I am that Isabella and his sister.
LUCIO
Gentle and fair, your brother kindly greets you:
Not to be weary with you, he’s in prison.
ISABELLA
Woe me! for what?
LUCIO
For that which, if myself might be his judge,
He should receive his punishment in thanks:
He hath got his friend with child.
ISABELLA
Sir, make me not your story.
LUCIO
It is true.
I would not–though ’tis my familiar sin
With maids to seem the lapwing and to jest,
Tongue far from heart–play with all virgins so:
I hold you as a thing ensky’d and sainted.
By your renouncement an immortal spirit,
And to be talk’d with in sincerity,
As with a saint.
ISABELLA
You do blaspheme the good in mocking me.
LUCIO
Do not believe it. Fewness and truth, ’tis thus:
Your brother and his lover have embraced:
As those that feed grow full, as blossoming time
That from the seedness the bare fallow brings
To teeming foison, even so her plenteous womb
Expresseth his full tilth and husbandry.
ISABELLA
Some one with child by him? My cousin Juliet?
LUCIO
Is she your cousin?
ISABELLA
Adoptedly; as school-maids change their names
By vain though apt affection.
LUCIO
She it is.
ISABELLA
O, let him marry her.
LUCIO
This is the point.
The duke is very strangely gone from hence;
Bore many gentlemen, myself being one,
In hand and hope of action: but we do learn
By those that know the very nerves of state,
His givings-out were of an infinite distance
From his true-meant design. Upon his place,
And with full line of his authority,
Governs Lord Angelo; a man whose blood
Is very snow-broth; one who never feels
The wanton stings and motions of the sense,
But doth rebate and blunt his natural edge
With profits of the mind, study and fast.
He–to give fear to use and liberty,
Which have for long run by the hideous law,
As mice by lions–hath pick’d out an act,
Under whose heavy sense your brother’s life
Falls into forfeit: he arrests him on it;
And follows close the rigour of the statute,
To make him an example. All hope is gone,
Unless you have the grace by your fair prayer
To soften Angelo: and that’s my pith of business
‘Twixt you and your poor brother.
ISABELLA
Doth he so seek his life?
LUCIO
Has censured him
Already; and, as I hear, the provost hath
A warrant for his execution.
ISABELLA
Alas! what poor ability’s in me
To do him good?
LUCIO
Assay the power you have.
ISABELLA
My power? Alas, I doubt–
LUCIO
Our doubts are traitors
And make us lose the good we oft might win
By fearing to attempt. Go to Lord Angelo,
And let him learn to know, when maidens sue,
Men give like gods; but when they weep and kneel,
All their petitions are as freely theirs
As they themselves would owe them.
ISABELLA
I’ll see what I can do.
LUCIO
But speedily.
ISABELLA
I will about it straight;
No longer staying but to give the mother
Notice of my affair. I humbly thank you:
Commend me to my brother: soon at night
I’ll send him certain word of my success.
LUCIO
I take my leave of you.
ISABELLA
Good sir, adieu.
Exeunt

ACT II
SCENE I. A hall In ANGELO’s house.
Enter ANGELO, ESCALUS, and a Justice, Provost, Officers, and other Attendants, behind
ANGELO
We must not make a scarecrow of the law,
Setting it up to fear the birds of prey,
And let it keep one shape, till custom make it
Their perch and not their terror.
ESCALUS
Ay, but yet
Let us be keen, and rather cut a little,
Than fall, and bruise to death. Alas, this gentleman
Whom I would save, had a most noble father!
Let but your honour know,
Whom I believe to be most strait in virtue,
That, in the working of your own affections,
Had time cohered with place or place with wishing,
Or that the resolute acting of your blood
Could have attain’d the effect of your own purpose,
Whether you had not sometime in your life
Err’d in this point which now you censure him,
And pull’d the law upon you.
ANGELO
‘Tis one thing to be tempted, Escalus,
Another thing to fall. I not deny,
The jury, passing on the prisoner’s life,
May in the sworn twelve have a thief or two
Guiltier than him they try. What’s open made to justice,
That justice seizes: what know the laws
That thieves do pass on thieves? ‘Tis very pregnant,
The jewel that we find, we stoop and take’t
Because we see it; but what we do not see
We tread upon, and never think of it.
You may not so extenuate his offence
For I have had such faults; but rather tell me,
When I, that censure him, do so offend,
Let mine own judgment pattern out my death,
And nothing come in partial. Sir, he must die.
ESCALUS
Be it as your wisdom will.
ANGELO
Where is the provost?
Provost
Here, if it like your honour.
ANGELO
See that Claudio
Be executed by nine to-morrow morning:
Bring him his confessor, let him be prepared;
For that’s the utmost of his pilgrimage.
Exit Provost

ESCALUS
[Aside] Well, heaven forgive him! and forgive us all!
Some rise by sin, and some by virtue fall:
Some run from brakes of ice, and answer none:
And some condemned for a fault alone.
Enter ELBOW, and Officers with FROTH and POMPEY

ELBOW
Come, bring them away: if these be good people in
a commonweal that do nothing but use their abuses in
common houses, I know no law: bring them away.
ANGELO
How now, sir! What’s your name? and what’s the matter?
ELBOW
If it Please your honour, I am the poor duke’s
constable, and my name is Elbow: I do lean upon
justice, sir, and do bring in here before your good
honour two notorious benefactors.
ANGELO
Benefactors? Well; what benefactors are they? are
they not malefactors?
ELBOW
If it? please your honour, I know not well what they
are: but precise villains they are, that I am sure
of; and void of all profanation in the world that
good Christians ought to have.
ESCALUS
This comes off well; here’s a wise officer.
ANGELO
Go to: what quality are they of? Elbow is your
name? why dost thou not speak, Elbow?
POMPEY
He cannot, sir; he’s out at elbow.
ANGELO
What are you, sir?
ELBOW
He, sir! a tapster, sir; parcel-bawd; one that
serves a bad woman; whose house, sir, was, as they
say, plucked down in the suburbs; and now she
professes a hot-house, which, I think, is a very ill house too.
ESCALUS
How know you that?
ELBOW
My wife, sir, whom I detest before heaven and your honour,–
ESCALUS
How? thy wife?
ELBOW
Ay, sir; whom, I thank heaven, is an honest woman,–
ESCALUS
Dost thou detest her therefore?
ELBOW
I say, sir, I will detest myself also, as well as
she, that this house, if it be not a bawd’s house,
it is pity of her life, for it is a naughty house.
ESCALUS
How dost thou know that, constable?
ELBOW
Marry, sir, by my wife; who, if she had been a woman
cardinally given, might have been accused in
fornication, adultery, and all uncleanliness there.
ESCALUS
By the woman’s means?
ELBOW
Ay, sir, by Mistress Overdone’s means: but as she
spit in his face, so she defied him.
POMPEY
Sir, if it please your honour, this is not so.
ELBOW
Prove it before these varlets here, thou honourable
man; prove it.
ESCALUS
Do you hear how he misplaces?
POMPEY
Sir, she came in great with child; and longing,
saving your honour’s reverence, for stewed prunes;
sir, we had but two in the house, which at that very
distant time stood, as it were, in a fruit-dish, a
dish of some three-pence; your honours have seen
such dishes; they are not China dishes, but very
good dishes,–
ESCALUS
Go to, go to: no matter for the dish, sir.
POMPEY
No, indeed, sir, not of a pin; you are therein in
the right: but to the point. As I say, this
Mistress Elbow, being, as I say, with child, and
being great-bellied, and longing, as I said, for
prunes; and having but two in the dish, as I said,
Master Froth here, this very man, having eaten the
rest, as I said, and, as I say, paying for them very
honestly; for, as you know, Master Froth, I could
not give you three-pence again.
FROTH
No, indeed.
POMPEY
Very well: you being then, if you be remembered,
cracking the stones of the foresaid prunes,–
FROTH
Ay, so I did indeed.
POMPEY
Why, very well; I telling you then, if you be
remembered, that such a one and such a one were past
cure of the thing you wot of, unless they kept very
good diet, as I told you,–
FROTH
All this is true.
POMPEY
Why, very well, then,–
ESCALUS
Come, you are a tedious fool: to the purpose. What
was done to Elbow’s wife, that he hath cause to
complain of? Come me to what was done to her.
POMPEY
Sir, your honour cannot come to that yet.
ESCALUS
No, sir, nor I mean it not.
POMPEY
Sir, but you shall come to it, by your honour’s
leave. And, I beseech you, look into Master Froth
here, sir; a man of four-score pound a year; whose
father died at Hallowmas: was’t not at Hallowmas,
Master Froth?
FROTH
All-hallond eve.
POMPEY
Why, very well; I hope here be truths. He, sir,
sitting, as I say, in a lower chair, sir; ’twas in
the Bunch of Grapes, where indeed you have a delight
to sit, have you not?
FROTH
I have so; because it is an open room and good for winter.
POMPEY
Why, very well, then; I hope here be truths.
ANGELO
This will last out a night in Russia,
When nights are longest there: I’ll take my leave.
And leave you to the hearing of the cause;
Hoping you’ll find good cause to whip them all.
ESCALUS
I think no less. Good morrow to your lordship.
Exit ANGELO

Now, sir, come on: what was done to Elbow’s wife, once more?
POMPEY
Once, sir? there was nothing done to her once.
ELBOW
I beseech you, sir, ask him what this man did to my wife.
POMPEY
I beseech your honour, ask me.
ESCALUS
Well, sir; what did this gentleman to her?
POMPEY
I beseech you, sir, look in this gentleman’s face.
Good Master Froth, look upon his honour; ’tis for a
good purpose. Doth your honour mark his face?
ESCALUS
Ay, sir, very well.
POMPEY
Nay; I beseech you, mark it well.
ESCALUS
Well, I do so.
POMPEY
Doth your honour see any harm in his face?
ESCALUS
Why, no.
POMPEY
I’ll be supposed upon a book, his face is the worst
thing about him. Good, then; if his face be the
worst thing about him, how could Master Froth do the
constable’s wife any harm? I would know that of
your honour.
ESCALUS
He’s in the right. Constable, what say you to it?
ELBOW
First, an it like you, the house is a respected
house; next, this is a respected fellow; and his
mistress is a respected woman.
POMPEY
By this hand, sir, his wife is a more respected
person than any of us all.
ELBOW
Varlet, thou liest; thou liest, wicked varlet! the
time has yet to come that she was ever respected
with man, woman, or child.
POMPEY
Sir, she was respected with him before he married with her.
ESCALUS
Which is the wiser here? Justice or Iniquity? Is
this true?
ELBOW
O thou caitiff! O thou varlet! O thou wicked
Hannibal! I respected with her before I was married
to her! If ever I was respected with her, or she
with me, let not your worship think me the poor
duke’s officer. Prove this, thou wicked Hannibal, or
I’ll have mine action of battery on thee.
ESCALUS
If he took you a box o’ the ear, you might have your
action of slander too.
ELBOW
Marry, I thank your good worship for it. What is’t
your worship’s pleasure I shall do with this wicked caitiff?
ESCALUS
Truly, officer, because he hath some offences in him
that thou wouldst discover if thou couldst, let him
continue in his courses till thou knowest what they
are.
ELBOW
Marry, I thank your worship for it. Thou seest, thou
wicked varlet, now, what’s come upon thee: thou art
to continue now, thou varlet; thou art to continue.
ESCALUS
Where were you born, friend?
FROTH
Here in Vienna, sir.
ESCALUS
Are you of fourscore pounds a year?
FROTH
Yes, an’t please you, sir.
ESCALUS
So. What trade are you of, sir?
POMPHEY
Tapster; a poor widow’s tapster.
ESCALUS
Your mistress’ name?
POMPHEY
Mistress Overdone.
ESCALUS
Hath she had any more than one husband?
POMPEY
Nine, sir; Overdone by the last.
ESCALUS
Nine! Come hither to me, Master Froth. Master
Froth, I would not have you acquainted with
tapsters: they will draw you, Master Froth, and you
will hang them. Get you gone, and let me hear no
more of you.
FROTH
I thank your worship. For mine own part, I never
come into any room in a tap-house, but I am drawn
in.
ESCALUS
Well, no more of it, Master Froth: farewell.
Exit FROTH

Come you hither to me, Master tapster. What’s your
name, Master tapster?
POMPEY
Pompey.
ESCALUS
What else?
POMPEY
Bum, sir.
ESCALUS
Troth, and your bum is the greatest thing about you;
so that in the beastliest sense you are Pompey the
Great. Pompey, you are partly a bawd, Pompey,
howsoever you colour it in being a tapster, are you
not? come, tell me true: it shall be the better for you.
POMPEY
Truly, sir, I am a poor fellow that would live.
ESCALUS
How would you live, Pompey? by being a bawd? What
do you think of the trade, Pompey? is it a lawful trade?
POMPEY
If the law would allow it, sir.
ESCALUS
But the law will not allow it, Pompey; nor it shall
not be allowed in Vienna.
POMPEY
Does your worship mean to geld and splay all the
youth of the city?
ESCALUS
No, Pompey.
POMPEY
Truly, sir, in my poor opinion, they will to’t then.
If your worship will take order for the drabs and
the knaves, you need not to fear the bawds.
ESCALUS
There are pretty orders beginning, I can tell you:
it is but heading and hanging.
POMPEY
If you head and hang all that offend that way but
for ten year together, you’ll be glad to give out a
commission for more heads: if this law hold in
Vienna ten year, I’ll rent the fairest house in it
after three-pence a bay: if you live to see this
come to pass, say Pompey told you so.
ESCALUS
Thank you, good Pompey; and, in requital of your
prophecy, hark you: I advise you, let me not find
you before me again upon any complaint whatsoever;
no, not for dwelling where you do: if I do, Pompey,
I shall beat you to your tent, and prove a shrewd
Caesar to you; in plain dealing, Pompey, I shall
have you whipt: so, for this time, Pompey, fare you well.
POMPEY
I thank your worship for your good counsel:
Aside

but I shall follow it as the flesh and fortune shall
better determine.
Whip me? No, no; let carman whip his jade:
The valiant heart is not whipt out of his trade.
Exit

ESCALUS
Come hither to me, Master Elbow; come hither, Master
constable. How long have you been in this place of constable?
ELBOW
Seven year and a half, sir.
ESCALUS
I thought, by your readiness in the office, you had
continued in it some time. You say, seven years together?
ELBOW
And a half, sir.
ESCALUS
Alas, it hath been great pains to you. They do you
wrong to put you so oft upon ‘t: are there not men
in your ward sufficient to serve it?
ELBOW
Faith, sir, few of any wit in such matters: as they
are chosen, they are glad to choose me for them; I
do it for some piece of money, and go through with
all.
ESCALUS
Look you bring me in the names of some six or seven,
the most sufficient of your parish.
ELBOW
To your worship’s house, sir?
ESCALUS
To my house. Fare you well.
Exit ELBOW

What’s o’clock, think you?
Justice
Eleven, sir.
ESCALUS
I pray you home to dinner with me.
Justice
I humbly thank you.
ESCALUS
It grieves me for the death of Claudio;
But there’s no remedy.
Justice
Lord Angelo is severe.
ESCALUS
It is but needful:
Mercy is not itself, that oft looks so;
Pardon is still the nurse of second woe:
But yet,–poor Claudio! There is no remedy.
Come, sir.
Exeunt

SCENE II. Another room in the same.
Enter Provost and a Servant
Servant
He’s hearing of a cause; he will come straight
I’ll tell him of you.
Provost
Pray you, do.
Exit Servant

I’ll know
His pleasure; may be he will relent. Alas,
He hath but as offended in a dream!
All sects, all ages smack of this vice; and he
To die for’t!
Enter ANGELO

ANGELO
Now, what’s the matter. Provost?
Provost
Is it your will Claudio shall die tomorrow?
ANGELO
Did not I tell thee yea? hadst thou not order?
Why dost thou ask again?
Provost
Lest I might be too rash:
Under your good correction, I have seen,
When, after execution, judgment hath
Repented o’er his doom.
ANGELO
Go to; let that be mine:
Do you your office, or give up your place,
And you shall well be spared.
Provost
I crave your honour’s pardon.
What shall be done, sir, with the groaning Juliet?
She’s very near her hour.
ANGELO
Dispose of her
To some more fitter place, and that with speed.
Re-enter Servant

Servant
Here is the sister of the man condemn’d
Desires access to you.
ANGELO
Hath he a sister?
Provost
Ay, my good lord; a very virtuous maid,
And to be shortly of a sisterhood,
If not already.
ANGELO
Well, let her be admitted.
Exit Servant

See you the fornicatress be removed:
Let have needful, but not lavish, means;
There shall be order for’t.
Enter ISABELLA and LUCIO

Provost
God save your honour!
ANGELO
Stay a little while.
To ISABELLA

You’re welcome: what’s your will?
ISABELLA
I am a woeful suitor to your honour,
Please but your honour hear me.
ANGELO
Well; what’s your suit?
ISABELLA
There is a vice that most I do abhor,
And most desire should meet the blow of justice;
For which I would not plead, but that I must;
For which I must not plead, but that I am
At war ‘twixt will and will not.
ANGELO
Well; the matter?
ISABELLA
I have a brother is condemn’d to die:
I do beseech you, let it be his fault,
And not my brother.
Provost
[Aside] Heaven give thee moving graces!
ANGELO
Condemn the fault and not the actor of it?
Why, every fault’s condemn’d ere it be done:
Mine were the very cipher of a function,
To fine the faults whose fine stands in record,
And let go by the actor.
ISABELLA
O just but severe law!
I had a brother, then. Heaven keep your honour!
LUCIO
[Aside to ISABELLA] Give’t not o’er so: to him
again, entreat him;
Kneel down before him, hang upon his gown:
You are too cold; if you should need a pin,
You could not with more tame a tongue desire it:
To him, I say!
ISABELLA
Must he needs die?
ANGELO
Maiden, no remedy.
ISABELLA
Yes; I do think that you might pardon him,
And neither heaven nor man grieve at the mercy.
ANGELO
I will not do’t.
ISABELLA
But can you, if you would?
ANGELO
Look, what I will not, that I cannot do.
ISABELLA
But might you do’t, and do the world no wrong,
If so your heart were touch’d with that remorse
A s mine is to him?
ANGELO
He’s sentenced; ’tis too late.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] You are too cold.
ISABELLA
Too late? why, no; I, that do speak a word.
May call it back again. Well, believe this,
No ceremony that to great ones ‘longs,
Not the king’s crown, nor the deputed sword,
The marshal’s truncheon, nor the judge’s robe,
Become them with one half so good a grace
As mercy does.
If he had been as you and you as he,
You would have slipt like him; but he, like you,
Would not have been so stern.
ANGELO
Pray you, be gone.
ISABELLA
I would to heaven I had your potency,
And you were Isabel! should it then be thus?
No; I would tell what ’twere to be a judge,
And what a prisoner.
LUCIO
[Aside to ISABELLA]
Ay, touch him; there’s the vein.
ANGELO
Your brother is a forfeit of the law,
And you but waste your words.
ISABELLA
Alas, alas!
Why, all the souls that were were forfeit once;
And He that might the vantage best have took
Found out the remedy. How would you be,
If He, which is the top of judgment, should
But judge you as you are? O, think on that;
And mercy then will breathe within your lips,
Like man new made.
ANGELO
Be you content, fair maid;
It is the law, not I condemn your brother:
Were he my kinsman, brother, or my son,
It should be thus with him: he must die tomorrow.
ISABELLA
To-morrow! O, that’s sudden! Spare him, spare him!
He’s not prepared for death. Even for our kitchens
We kill the fowl of season: shall we serve heaven
With less respect than we do minister
To our gross selves? Good, good my lord, bethink you;
Who is it that hath died for this offence?
There’s many have committed it.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] Ay, well said.
ANGELO
The law hath not been dead, though it hath slept:
Those many had not dared to do that evil,
If the first that did the edict infringe
Had answer’d for his deed: now ’tis awake
Takes note of what is done; and, like a prophet,
Looks in a glass, that shows what future evils,
Either new, or by remissness new-conceived,
And so in progress to be hatch’d and born,
Are now to have no successive degrees,
But, ere they live, to end.
ISABELLA
Yet show some pity.
ANGELO
I show it most of all when I show justice;
For then I pity those I do not know,
Which a dismiss’d offence would after gall;
And do him right that, answering one foul wrong,
Lives not to act another. Be satisfied;
Your brother dies to-morrow; be content.
ISABELLA
So you must be the first that gives this sentence,
And he, that suffer’s. O, it is excellent
To have a giant’s strength; but it is tyrannous
To use it like a giant.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] That’s well said.
ISABELLA
Could great men thunder
As Jove himself does, Jove would ne’er be quiet,
For every pelting, petty officer
Would use his heaven for thunder;
Nothing but thunder! Merciful Heaven,
Thou rather with thy sharp and sulphurous bolt
Split’st the unwedgeable and gnarled oak
Than the soft myrtle: but man, proud man,
Drest in a little brief authority,
Most ignorant of what he’s most assured,
His glassy essence, like an angry ape,
Plays such fantastic tricks before high heaven
As make the angels weep; who, with our spleens,
Would all themselves laugh mortal.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] O, to him, to him, wench! he
will relent;
He’s coming; I perceive ‘t.
Provost
[Aside] Pray heaven she win him!
ISABELLA
We cannot weigh our brother with ourself:
Great men may jest with saints; ’tis wit in them,
But in the less foul profanation.
LUCIO
Thou’rt i’ the right, girl; more o, that.
ISABELLA
That in the captain’s but a choleric word,
Which in the soldier is flat blasphemy.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] Art avised o’ that? more on ‘t.
ANGELO
Why do you put these sayings upon me?
ISABELLA
Because authority, though it err like others,
Hath yet a kind of medicine in itself,
That skins the vice o’ the top. Go to your bosom;
Knock there, and ask your heart what it doth know
That’s like my brother’s fault: if it confess
A natural guiltiness such as is his,
Let it not sound a thought upon your tongue
Against my brother’s life.
ANGELO
[Aside] She speaks, and ’tis
Such sense, that my sense breeds with it. Fare you well.
ISABELLA
Gentle my lord, turn back.
ANGELO
I will bethink me: come again tomorrow.
ISABELLA
Hark how I’ll bribe you: good my lord, turn back.
ANGELO
How! bribe me?
ISABELLA
Ay, with such gifts that heaven shall share with you.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] You had marr’d all else.
ISABELLA
Not with fond shekels of the tested gold,
Or stones whose rates are either rich or poor
As fancy values them; but with true prayers
That shall be up at heaven and enter there
Ere sun-rise, prayers from preserved souls,
From fasting maids whose minds are dedicate
To nothing temporal.
ANGELO
Well; come to me to-morrow.
LUCIO
[Aside to ISABELLA] Go to; ’tis well; away!
ISABELLA
Heaven keep your honour safe!
ANGELO
[Aside] Amen:
For I am that way going to temptation,
Where prayers cross.
ISABELLA
At what hour to-morrow
Shall I attend your lordship?
ANGELO
At any time ‘fore noon.
ISABELLA
‘Save your honour!
Exeunt ISABELLA, LUCIO, and Provost

ANGELO
From thee, even from thy virtue!
What’s this, what’s this? Is this her fault or mine?
The tempter or the tempted, who sins most?
Ha!
Not she: nor doth she tempt: but it is I
That, lying by the violet in the sun,
Do as the carrion does, not as the flower,
Corrupt with virtuous season. Can it be
That modesty may more betray our sense
Than woman’s lightness? Having waste ground enough,
Shall we desire to raze the sanctuary
And pitch our evils there? O, fie, fie, fie!
What dost thou, or what art thou, Angelo?
Dost thou desire her foully for those things
That make her good? O, let her brother live!
Thieves for their robbery have authority
When judges steal themselves. What, do I love her,
That I desire to hear her speak again,
And feast upon her eyes? What is’t I dream on?
O cunning enemy, that, to catch a saint,
With saints dost bait thy hook! Most dangerous
Is that temptation that doth goad us on
To sin in loving virtue: never could the strumpet,
With all her double vigour, art and nature,
Once stir my temper; but this virtuous maid
Subdues me quite. Even till now,
When men were fond, I smiled and wonder’d how.
Exit

SCENE III. A room in a prison.
Enter, severally, DUKE VINCENTIO disguised as a friar, and Provost
DUKE VINCENTIO
Hail to you, provost! so I think you are.
Provost
I am the provost. What’s your will, good friar?
DUKE VINCENTIO
Bound by my charity and my blest order,
I come to visit the afflicted spirits
Here in the prison. Do me the common right
To let me see them and to make me know
The nature of their crimes, that I may minister
To them accordingly.
Provost
I would do more than that, if more were needful.
Enter JULIET

Look, here comes one: a gentlewoman of mine,
Who, falling in the flaws of her own youth,
Hath blister’d her report: she is with child;
And he that got it, sentenced; a young man
More fit to do another such offence
Than die for this.
DUKE VINCENTIO
When must he die?
Provost
As I do think, to-morrow.
I have provided for you: stay awhile,
To JULIET

And you shall be conducted.
DUKE VINCENTIO
Repent you, fair one, of the sin you carry?
JULIET
I do; and bear the shame most patiently.
DUKE VINCENTIO
I’ll teach you how you shall arraign your conscience,
And try your penitence, if it be sound,
Or hollowly put on.
JULIET
I’ll gladly learn.
DUKE VINCENTIO
Love you the man that wrong’d you?
JULIET
Yes, as I love the woman that wrong’d him.
DUKE VINCENTIO
So then it seems your most offenceful act
Was mutually committed?
JULIET
Mutually.
DUKE VINCENTIO
Then was your sin of heavier kind than his.
JULIET
I do confess it, and repent it, father.
DUKE VINCENTIO
‘Tis meet so, daughter: but lest you do repent,
As that the sin hath brought you to this shame,
Which sorrow is always towards ourselves, not heaven,
Showing we would not spare heaven as we love it,
But as we stand in fear,–
JULIET
I do repent me, as it is an evil,
And take the shame with joy.
DUKE VINCENTIO
There rest.
Your partner, as I hear, must die to-morrow,
And I am going with instruction to him.
Grace go with you, Benedicite!
Exit

JULIET
Must die to-morrow! O injurious love,
That respites me a life, whose very comfort
Is still a dying horror!
Provost
‘Tis pity of him.
Exeunt

SCENE IV. A room in ANGELO’s house.
Enter ANGELO
ANGELO
When I would pray and think, I think and pray
To several subjects. Heaven hath my empty words;
Whilst my invention, hearing not my tongue,
Anchors on Isabel: Heaven in my mouth,
As if I did but only chew his name;
And in my heart the strong and swelling evil
Of my conception. The state, whereon I studied
Is like a good thing, being often read,
Grown fear’d and tedious; yea, my gravity,
Wherein–let no man hear me–I take pride,
Could I with boot change for an idle plume,
Which the air beats for vain. O place, O form,
How often dost thou with thy case, thy habit,
Wrench awe from fools and tie the wiser souls
To thy false seeming! Blood, thou art blood:
Let’s write good angel on the devil’s horn:
‘Tis not the devil’s crest.
Enter a Servant

How now! who’s there?
Servant
One Isabel, a sister, desires access to you.
ANGELO
Teach her the way.
Exit Servant

O heavens!
Why does my blood thus muster to my heart,
Making both it unable for itself,
And dispossessing all my other parts
Of necessary fitness?
So play the foolish throngs with one that swoons;
Come all to help him, and so stop the air
By which he should revive: and even so
The general, subject to a well-wish’d king,
Quit their own part, and in obsequious fondness
Crowd to his presence, where their untaught love
Must needs appear offence.
Enter ISABELLA

How now, fair maid?
ISABELLA
I am come to know your pleasure.
ANGELO
That you might know it, would much better please me
Than to demand what ’tis. Your brother cannot live.
ISABELLA
Even so. Heaven keep your honour!
ANGELO
Yet may he live awhile; and, it may be,
As long as you or I
yet he must die.
ISABELLA
Under your sentence?
ANGELO
Yea.
ISABELLA
When, I beseech you? that in his reprieve,
Longer or shorter, he may be so fitted
That his soul sicken not.
ANGELO
Ha! fie, these filthy vices! It were as good
To pardon him that hath from nature stolen
A man already made, as to remit
Their saucy sweetness that do coin heaven’s image
In stamps that are forbid: ’tis all as easy
Falsely to take away a life true made
As to put metal in restrained means
To make a false one.
ISABELLA
‘Tis set down so in heaven, but not in earth.
ANGELO
Say you so? then I shall pose you quickly.
Which had you rather, that the most just law
Now took your brother’s life; or, to redeem him,
Give up your body to such sweet uncleanness
As she that he hath stain’d?
ISABELLA
Sir, believe this,
I had rather give my body than my soul.
ANGELO
I talk not of your soul: our compell’d sins
Stand more for number than for accompt.
ISABELLA
How say you?
ANGELO
Nay, I’ll not warrant that; for I can speak
Against the thing I say. Answer to this:
I, now the voice of the recorded law,
Pronounce a sentence on your brother’s life:
Might there not be a charity in sin
To save this brother’s life?
ISABELLA
Please you to do’t,
I’ll take it as a peril to my soul,
It is no sin at all, but charity.
ANGELO
Pleased you to do’t at peril of your soul,
Were equal poise of sin and charity.
ISABELLA
That I do beg his life, if it be sin,
Heaven let me bear it! you granting of my suit,
If that be sin, I’ll make it my morn prayer
To have it added to the faults of mine,
And nothing of your answer.
ANGELO
Nay, but hear me.
Your sense pursues not mine: either you are ignorant,
Or seem so craftily; and that’s not good.
ISABELLA
Let me be ignorant, and in nothing good,
But graciously to know I am no better.
ANGELO
Thus wisdom wishes to appear most bright
When it doth tax itself; as these black masks
Proclaim an enshield beauty ten times louder
Than beauty could, display’d. But mark me;
To be received plain, I’ll speak more gross:
Your brother is to die.
ISABELLA
So.
ANGELO
And his offence is so, as it appears,
Accountant to the law upon that pain.
ISABELLA
True.
ANGELO
Admit no other way to save his life,–
As I subscribe not that, nor any other,
But in the loss of question,–that you, his sister,
Finding yourself desired of such a person,
Whose credit with the judge, or own great place,
Could fetch your brother from the manacles
Of the all-building law; and that there were
No earthly mean to save him, but that either
You must lay down the treasures of your body
To this supposed, or else to let him suffer;
What would you do?
ISABELLA
As much for my poor brother as myself:
That is, were I under the terms of death,
The impression of keen whips I’ld wear as rubies,
And strip myself to death, as to a bed
That longing have been sick for, ere I’ld yield
My body up to shame.
ANGELO
Then must your brother die.
ISABELLA
And ’twere the cheaper way:
Better it were a brother died at once,
Than that a sister, by redeeming him,
Should die for ever.
ANGELO
Were not you then as cruel as the sentence
That you have slander’d so?
ISABELLA
Ignomy in ransom and free pardon
Are of two houses: lawful mercy
Is nothing kin to foul redemption.
ANGELO
You seem’d of late to make the law a tyrant;
And rather proved the sliding of your brother
A merriment than a vice.
ISABELLA
O, pardon me, my lord; it oft falls out,
To have what we would have, we speak not what we mean:
I something do excuse the thing I hate,
For his advantage that I dearly love.
ANGELO
We are all frail.
ISABELLA
Else let my brother die,
If not a feodary, but only he
Owe and succeed thy weakness.
ANGELO
Nay, women are frail too.
ISABELLA
Ay, as the glasses where they view themselves;
Which are as easy broke as they make forms.
Women! Help Heaven! men their creation mar
In profiting by them. Nay, call us ten times frail;
For we are soft as our complexions are,
And credulous to false prints.
ANGELO
I think it well:
And from this testimony of your own sex,–
Since I suppose we are made to be no stronger
Than faults may shake our frames,–let me be bold;
I do arrest your words. Be that you are,
That is, a woman; if you be more, you’re none;
If you be one, as you are well express’d
By all external warrants, show it now,
By putting on the destined livery.
ISABELLA
I have no tongue but one: gentle my lord,
Let me entreat you speak the former language.
ANGELO
Plainly conceive, I love you.
ISABELLA
My brother did love Juliet,
And you tell me that he shall die for it.
ANGELO
He shall not, Isabel, if you give me love.
ISABELLA
I know your virtue hath a licence in’t,
Which seems a little fouler than it is,
To pluck on others.
ANGELO
Believe me, on mine honour,
My words express my purpose.
ISABELLA
Ha! little honour to be much believed,
And most pernicious purpose! Seeming, seeming!
I will proclaim thee, Angelo; look for’t:
Sign me a present pardon for my brother,
Or with an outstretch’d throat I’ll tell the world aloud
What man thou art.
ANGELO
Who will believe thee, Isabel?
My unsoil’d name, the austereness of my life,
My vouch against you, and my place i’ the state,
Will so your accusation overweigh,
That you shall stifle in your own report
And smell of calumny. I have begun,
And now I give my sensual race the rein:
Fit thy consent to my sharp appetite;
Lay by all nicety and prolixious blushes,
That banish what they sue for; redeem thy brother
By yielding up thy body to my will;
Or else he must not only die the death,
But thy unkindness shall his death draw out
To lingering sufferance. Answer me to-morrow,
Or, by the affection that now guides me most,
I’ll prove a tyrant to him. As for you,
Say what you can, my false o’erweighs your true.
Exit

ISABELLA
To whom should I complain? Did I tell this,
Who would believe me? O perilous mouths,
That bear in them one and the self-same tongue,
Either of condemnation or approof;
Bidding the law make court’sy to their will:
Hooking both right and wrong to the appetite,
To follow as it draws! I’ll to my brother:
Though he hath fallen by prompture of the blood,
Yet hath he in him such a mind of honour.
That, had he twenty heads to tender down
On twenty bloody blocks, he’ld yield them up,
Before his sister should her body stoop
To such abhorr’d pollution.
Then, Isabel, live chaste, and, brother, die:
More than our brother is our chastity.
I’ll tell him yet of Angelo’s request,
And fit his mind to death, for his soul’s rest.
Exit

ACT III
SCENE I. A room in the prison.
Enter DUKE VINCENTIO disguised as before, CLAUDIO, and Provost
DUKE VINCENTIO
So then you hope of pardon from Lord Angelo?
CLAUDIO
The miserable have no other medicine
But only hope:
I’ve hope to live, and am prepared to die.
DUKE VINCENTIO
Be absolute for death; either death or life
Shall thereby be the sweeter. Reason thus with life:
If I do lose thee, I do lose a thing
That none but fools would keep: a breath thou art,
Servile to all the skyey influences,
That dost this habitation, where thou keep’st,
Hourly afflict: merely, thou art death’s fool;
For him thou labour’st by thy flight to shun
And yet runn’st toward him still. Thou art not noble;
For all the accommodations that thou bear’st
Are nursed by baseness. Thou’rt by no means valiant;
For thou dost fear the soft and tender fork
Of a poor worm. Thy best of rest is sleep,
And that thou oft provokest; yet grossly fear’st
Thy death, which is no more. Thou art not thyself;
For thou exist’st on many a thousand grains
That issue out of dust. Happy thou art not;
For what thou hast not, still thou strivest to get,
And what thou hast, forget’st. Thou art not certain;
For thy complexion shifts to strange effects,
After the moon. If thou art rich, thou’rt poor;
For, like an ass whose back with ingots bows,
Thou bear’s thy heavy riches but a journey,
And death unloads thee. Friend hast thou none;
For thine own bowels, which do call thee sire,
The mere effusion of thy proper loins,
Do curse the gout, serpigo, and the rheum,
For ending thee no sooner. Thou hast nor youth nor age,
But, as it were, an after-dinner’s sleep,
Dreaming on both; for all thy blessed youth
Becomes as aged, and doth beg the alms
Of palsied eld; and when thou art old and rich,
Thou hast neither heat, affection, limb, nor beauty,
To make thy riches pleasant. What’s yet in this
That bears the name of life? Yet in this life
Lie hid moe thousand deaths: yet death we fear,
That makes these odds all even.
CLAUDIO
I humbly thank you.
To sue to live, I find I seek to die;
And, seeking death, find life: let it come on.
ISABELLA
[Within] What, ho! Peace here; grace and good company!
Provost
Who’s there? come in: the wish deserves a welcome.
DUKE VINCENTIO
Dear sir, ere long I’ll visit you again.
CLAUDIO
Most holy sir, I thank you.
Enter ISABELLA

ISABELLA
My business is a word or two with Claudio.
Provost
And very welcome. Look, signior, here’s your sister.
DUKE VINCENTIO
Provost, a word with you.
Provost
As many as you please.
DUKE VINCENTIO
Bring me to hear them speak, where I may be concealed.
Exeunt DUKE VINCENTIO and Provost

CLAUDIO
Now, sister, what’s the comfort?
ISABELLA
Why,
As all comforts are; most good, most good indeed.
Lord Angelo, having affairs to heaven,
Intends you for his swift ambassador,
Where you shall be an everlasting leiger:
Therefore your best appointment make with speed;
To-morrow you set on.
CLAUDIO
Is there no remedy?
ISABELLA
None, but such remedy as, to save a head,
To cleave a heart in twain.
CLAUDIO
But is there any?
ISABELLA
Yes, brother, you may live:
There is a devilish mercy in the judge,
If you’ll implore it, that will free your life,
But fetter you till death.
CLAUDIO
Perpetual durance?
ISABELLA
Ay, just; perpetual durance, a restraint,
Though all the world’s vastidity you had,
To a determined scope.
CLAUDIO
But in what nature?
ISABELLA
In such a one as, you consenting to’t,
Would bark your honour from that trunk you bear,
And leave you naked.
CLAUDIO
Let me know the point.
ISABELLA
O, I do fear thee, Claudio; and I quake,
Lest thou a feverous life shouldst entertain,
And six or seven winters more respect
Than a perpetual honour. Darest thou die?
The sense of death is most in apprehension;
And the poor beetle, that we tread upon,
In corporal sufferance finds a pang as great
As when a giant dies.
CLAUDIO
Why give you me this shame?
Think you I can a resolution fetch
From flowery tenderness? If I must die,
I will encounter darkness as a bride,
And hug it in mine arms.
ISABELLA
There spake my brother; there my father’s grave
Did utter forth a voice. Yes, thou must die:
Thou art too noble to conserve a life
In base appliances. This outward-sainted deputy,
Whose settled visage and deliberate word
Nips youth i’ the head and follies doth emmew
As falcon doth the fowl, is yet a devil
His filth within being cast, he would appear
A pond as deep as hell.
CLAUDIO
The prenzie Angelo!
ISABELLA
O, ’tis the cunning livery of hell,
The damned’st body to invest and cover
In prenzie guards! Dost thou think, Claudio?
If I would yield him my virginity,
Thou mightst be freed.
CLAUDIO
O heavens! it cannot be.
ISABELLA
Yes, he would give’t thee, from this rank offence,
So to offend him still. This night’s the time
That I should do what I abhor to name,
Or else thou diest to-morrow.
CLAUDIO
Thou shalt not do’t.
ISABELLA
O, were it but my life,
I’ld throw it down for your deliverance
As frankly as a pin.
CLAUDIO
Thanks, dear Isabel.
ISABELLA
Be ready, Claudio, for your death tomorrow.
CLAUDIO
Yes. Has he affections in him,
That thus can make him bite the law by the nose,
When he would force it? Sure, it is no sin,
Or of the deadly seven, it is the least.
ISABELLA
Which is the least?
CLAUDIO
If it were damnable, he being so wise,
Why would he for the momentary trick
Be perdurably fined? O Isabel!
ISABELLA
What says my brother?
CLAUDIO
Death is a fearful thing.
ISABELLA
And shamed life a hateful.
CLAUDIO
Ay, but to die, and go we know not where;
To lie in cold obstruction and to rot;
This sensible warm motion to become
A kneaded clod; and the delighted spirit
To bathe in fiery floods, or to reside
In thrilling region of thick-ribbed ice;
To be imprison’d in the viewless winds,
And blown with restless violence round about
The pendent world; or to be worse than worst
Of those that lawless and incertain thought
Imagine howling: ’tis too horrible!
The weariest and most loathed worldly life
That age, ache, penury and imprisonment
Can lay on nature is a paradise
To what we fear of death.
ISABELLA
Alas, alas!
CLAUDIO
Sweet sister, let me live:
What sin you do to save a brother’s life,
Nature dispenses with the deed so far
That it becomes a virtue.
ISABELLA
O you beast!
O faithless coward! O dishonest wretch!
Wilt thou be made a man out of my vice?
Is’t not a kind of incest, to take life
From thine own sister’s shame? What should I think?
Heaven shield my mother play’d my father fair!
For such a warped slip of wilderness
Ne’er issued from his blood. Take my defiance!
Die, perish! Might but my bending down
Reprieve thee from thy fate, it should proceed:
I’ll pray a thousand prayers for thy death,
No word to save thee.
CLAUDIO
Nay, hear me, Isabel.
ISABELLA
O, fie, fie, fie!
Thy sin’s not accidental, but a trade.
Mercy to thee would prove itself a bawd:
‘Tis best thou diest quickly.
CLAUDIO
O hear me, Isabella!
Re-enter DUKE VINCENTIO

DUKE VINCENTIO
Vouchsafe a word, young sister, but one word.
ISABELLA
What is your will?
DUKE VINCENTIO
Might you dispense with your leisure, I would by and
by have some speech with you: the satisfaction I
would require is likewise your own benefit.
ISABELLA
I have no superfluous leisure; my stay must be
stolen out of other affairs; but I will attend you awhile.
Walks apart

DUKE VINCENTIO
Son, I have overheard what hath passed between you
and your sister. Angelo had never the purpose to
corrupt her; only he hath made an essay of her
virtue to practise his judgment with the disposition
of natures: she, having the truth of honour in her,
hath made him that gracious denial which he is most
glad to receive. I am confessor to Angelo, and I
know this to be true; therefore prepare yourself to
death: do not satisfy your resolution with hopes
that are fallible: tomorrow you must die; go to
your knees and make ready.
CLAUDIO
Let me ask my sister pardon. I am so out of love
with life that I will sue to be rid of it.
DUKE VINCENTIO
Hold you there: farewell.
Exit CLAUDIO

Provost, a word with you!
Re-enter Provost

Provost
What’s your will, father
DUKE VINCENTIO
That now you are come, you will be gone. Leave me
awhile with the maid: my mind promises with my
habit no loss shall touch her by my company.
Provost
In good time.
Exit Provost. ISABELLA comes forward

DUKE VINCENTIO
The hand that hath made you fair hath made you good:
the goodness that is cheap in beauty makes beauty
brief in goodness; but grace, being the soul of
your complexion, shall keep the body of it ever
fair. The assault that Angelo hath made to you,
fortune hath conveyed to my understanding; and, but
that frailty hath examples for his falling, I should
wonder at Angelo. How will you do to content this
substitute, and to save your brother?
ISABELLA
I am now going to resolve him: I had rather my
brother die by the law than my son should be
unlawfully born. But, O, how much is the good duke
deceived in Angelo! If ever he return and I can
speak to him, I will open my lips in vain, or
discover his government.
DUKE VINCENTIO
That shall not be much amiss: Yet, as the matter
now stands, he will avoid your accusation; he made
trial of you only. Therefore fasten your ear on my
advisings: to the love I have in doing good a
remedy presents itself. I do make myself believe
that you may most uprighteously do a poor wronged
lady a merited benefit; redeem your brother from
the angry law; do no stain to your own gracious
person; and much please the absent duke, if
peradventure he shall ever return to have hearing of
this business.
ISABELLA
Let me hear you speak farther. I have spirit to do
anything that appears not foul in the truth of my spirit.
DUKE VINCENTIO
Virtue is bold, and goodness never fearful. Have
you not heard speak of Mariana, the sister of
Frederick the great soldier who miscarried at sea?
ISABELLA
I have heard of the lady, and good words went with her name.
DUKE VINCENTIO
She should this Angelo have married; was affianced
to her by oath, and the nuptial appointed: between
which time of the contract and limit of the
solemnity, her brother Frederick was wrecked at sea,
having in that perished vessel the dowry of his
sister. But mark how heavily this befell to the
poor gentlewoman: there she lost a noble and
renowned brother, in his love toward her ever most
kind and natural; with him, the portion and sinew of
her fortune, her marriage-dowry; with both, her
combinate husband, this well-seeming Angelo.
ISABELLA
Can this be so? did Angelo so leave her?
DUKE VINCENTIO
Left her in her tears, and dried not one of them
with his comfort; swallowed his vows whole,
pretending in her discoveries of dishonour: in few,
bestowed her on her own lamentation, which she yet
wears for his sake; and he, a marble to her tears,
is washed with them, but relents not.
ISABELLA
What a merit were it in death to take this poor maid
from the world! What corruption in this life, that
it will let this man live! But how out of this can she avail?
DUKE VINCENTIO
It is a rupture that you may easily heal: and the
cure of it not only saves your brother, but keeps
you from dishonour in doing it.
ISABELLA
Show me how, good father.
DUKE VINCENTIO
This forenamed maid hath yet in her the continuance
of her first affection: his unjust unkindness, that
in all reason should have quenched her love, hath,
like an impediment in the current, made it more
violent and unruly. Go you to Angelo; answer his
requiring with a plausible obedience; agree with
his demands to the point; only refer yourself to
this advantage, first, that your stay with him may
not be long; that the time may have all shadow and
silence in it; and the place answer to convenience.
This being granted in course,–and now follows
all,–we shall advise this wronged maid to stead up
your appointment, go in your place; if the encounter
acknowledge itself hereafter, it may compel him to
her recompense: and here, by this, is your brother
saved, your honour untainted, the poor Mariana
advantaged, and the corrupt deputy scaled. The maid
will I frame and make fit for his attempt. If you
think well to carry this as you may, the doubleness
of the benefit defends the deceit from reproof.
What think you of it?
ISABELLA
The image of it gives me content already; and I
trust it will grow to a most prosperous perfection.
DUKE VINCENTIO
It lies much in your holding up. Haste you speedily
to Angelo: if for this night he entreat you to his
bed, give him promise of satisfaction. I will
presently to Saint Luke’s: there, at the moated
grange, resides this dejected Mariana. At that
place call upon me; and dispatch with Angelo, that
it may be quickly.
ISABELLA
I thank you for this comfort. Fare you well, good father.
Exeunt severally

SCENE II. The street before the prison.
Enter, on one side, DUKE VINCENTIO disguised as before; on the other, ELBOW, and Officers with POMPEY
ELBOW
Nay, if there be no remedy for it, but that you will
needs buy and sell men and women like beasts, we
shall have all the world drink brown and white bastard.
DUKE VINCENTIO
O heavens! what stuff is here
POMPEY
‘Twas never merry world since, of two usuries, the
merriest was put down, and the worser allowed by
order of law a furred gown to keep him warm; and
furred with fox and lamb-skins too, to signify, that
craft, being richer than innocency, stands for the facing.
ELBOW
Come your way, sir. ‘Bless you, good father friar.
DUKE VINCENTIO
And you, good brother father. What offence hath
this man made you, sir?
ELBOW
Marry, sir, he hath offended the law: and, sir, we
take him to be a thief too, sir; for we have found
upon him, sir, a strange picklock, which we have
sent to the deputy.
DUKE VINCENTIO
Fie, sirrah! a bawd, a wicked bawd!
The evil that thou causest to be done,
That is thy means to live. Do thou but think
What ’tis to cram a maw or clothe a back
From such a filthy vice: say to thyself,
From their abominable and beastly touches
I drink, I eat, array myself, and live.
Canst thou believe thy living is a life,
So stinkingly depending? Go mend, go mend.
POMPEY
Indeed, it does stink in some sort, sir; but yet,
sir, I would prove–
DUKE VINCENTIO
Nay, if the devil have given thee proofs for sin,
Thou wilt prove his. Take him to prison, officer:
Correction and instruction must both work
Ere this rude beast will profit.
ELBOW
He must before the deputy, sir; he has given him
warning: the deputy cannot abide a whoremaster: if
he be a whoremonger, and comes before him, he were
as good go a mile on his errand.
DUKE VINCENTIO
That we were all, as some would seem to be,
From our faults, as faults from seeming, free!
ELBOW
His neck will come to your waist,–a cord, sir.
POMPEY
I spy comfort; I cry bail. Here’s a gentleman and a
friend of mine.
Enter LUCIO

LUCIO
How now, noble Pompey! What, at the wheels of
Caesar? art thou led in triumph? What, is there
none of Pygmalion’s images, newly made woman, to be
had now, for putting the hand in the pocket and
extracting it clutch’d? What reply, ha? What
sayest thou to this tune, matter and method? Is’t
not drowned i’ the last rain, ha? What sayest
thou, Trot? Is the world as it was, man? Which is
the way? Is it sad, and few words? or how? The
trick of it?
DUKE VINCENTIO
Still thus, and thus; still worse!
LUCIO
How doth my dear morsel, thy mistress? Procures she
still, ha?
POMPEY
Troth, sir, she hath eaten up all her beef, and she
is herself in the tub.
LUCIO
Why, ’tis good; it is the right of it; it must be
so: ever your fresh whore and your powdered bawd:
an unshunned consequence; it must be so. Art going
to prison, Pompey?
POMPEY
Yes, faith, sir.
LUCIO
Why, ’tis not amiss, Pompey. Farewell: go, say I
sent thee thither. For debt, Pompey? or how?
ELBOW
For being a bawd, for being a bawd.
LUCIO
Well, then, imprison him: if imprisonment be the
due of a bawd, why, ’tis his right: bawd is he
doubtless, and of antiquity too; bawd-born.
Farewell, good Pompey. Commend me to the prison,
Pompey: you will turn good husband now, Pompey; you
will keep the house.
POMPEY
I hope, sir, your good worship will be my bail.
LUCIO
No, indeed, will I not, Pompey; it is not the wear.
I will pray, Pompey, to increase your bondage: If
you take it not patiently, why, your mettle is the
more. Adieu, trusty Pompey. ‘Bless you, friar.
DUKE VINCENTIO
And you.
LUCIO
Does Bridget paint still, Pompey, ha?
ELBOW
Come your ways, sir; come.
POMPEY
You will not bail me, then, sir?
LUCIO
Then, Pompey, nor now. What news abroad, friar?
what news?
ELBOW
Come your ways, sir; come.
LUCIO
Go to kennel, Pompey; go.
Exeunt ELBOW, POMPEY and Officers

What news, friar, of the duke?
DUKE VINCENTIO
I know none. Can you tell me of any?
LUCIO
Some say he is with the Emperor of Russia; other
some, he is in Rome: but where is he, think you?
DUKE VINCENTIO
I know not where; but wheresoever, I wish him well.
LUCIO
It was a mad fantastical trick of him to steal from
the state, and usurp the beggary he was never born
to. Lord Angelo dukes it well in his absence; he
puts transgression to ‘t.
DUKE VINCENTIO
He does well in ‘t.
LUCIO
A little more lenity to lechery would do no harm in
him: something too crabbed that way, friar.
DUKE VINCENTIO
It is too general a vice, and severity must cure it.
LUCIO
Yes, in good sooth, the vice is of a great kindred;
it is well allied: but it is impossible to extirp
it quite, friar, till eating and drinking be put
down. They say this Angelo was not made by man and
woman after this downright way of creation: is it
true, think you?
DUKE VINCENTIO
How should he be made, then?
LUCIO
Some report a sea-maid spawned him; some, that he
was begot between two stock-fishes. But it is
certain that when he makes water his urine is
congealed ice; that I know to be true: and he is a
motion generative; that’s infallible.
DUKE VINCENTIO
You are pleasant, sir, and speak apace.
LUCIO
Why, what a ruthless thing is this in him, for the
rebellion of a codpiece to take away the life of a
man! Would the duke that is absent have done this?
Ere he would have hanged a man for the getting a
hundred bastards, he would have paid for the nursing
a thousand: he had some feeling of the sport: he
knew the service, and that instructed him to mercy.
DUKE VINCENTIO
I never heard the absent duke much detected for
women; he was not inclined that way.
LUCIO
O, sir, you are deceived.
DUKE VINCENTIO
‘Tis not possible.
LUCIO
Who, not the duke? yes, your beggar of fifty; and
his use was to put a ducat in her clack-dish: the
duke had crotchets in him. He would be drunk too;
that let me inform you.
DUKE VINCENTIO
You do him wrong, surely.
LUCIO
Sir, I was an inward of his. A shy fellow was the
duke: and I believe I know the cause of his
withdrawing.
DUKE VINCENTIO
What, I prithee, might be the cause?
LUCIO
No, pardon; ’tis a secret must be locked within the
teeth and the lips: but this I can let you
understand, the greater file of the subject held the
duke to be wise.
DUKE VINCENTIO
Wise! why, no question but he was.
LUCIO
A very superficial, ignorant, unweighing fellow.
DUKE VINCENTIO
Either this is the envy in you, folly, or mistaking:
the very stream of his life and the business he hath
helmed must upon a warranted need give him a better
proclamation. Let him be but testimonied in his own
bringings-forth, and he shall appear to the
envious a scholar, a statesman and a soldier.
Therefore you speak unskilfully: or if your
knowledge be more it is much darkened in your malice.
LUCIO
Sir, I know him, and I love him.
DUKE VINCENTIO
Love talks with better knowledge, and knowledge with
dearer love.
LUCIO
Come, sir, I know what I know.
DUKE VINCENTIO
I can hardly believe that, since you know not what
you speak. But, if ever the duke return, as our
prayers are he may, let me desire you to make your
answer before him. If it be honest you have spoke,
you have courage to maintain it: I am bound to call
upon you; and, I pray you, your name?
LUCIO
Sir, my name is Lucio; well known to the duke.
DUKE VINCENTIO
He shall know you better, sir, if I may live to
report you.
LUCIO
I fear you not.
DUKE VINCENTIO
O, you hope the duke will return no more; or you
imagine me too unhurtful an opposite. But indeed I
can do you little harm; you’ll forswear this again.
LUCIO
I’ll be hanged first: thou art deceived in me,
friar. But no more of this. Canst thou tell if
Claudio die to-morrow or no?
DUKE VINCENTIO
Why should he die, sir?
LUCIO
Why? For filling a bottle with a tundish. I would
the duke we talk of were returned again: the
ungenitured agent will unpeople the province with
continency; sparrows must not build in his
house-eaves, because they are lecherous. The duke
yet would have dark deeds darkly answered; he would
never bring them to light: would he were returned!
Marry, this Claudio is condemned for untrussing.
Farewell, good friar: I prithee, pray for me. The
duke, I say to thee again, would eat mutton on
Fridays. He’s not past it yet, and I say to thee,
he would mouth with a beggar, though she smelt brown
bread and garlic: say that I said so. Farewell.
Exit

DUKE VINCENTIO
No might nor greatness in mortality
Can censure ‘scape; back-wounding calumny
The whitest virtue strikes. What king so strong
Can tie the gall up in the slanderous tongue?
But who comes here?
Enter ESCALUS, Provost, and Officers with MISTRESS OVERDONE

ESCALUS
Go; away with her to prison!
MISTRESS OVERDONE
Good my lord, be good to me; your honour is accounted
a merciful man; good my lord.
ESCALUS
Double and treble admonition, and still forfeit in
the same kind! This would make mercy swear and play
the tyrant.
Provost
A bawd of eleven years’ continuance, may it please
your honour.
MISTRESS OVERDONE
My lord, this is one Lucio’s information against me.
Mistress Kate Keepdown was with child by him in the
duke’s time; he promised her marriage: his child
is a year and a quarter old, come Philip and Jacob:
I have kept it myself; and see how he goes about to abuse me!
ESCALUS
That fellow is a fellow of much licence: let him be
called before us. Away with her to prison! Go to;
no more words.
Exeunt Officers with MISTRESS OVERDONE

Provost, my brother Angelo will not be altered;
Claudio must die to-morrow: let him be furnished
with divines, and have all charitable preparation.
if my brother wrought by my pity, it should not be
so with him.
Provost
So please you, this friar hath been with him, and
advised him for the entertainment of death.
ESCALUS
Good even, good father.
DUKE VINCENTIO
Bliss and goodness on you!
ESCALUS
Of whence are you?
DUKE VINCENTIO
Not of this country, though my chance is now
To use it for my time: I am a brother
Of gracious order, late come from the See
In special business from his holiness.
ESCALUS
What news abroad i’ the world?
DUKE VINCENTIO
None, but that there is so great a fever on
goodness, that the dissolution of it must cure it:
novelty is only in request; and it is as dangerous
to be aged in any kind of course, as it is virtuous
to be constant in any undertaking. There is scarce
truth enough alive to make societies secure; but
security enough to make fellowships accurst: much
upon this riddle runs the wisdom of the world. This
news is old enough, yet it is every day’s news. I
pray you, sir, of what disposition was the duke?
ESCALUS
One that, above all other strifes, contended
especially to know himself.
DUKE VINCENTIO
What pleasure was he given to?
ESCALUS
Rather rejoicing to see another merry, than merry at
any thing which professed to make him rejoice: a
gentleman of all temperance. But leave we him to
his events, with a prayer they may prove prosperous;
and let me desire to know how you find Claudio
prepared. I am made to understand that you have
lent him visitation.
DUKE VINCENTIO
He professes to have received no sinister measure
from his judge, but most willingly humbles himself
to the determination of justice: yet had he framed
to himself, by the instruction of his frailty, many
deceiving promises of life; which I by my good
leisure have discredited to him, and now is he
resolved to die.
ESCALUS
You have paid the heavens your function, and the
prisoner the very debt of your calling. I have
laboured for the poor gentleman to the extremest
shore of my modesty: but my brother justice have I
found so severe, that he hath forced me to tell him
he is indeed Justice.
DUKE VINCENTIO
If his own life answer the straitness of his
proceeding, it shall become him well; wherein if he
chance to fail, he hath sentenced himself.
ESCALUS
I am going to visit the prisoner. Fare you well.
DUKE VINCENTIO
Peace be with you!
Exeunt ESCALUS and Provost

He who the sword of heaven will bear
Should be as holy as severe;
Pattern in himself to know,
Grace to stand, and virtue go;
More nor less to others paying
Than by self-offences weighing.
Shame to him whose cruel striking
Kills for faults of his own liking!
Twice treble shame on Angelo,
To weed my vice and let his grow!
O, what may man within him hide,
Though angel on the outward side!
How may likeness made in crimes,
Making practise on the times,
To draw with idle spiders’ strings
Most ponderous and substantial things!
Craft against vice I must apply:
With Angelo to-night shall lie
His old betrothed but despised;
So disguise shall, by the disguised,
Pay with falsehood false exacting,
And perform an old contracting.
Exit

ACT IV
SCENE I. The moated grange at ST. LUKE’s.
Enter MARIANA and a Boy
Boy sings
Take, O, take those lips away,
That so sweetly were forsworn;
And those eyes, the break of day,
Lights that do mislead the morn:
But my kisses bring again, bring again;
Seals of love, but sealed in vain, sealed in vain.
MARIANA
Break off thy song, and haste thee quick away:
Here comes a man of comfort, whose advice
Hath often still’d my brawling discontent.
Exit Boy

Enter DUKE VINCENTIO disguised as before

I cry you mercy, sir; and well could wish
You had not found me here so musical:
Let me excuse me, and believe me so,
My mirth it much displeased, but pleased my woe.
DUKE VINCENTIO
‘Tis good; though music oft hath such a charm
To make bad good, and good provoke to harm.
I pray, you, tell me, hath any body inquired
for me here to-day? much upon this time have
I promised here to meet.
MARIANA
You have not been inquired after:
I have sat here all day.
Enter ISABELLA

DUKE VINCENTIO
I do constantly believe you. The time is come even
now. I shall crave your forbearance a little: may
be I will call upon you anon, for some advantage to yourself.
MARIANA
I am always bound to you.
Exit

DUKE VINCENTIO
Very well met, and well come.
What is the news from this good deputy?
ISABELLA
He hath a garden circummured with brick,
Whose western side is with a vineyard back’d;
And to that vineyard is a planched gate,
That makes his opening with this bigger key:
This other doth command a little door
Which from the vineyard to the garden leads;
There have I made my promise
Upon the heavy middle of the night
To call upon him.
DUKE VINCENTIO
But shall you on your knowledge find this way?
ISABELLA
I have ta’en a due and wary note upon’t:
With whispering and most guilty diligence,
In action all of precept, he did show me
The way twice o’er.
DUKE VINCENTIO
Are there no other tokens
Between you ‘greed concerning her observance?
ISABELLA
No, none, but only a repair i’ the dark;
And that I have possess’d him my most stay
Can be but brief; for I have made him know
I have a servant comes with me along,
That stays upon me, whose persuasion is
I come about my brother.
DUKE VINCENTIO
‘Tis well borne up.
I have not yet made known to Mariana
A word of this. What, ho! within! come forth!
Re-enter MARIANA

I pray you, be acquainted with this maid;
She comes to do you good.
ISABELLA
I do desire the like.
DUKE VINCENTIO
Do you persuade yourself that I respect you?
MARIANA
Good friar, I know you do, and have found it.
DUKE VINCENTIO
Take, then, this your companion by the hand,
Who hath a story ready for your ear.
I shall attend your leisure: but make haste;
The vaporous night approaches.
MARIANA
Will’t please you walk aside?
Exeunt MARIANA and ISABELLA

DUKE VINCENTIO
O place and greatness! millions of false eyes
Are stuck upon thee: volumes of report
Run with these false and most contrarious quests
Upon thy doings: thousand escapes of wit
Make thee the father of their idle dreams
And rack thee in their fancies.
Re-enter MARIANA and ISABELLA

Welcome, how agreed?
ISABELLA
She’ll take the enterprise upon her, father,
If you advise it.
DUKE VINCENTIO
It is not my consent,
But my entreaty too.
ISABELLA
Little have you to say
When you depart from him, but, soft and low,
‘Remember now my brother.’
MARIANA
Fear me not.
DUKE VINCENTIO
Nor, gentle daughter, fear you not at all.
He is your husband on a pre-contract:
To bring you thus together, ’tis no sin,
Sith that the justice of your title to him
Doth flourish the deceit. Come, let us go:
Our corn’s to reap, for yet our tithe’s to sow.
Exeunt

SCENE II. A room in the prison.
Enter Provost and POMPEY
Provost
Come hither, sirrah. Can you cut off a man’s head?
POMPEY
If the man be a bachelor, sir, I can; but if he be a
married man, he’s his wife’s head, and I can never
cut off a woman’s head.
Provost
Come, sir, leave me your snatches, and yield me a
direct answer. To-morrow morning are to die Claudio
and Barnardine. Here is in our prison a common
executioner, who in his office lacks a helper: if
you will take it on you to assist him, it shall
redeem you from your gyves; if not, you shall have
your full time of imprisonment and your deliverance
with an unpitied whipping, for you have been a
notorious bawd.
POMPEY
Sir, I have been an unlawful bawd time out of mind;
but yet I will be content to be a lawful hangman. I
would be glad to receive some instruction from my
fellow partner.
Provost
What, ho! Abhorson! Where’s Abhorson, there?
Enter ABHORSON

ABHORSON
Do you call, sir?
Provost
Sirrah, here’s a fellow will help you to-morrow in
your execution. If you think it meet, compound with
him by the year, and let him abide here with you; if
not, use him for the present and dismiss him. He
cannot plead his estimation with you; he hath been a bawd.
ABHORSON
A bawd, sir? fie upon him! he will discredit our mystery.
Provost
Go to, sir; you weigh equally; a feather will turn
the scale.
Exit

POMPEY
Pray, sir, by your good favour,–for surely, sir, a
good favour you have, but that you have a hanging
look,–do you call, sir, your occupation a mystery?
ABHORSON
Ay, sir; a mystery
POMPEY
Painting, sir, I have heard say, is a mystery; and
your whores, sir, being members of my occupation,
using painting, do prove my occupation a mystery:
but what mystery there should be in hanging, if I
should be hanged, I cannot imagine.
ABHORSON
Sir, it is a mystery.
POMPEY
Proof?
ABHORSON
Every true man’s apparel fits your thief: if it be
too little for your thief, your true man thinks it
big enough; if it be too big for your thief, your
thief thinks it little enough: so every true man’s
apparel fits your thief.
Re-enter Provost

Provost
Are you agreed?
POMPEY
Sir, I will serve him; for I do find your hangman is
a more penitent trade than your bawd; he doth
oftener ask forgiveness.
Provost
You, sirrah, provide your block and your axe
to-morrow four o’clock.
ABHORSON
Come on, bawd; I will instruct thee in my trade; follow.
POMPEY
I do desire to learn, sir: and I hope, if you have
occasion to use me for your own turn, you shall find
me yare; for truly, sir, for your kindness I owe you
a good turn.
Provost
Call hither Barnardine and Claudio:
Exeunt POMPEY and ABHORSON

The one has my pity; not a jot the other,
Being a murderer, though he were my brother.
Enter CLAUDIO

Look, here’s the warrant, Claudio, for thy death:
‘Tis now dead midnight, and by eight to-morrow
Thou must be made immortal. Where’s Barnardine?
CLAUDIO
As fast lock’d up in sleep as guiltless labour
When it lies starkly in the traveller’s bones:
He will not wake.
Provost
Who can do good on him?
Well, go, prepare yourself.
Knocking within

But, hark, what noise?
Heaven give your spirits comfort!
Exit CLAUDIO

By and by.
I hope it is some pardon or reprieve
For the most gentle Claudio.
Enter DUKE VINCENTIO disguised as before

Welcome father.
DUKE VINCENTIO
The best and wholesomest spirts of the night
Envelope you, good Provost! Who call’d here of late?
Provost
None, since the curfew rung.
DUKE VINCENTIO
Not Isabel?
Provost
No.
DUKE VINCENTIO
They will, then, ere’t be long.
Provost
What comfort is for Claudio?
DUKE VINCENTIO
There’s some in hope.
Provost
It is a bitter deputy.
DUKE VINCENTIO
Not so, not so; his life is parallel’d
Even with the stroke and line of his great justice:
He doth with holy abstinence subdue
That in himself which he spurs on his power
To qualify in others: were he meal’d with that
Which he corrects, then were he tyrannous;
But this being so, he’s just.
Knocking within

Now are they come.
Exit Provost

This is a gentle provost: seldom when
The steeled gaoler is the friend of men.
Knocking within

How now! what noise? That spirit’s possessed with haste
That wounds the unsisting postern with these strokes.
Re-enter Provost

Provost
There he must stay until the officer
Arise to let him in: he is call’d up.
DUKE VINCENTIO
Have you no countermand for Claudio yet,
But he must die to-morrow?
Provost
None, sir, none.
DUKE VINCENTIO
As near the dawning, provost, as it is,
You shall hear more ere morning.
Provost
Happily
You something know; yet I believe there comes
No countermand; no such example have we:
Besides, upon the very siege of justice
Lord Angelo hath to the public ear
Profess’d the contrary.
Enter a Messenger

This is his lordship’s man.
DUKE VINCENTIO
And here comes Claudio’s pardon.
Messenger
[Giving a paper]
My lord hath sent you this note; and by me this
further charge, that you swerve not from the
smallest article of it, neither in time, matter, or
other circumstance. Good morrow; for, as I take it,
it is almost day.
Provost
I shall obey him.
Exit Messenger

DUKE VINCENTIO
[Aside] This is his pardon, purchased by such sin
For which the pardoner himself is in.
Hence hath offence his quick celerity,
When it is born in high authority:
When vice makes mercy, mercy’s so extended,
That for the fault’s love is the offender friended.
Now, sir, what news?
Provost
I told you. Lord Angelo, belike thinking me remiss
in mine office, awakens me with this unwonted
putting-on; methinks strangely, for he hath not used it before.
DUKE VINCENTIO
Pray you, let’s hear.
Provost
[Reads]
‘Whatsoever you may hear to the contrary, let
Claudio be executed by four of the clock; and in the
afternoon Barnardine: for my better satisfaction,
let me have Claudio’s head sent me by five. Let
this be duly performed; with a thought that more
depends on it than we must yet deliver. Thus fail
not to do your office, as you will answer it at your peril.’
What say you to this, sir?
DUKE VINCENTIO
What is that Barnardine who is to be executed in the
afternoon?
Provost
A Bohemian born, but here nursed un and bred; one
that is a prisoner nine years old.
DUKE VINCENTIO
How came it that the absent duke had not either
delivered him to his liberty or executed him? I
have heard it was ever his manner to do so.
Provost
His friends still wrought reprieves for him: and,
indeed, his fact, till now in the government of Lord
Angelo, came not to an undoubtful proof.
DUKE VINCENTIO
It is now apparent?
Provost
Most manifest, and not denied by himself.
DUKE VINCENTIO
Hath he born himself penitently in prison? how
seems he to be touched?
Provost
A man that apprehends death no more dreadfully but
as a drunken sleep; careless, reckless, and fearless
of what’s past, present, or to come; insensible of
mortality, and desperately mortal.
DUKE VINCENTIO
He wants advice.
Provost
He will hear none: he hath evermore had the liberty
of the prison; give him leave to escape hence, he
would not: drunk many times a day, if not many days
entirely drunk. We have very oft awaked him, as if
to carry him to execution, and showed him a seeming
warrant for it: it hath not moved him at all.
DUKE VINCENTIO
More of him anon. There is written in your brow,
provost, honesty and constancy: if I read it not
truly, my ancient skill beguiles me; but, in the
boldness of my cunning, I will lay myself in hazard.
Claudio, whom here you have warrant to execute, is
no greater forfeit to the law than Angelo who hath
sentenced him. To make you understand this in a
manifested effect, I crave but four days’ respite;
for the which you are to do me both a present and a
dangerous courtesy.
Provost
Pray, sir, in what?
DUKE VINCENTIO
In the delaying death.
Provost
A lack, how may I do it, having the hour limited,
and an express command, under penalty, to deliver
his head in the view of Angelo? I may make my case
as Claudio’s, to cross this in the smallest.
DUKE VINCENTIO
By the vow of mine order I warrant you, if my
instructions may be your guide. Let this Barnardine
be this morning executed, and his head born to Angelo.
Provost
Angelo hath seen them both, and will discover the favour.
DUKE VINCENTIO
O, death’s a great disguiser; and you may add to it.
Shave the head, and tie the beard; and say it was
the desire of the penitent to be so bared before his
death: you know the course is common. If any thing
fall to you upon this, more than thanks and good
fortune, by the saint whom I profess, I will plead
against it with my life.
Provost
Pardon me, good father; it is against my oath.
DUKE VINCENTIO
Were you sworn to the duke, or to the deputy?
Provost
To him, and to his substitutes.
DUKE VINCENTIO
You will think you have made no offence, if the duke
avouch the justice of your dealing?
Provost
But what likelihood is in that?
DUKE VINCENTIO
Not a resemblance, but a certainty. Yet since I see
you fearful, that neither my coat, integrity, nor
persuasion can with ease attempt you, I will go
further than I meant, to pluck all fears out of you.
Look you, sir, here is the hand and seal of the
duke: you know the character, I doubt not; and the
signet is not strange to you.
Provost
I know them both.
DUKE VINCENTIO
The contents of this is the return of the duke: you
shall anon over-read it at your pleasure; where you
shall find, within these two days he will be here.
This is a thing that Angelo knows not; for he this
very day receives letters of strange tenor;
perchance of the duke’s death; perchance entering
into some monastery; but, by chance, nothing of what
is writ. Look, the unfolding star calls up the
shepherd. Put not yourself into amazement how these
things should be: all difficulties are but easy
when they are known. Call your executioner, and off
with Barnardine’s head: I will give him a present
shrift and advise him for a better place. Yet you
are amazed; but this shall absolutely resolve you.
Come away; it is almost clear dawn.
Exeunt

SCENE III. Another room in the same.
Enter POMPEY
POMPEY
I am as well acquainted here as I was in our house
of profession: one would think it were Mistress
Overdone’s own house, for here be many of her old
customers. First, here’s young Master Rash; he’s in
for a commodity of brown paper and old ginger,
ninescore and seventeen pounds; of which he made
five marks, ready money: marry, then ginger was not
much in request, for the old women were all dead.
Then is there here one Master Caper, at the suit of
Master Three-pile the mercer, for some four suits of
peach-coloured satin, which now peaches him a
beggar. Then have we here young Dizy, and young
Master Deep-vow, and Master Copperspur, and Master
Starve-lackey the rapier and dagger man, and young
Drop-heir that killed lusty Pudding, and Master
Forthlight the tilter, and brave Master Shooty the
great traveller, and wild Half-can that stabbed
Pots, and, I think, forty more; all great doers in
our trade, and are now ‘for the Lord’s sake.’
Enter ABHORSON

ABHORSON
Sirrah, bring Barnardine hither.
POMPEY
Master Barnardine! you must rise and be hanged.
Master Barnardine!
ABHORSON
What, ho, Barnardine!
BARNARDINE
[Within] A pox o’ your throats! Who makes that
noise there? What are you?
POMPEY
Your friends, sir; the hangman. You must be so
good, sir, to rise and be put to death.
BARNARDINE
[Within] Away, you rogue, away! I am sleepy.
ABHORSON
Tell him he must awake, and that quickly too.
POMPEY
Pray, Master Barnardine, awake till you are
executed, and sleep afterwards.
ABHORSON
Go in to him, and fetch him out.
POMPEY
He is coming, sir, he is coming; I hear his straw rustle.
ABHORSON
Is the axe upon the block, sirrah?
POMPEY
Very ready, sir.
Enter BARNARDINE

BARNARDINE
How now, Abhorson? what’s the news with you?
ABHORSON
Truly, sir, I would desire you to clap into your
prayers; for, look you, the warrant’s come.
BARNARDINE
You rogue, I have been drinking all night; I am not
fitted for ‘t.
POMPEY
O, the better, sir; for he that drinks all night,
and is hanged betimes in the morning, may sleep the
sounder all the next day.
ABHORSON
Look you, sir; here comes your ghostly father: do
we jest now, think you?
Enter DUKE VINCENTIO disguised as before

DUKE VINCENTIO
Sir, induced by my charity, and hearing how hastily
you are to depart, I am come to advise you, comfort
you and pray with you.
BARNARDINE
Friar, not I I have been drinking hard all night,
and I will have more time to prepare me, or they
shall beat out my brains with billets: I will not
consent to die this day, that’s certain.
DUKE VINCENTIO
O, sir, you must: and therefore I beseech you
Look forward on the journey you shall go.
BARNARDINE
I swear I will not die to-day for any man’s
persuasion.
DUKE VINCENTIO
But hear you.
BARNARDINE
Not a word: if you have any thing to say to me,
come to my ward; for thence will not I to-day.
Exit

DUKE VINCENTIO
Unfit to live or die: O gravel heart!
After him, fellows; bring him to the block.
Exeunt ABHORSON and POMPEY

Re-enter Provost

Provost
Now, sir, how do you find the prisoner?
DUKE VINCENTIO
A creature unprepared, unmeet for death;
And to transport him in the mind he is
Were damnable.
Provost
Here in the prison, father,
There died this morning of a cruel fever
One Ragozine, a most notorious pirate,
A man of Claudio’s years; his beard and head
Just of his colour. What if we do omit
This reprobate till he were well inclined;
And satisfy the deputy with the visage
Of Ragozine, more like to Claudio?
DUKE VINCENTIO
O, ’tis an accident that heaven provides!
Dispatch it presently; the hour draws on
Prefix’d by Angelo: see this be done,
And sent according to command; whiles I
Persuade this rude wretch willingly to die.
Provost
This shall be done, good father, presently.
But Barnardine must die this afternoon:
And how shall we continue Claudio,
To save me from the danger that might come
If he were known alive?
DUKE VINCENTIO
Let this be done.
Put them in secret holds, both Barnardine and Claudio:
Ere twice the sun hath made his journal greeting
To the under generation, you shall find
Your safety manifested.
Provost
I am your free dependant.
DUKE VINCENTIO
Quick, dispatch, and send the head to Angelo.
Exit Provost

Now will I write letters to Angelo,–
The provost, he shall bear them, whose contents
Shall witness to him I am near at home,
And that, by great injunctions, I am bound
To enter publicly: him I’ll desire
To meet me at the consecrated fount
A league below the city; and from thence,
By cold gradation and well-balanced form,
We shall proceed with Angelo.
Re-enter Provost

Provost
Here is the head; I’ll carry it myself.
DUKE VINCENTIO
Convenient is it. Make a swift return;
For I would commune with you of such things
That want no ear but yours.
Provost
I’ll make all speed.
Exit

ISABELLA
[Within] Peace, ho, be here!
DUKE VINCENTIO
The tongue of Isabel. She’s come to know
If yet her brother’s pardon be come hither:
But I will keep her ignorant of her good,
To make her heavenly comforts of despair,
When it is least expected.
Enter ISABELLA

ISABELLA
Ho, by your leave!
DUKE VINCENTIO
Good morning to you, fair and gracious daughter.
ISABELLA
The better, given me by so holy a man.
Hath yet the deputy sent my brother’s pardon?
DUKE VINCENTIO
He hath released him, Isabel, from the world:
His head is off and sent to Angelo.
ISABELLA
Nay, but it is not so.
DUKE VINCENTIO
It is no other: show your wisdom, daughter,
In your close patience.
ISABELLA
O, I will to him and pluck out his eyes!
DUKE VINCENTIO
You shall not be admitted to his sight.
ISABELLA
Unhappy Claudio! wretched Isabel!
Injurious world! most damned Angelo!
DUKE VINCENTIO
This nor hurts him nor profits you a jot;
Forbear it therefore; give your cause to heaven.
Mark what I say, which you shall find
By every syllable a faithful verity:
The duke comes home to-morrow; nay, dry your eyes;
One of our convent, and his confessor,
Gives me this instance: already he hath carried
Notice to Escalus and Angelo,
Who do prepare to meet him at the gates,
There to give up their power. If you can, pace your wisdom
In that good path that I would wish it go,
And you shall have your bosom on this wretch,
Grace of the duke, revenges to your heart,
And general honour.
ISABELLA
I am directed by you.
DUKE VINCENTIO
This letter, then, to Friar Peter give;
‘Tis that he sent me of the duke’s return:
Say, by this token, I desire his company
At Mariana’s house to-night. Her cause and yours
I’ll perfect him withal, and he shall bring you
Before the duke, and to the head of Angelo
Accuse him home and home. For my poor self,
I am combined by a sacred vow
And shall be absent. Wend you with this letter:
Command these fretting waters from your eyes
With a light heart; trust not my holy order,
If I pervert your course. Who’s here?
Enter LUCIO

LUCIO
Good even. Friar, where’s the provost?
DUKE VINCENTIO
Not within, sir.
LUCIO
O pretty Isabella, I am pale at mine heart to see
thine eyes so red: thou must be patient. I am fain
to dine and sup with water and bran; I dare not for
my head fill my belly; one fruitful meal would set
me to ‘t. But they say the duke will be here
to-morrow. By my troth, Isabel, I loved thy brother:
if the old fantastical duke of dark corners had been
at home, he had lived.
Exit ISABELLA

DUKE VINCENTIO
Sir, the duke is marvellous little beholding to your
reports; but the best is, he lives not in them.
LUCIO
Friar, thou knowest not the duke so well as I do:
he’s a better woodman than thou takest him for.
DUKE VINCENTIO
Well, you’ll answer this one day. Fare ye well.
LUCIO
Nay, tarry; I’ll go along with thee
I can tell thee pretty tales of the duke.
DUKE VINCENTIO
You have told me too many of him already, sir, if
they be true; if not true, none were enough.
LUCIO
I was once before him for getting a wench with child.
DUKE VINCENTIO
Did you such a thing?
LUCIO
Yes, marry, did I but I was fain to forswear it;
they would else have married me to the rotten medlar.
DUKE VINCENTIO
Sir, your company is fairer than honest. Rest you well.
LUCIO
By my troth, I’ll go with thee to the lane’s end:
if bawdy talk offend you, we’ll have very little of
it. Nay, friar, I am a kind of burr; I shall stick.
Exeunt

SCENE IV. A room in ANGELO’s house.
Enter ANGELO and ESCALUS
ESCALUS
Every letter he hath writ hath disvouched other.
ANGELO
In most uneven and distracted manner. His actions
show much like to madness: pray heaven his wisdom be
not tainted! And why meet him at the gates, and
redeliver our authorities there
ESCALUS
I guess not.
ANGELO
And why should we proclaim it in an hour before his
entering, that if any crave redress of injustice,
they should exhibit their petitions in the street?
ESCALUS
He shows his reason for that: to have a dispatch of
complaints, and to deliver us from devices
hereafter, which shall then have no power to stand
against us.
ANGELO
Well, I beseech you, let it be proclaimed betimes
i’ the morn; I’ll call you at your house: give
notice to such men of sort and suit as are to meet
him.
ESCALUS
I shall, sir. Fare you well.
ANGELO
Good night.
Exit ESCALUS

This deed unshapes me quite, makes me unpregnant
And dull to all proceedings. A deflower’d maid!
And by an eminent body that enforced
The law against it! But that her tender shame
Will not proclaim against her maiden loss,
How might she tongue me! Yet reason dares her no;
For my authority bears of a credent bulk,
That no particular scandal once can touch
But it confounds the breather. He should have lived,
Save that riotous youth, with dangerous sense,
Might in the times to come have ta’en revenge,
By so receiving a dishonour’d life
With ransom of such shame. Would yet he had lived!
A lack, when once our grace we have forgot,
Nothing goes right: we would, and we would not.
Exit

SCENE V. Fields without the town.
Enter DUKE VINCENTIO in his own habit, and FRIAR PETER
DUKE VINCENTIO
These letters at fit time deliver me
Giving letters

The provost knows our purpose and our plot.
The matter being afoot, keep your instruction,
And hold you ever to our special drift;
Though sometimes you do blench from this to that,
As cause doth minister. Go call at Flavius’ house,
And tell him where I stay: give the like notice
To Valentinus, Rowland, and to Crassus,
And bid them bring the trumpets to the gate;
But send me Flavius first.
FRIAR PETER
It shall be speeded well.
Exit

Enter VARRIUS

DUKE VINCENTIO
I thank thee, Varrius; thou hast made good haste:
Come, we will walk. There’s other of our friends
Will greet us here anon, my gentle Varrius.
Exeunt

SCENE VI. Street near the city gate.
Enter ISABELLA and MARIANA
ISABELLA
To speak so indirectly I am loath:
I would say the truth; but to accuse him so,
That is your part: yet I am advised to do it;
He says, to veil full purpose.
MARIANA
Be ruled by him.
ISABELLA
Besides, he tells me that, if peradventure
He speak against me on the adverse side,
I should not think it strange; for ’tis a physic
That’s bitter to sweet end.
MARIANA
I would Friar Peter–
ISABELLA
O, peace! the friar is come.
Enter FRIAR PETER

FRIAR PETER
Come, I have found you out a stand most fit,
Where you may have such vantage on the duke,
He shall not pass you. Twice have the trumpets sounded;
The generous and gravest citizens
Have hent the gates, and very near upon
The duke is entering: therefore, hence, away!
Exeunt

ACT V
SCENE I. The city gate.
MARIANA veiled, ISABELLA, and FRIAR PETER, at their stand. Enter DUKE VINCENTIO, VARRIUS, Lords, ANGELO, ESCALUS, LUCIO, Provost, Officers, and Citizens, at several doors
DUKE VINCENTIO
My very worthy cousin, fairly met!
Our old and faithful friend, we are glad to see you.
ANGELO ESCALUS
Happy return be to your royal grace!
DUKE VINCENTIO
Many and hearty thankings to you both.
We have made inquiry of you; and we hear
Such goodness of your justice, that our soul
Cannot but yield you forth to public thanks,
Forerunning more requital.
ANGELO
You make my bonds still greater.
DUKE VINCENTIO
O, your desert speaks loud; and I should wrong it,
To lock it in the wards of covert bosom,
When it deserves, with characters of brass,
A forted residence ‘gainst the tooth of time
And razure of oblivion. Give me your hand,
And let the subject see, to make them know
That outward courtesies would fain proclaim
Favours that keep within. Come, Escalus,
You must walk by us on our other hand;
And good supporters are you.
FRIAR PETER and ISABELLA come forward

FRIAR PETER
Now is your time: speak loud and kneel before him.
ISABELLA
Justice, O royal duke! Vail your regard
Upon a wrong’d, I would fain have said, a maid!
O worthy prince, dishonour not your eye
By throwing it on any other object
Till you have heard me in my true complaint
And given me justice, justice, justice, justice!
DUKE VINCENTIO
Relate your wrongs; in what? by whom? be brief.
Here is Lord Angelo shall give you justice:
Reveal yourself to him.
ISABELLA
O worthy duke,
You bid me seek redemption of the devil:
Hear me yourself; for that which I must speak
Must either punish me, not being believed,
Or wring redress from you. Hear me, O hear me, here!
ANGELO
My lord, her wits, I fear me, are not firm:
She hath been a suitor to me for her brother
Cut off by course of justice,–
ISABELLA
By course of justice!
ANGELO
And she will speak most bitterly and strange.
ISABELLA
Most strange, but yet most truly, will I speak:
That Angelo’s forsworn; is it not strange?
That Angelo’s a murderer; is ‘t not strange?
That Angelo is an adulterous thief,
An hypocrite, a virgin-violator;
Is it not strange and strange?
DUKE VINCENTIO
Nay, it is ten times strange.
ISABELLA
It is not truer he is Angelo
Than this is all as true as it is strange:
Nay, it is ten times true; for truth is truth
To the end of reckoning.
DUKE VINCENTIO
Away with her! Poor soul,
She speaks this in the infirmity of sense.
ISABELLA
O prince, I conjure thee, as thou believest
There is another comfort than this world,
That thou neglect me not, with that opinion
That I am touch’d with madness! Make not impossible
That which but seems unlike: ’tis not impossible
But one, the wicked’st caitiff on the ground,
May seem as shy, as grave, as just, as absolute
As Angelo; even so may Angelo,
In all his dressings, characts, titles, forms,
Be an arch-villain; believe it, royal prince:
If he be less, he’s nothing; but he’s more,
Had I more name for badness.
DUKE VINCENTIO
By mine honesty,
If she be mad,–as I believe no other,–
Her madness hath the oddest frame of sense,
Such a dependency of thing on thing,
As e’er I heard in madness.
ISABELLA
O gracious duke,
Harp not on that, nor do not banish reason
For inequality; but let your reason serve
To make the truth appear where it seems hid,
And hide the false seems true.
DUKE VINCENTIO
Many that are not mad
Have, sure, more lack of reason. What would you say?
ISABELLA
I am the sister of one Claudio,
Condemn’d upon the act of fornication
To lose his head; condemn’d by Angelo:
I, in probation of a sisterhood,
Was sent to by my brother; one Lucio
As then the messenger,–
LUCIO
That’s I, an’t like your grace:
I came to her from Claudio, and desired her
To try her gracious fortune with Lord Angelo
For her poor brother’s pardon.
ISABELLA
That’s he indeed.
DUKE VINCENTIO
You were not bid to speak.
LUCIO
No, my good lord;
Nor wish’d to hold my peace.
DUKE VINCENTIO
I wish you now, then;
Pray you, take note of it: and when you have
A business for yourself, pray heaven you then
Be perfect.
LUCIO
I warrant your honour.
DUKE VINCENTIO
The warrants for yourself; take heed to’t.
ISABELLA
This gentleman told somewhat of my tale,–
LUCIO
Right.
DUKE VINCENTIO
It may be right; but you are i’ the wrong
To speak before your time. Proceed.
ISABELLA
I went
To this pernicious caitiff deputy,–
DUKE VINCENTIO
That’s somewhat madly spoken.
ISABELLA
Pardon it;
The phrase is to the matter.
DUKE VINCENTIO
Mended again. The matter; proceed.
ISABELLA
In brief, to set the needless process by,
How I persuaded, how I pray’d, and kneel’d,
How he refell’d me, and how I replied,–
For this was of much length,–the vile conclusion
I now begin with grief and shame to utter:
He would not, but by gift of my chaste body
To his concupiscible intemperate lust,
Release my brother; and, after much debatement,
My sisterly remorse confutes mine honour,
And I did yield to him: but the next morn betimes,
His purpose surfeiting, he sends a warrant
For my poor brother’s head.
DUKE VINCENTIO
This is most likely!
ISABELLA
O, that it were as like as it is true!
DUKE VINCENTIO
By heaven, fond wretch, thou knowist not what thou speak’st,
Or else thou art suborn’d against his honour
In hateful practise. First, his integrity
Stands without blemish. Next, it imports no reason
That with such vehemency he should pursue
Faults proper to himself: if he had so offended,
He would have weigh’d thy brother by himself
And not have cut him off. Some one hath set you on:
Confess the truth, and say by whose advice
Thou camest here to complain.
ISABELLA
And is this all?
Then, O you blessed ministers above,
Keep me in patience, and with ripen’d time
Unfold the evil which is here wrapt up
In countenance! Heaven shield your grace from woe,
As I, thus wrong’d, hence unbelieved go!
DUKE VINCENTIO
I know you’ld fain be gone. An officer!
To prison with her! Shall we thus permit
A blasting and a scandalous breath to fall
On him so near us? This needs must be a practise.
Who knew of Your intent and coming hither?
ISABELLA
One that I would were here, Friar Lodowick.
DUKE VINCENTIO
A ghostly father, belike. Who knows that Lodowick?
LUCIO
My lord, I know him; ’tis a meddling friar;
I do not like the man: had he been lay, my lord
For certain words he spake against your grace
In your retirement, I had swinged him soundly.
DUKE VINCENTIO
Words against me? this is a good friar, belike!
And to set on this wretched woman here
Against our substitute! Let this friar be found.
LUCIO
But yesternight, my lord, she and that friar,
I saw them at the prison: a saucy friar,
A very scurvy fellow.
FRIAR PETER
Blessed be your royal grace!
I have stood by, my lord, and I have heard
Your royal ear abused. First, hath this woman
Most wrongfully accused your substitute,
Who is as free from touch or soil with her
As she from one ungot.
DUKE VINCENTIO
We did believe no less.
Know you that Friar Lodowick that she speaks of?
FRIAR PETER
I know him for a man divine and holy;
Not scurvy, nor a temporary meddler,
As he’s reported by this gentleman;
And, on my trust, a man that never yet
Did, as he vouches, misreport your grace.
LUCIO
My lord, most villanously; believe it.
FRIAR PETER
Well, he in time may come to clear himself;
But at this instant he is sick my lord,
Of a strange fever. Upon his mere request,
Being come to knowledge that there was complaint
Intended ‘gainst Lord Angelo, came I hither,
To speak, as from his mouth, what he doth know
Is true and false; and what he with his oath
And all probation will make up full clear,
Whensoever he’s convented. First, for this woman.
To justify this worthy nobleman,
So vulgarly and personally accused,
Her shall you hear disproved to her eyes,
Till she herself confess it.
DUKE VINCENTIO
Good friar, let’s hear it.
ISABELLA is carried off guarded; and MARIANA comes forward

Do you not smile at this, Lord Angelo?
O heaven, the vanity of wretched fools!
Give us some seats. Come, cousin Angelo;
In this I’ll be impartial; be you judge
Of your own cause. Is this the witness, friar?
First, let her show her face, and after speak.
MARIANA
Pardon, my lord; I will not show my face
Until my husband bid me.
DUKE VINCENTIO
What, are you married?
MARIANA
No, my lord.
DUKE VINCENTIO
Are you a maid?
MARIANA
No, my lord.
DUKE VINCENTIO
A widow, then?
MARIANA
Neither, my lord.
DUKE VINCENTIO
Why, you are nothing then: neither maid, widow, nor wife?
LUCIO
My lord, she may be a punk; for many of them are
neither maid, widow, nor wife.
DUKE VINCENTIO
Silence that fellow: I would he had some cause
To prattle for himself.
LUCIO
Well, my lord.
MARIANA
My lord; I do confess I ne’er was married;
And I confess besides I am no maid:
I have known my husband; yet my husband
Knows not that ever he knew me.
LUCIO
He was drunk then, my lord: it can be no better.
DUKE VINCENTIO
For the benefit of silence, would thou wert so too!
LUCIO
Well, my lord.
DUKE VINCENTIO
This is no witness for Lord Angelo.
MARIANA
Now I come to’t my lord
She that accuses him of fornication,
In self-same manner doth accuse my husband,
And charges him my lord, with such a time
When I’ll depose I had him in mine arms
With all the effect of love.
ANGELO
Charges she more than me?
MARIANA
Not that I know.
DUKE VINCENTIO
No? you say your husband.
MARIANA
Why, just, my lord, and that is Angelo,
Who thinks he knows that he ne’er knew my body,
But knows he thinks that he knows Isabel’s.
ANGELO
This is a strange abuse. Let’s see thy face.
MARIANA
My husband bids me; now I will unmask.
Unveiling

This is that face, thou cruel Angelo,
Which once thou sworest was worth the looking on;
This is the hand which, with a vow’d contract,
Was fast belock’d in thine; this is the body
That took away the match from Isabel,
And did supply thee at thy garden-house
In her imagined person.
DUKE VINCENTIO
Know you this woman?
LUCIO
Carnally, she says.
DUKE VINCENTIO
Sirrah, no more!
LUCIO
Enough, my lord.
ANGELO
My lord, I must confess I know this woman:
And five years since there was some speech of marriage
Betwixt myself and her; which was broke off,
Partly for that her promised proportions
Came short of composition, but in chief
For that her reputation was disvalued
In levity: since which time of five years
I never spake with her, saw her, nor heard from her,
Upon my faith and honour.
MARIANA
Noble prince,
As there comes light from heaven and words from breath,
As there is sense in truth and truth in virtue,
I am affianced this man’s wife as strongly
As words could make up vows: and, my good lord,
But Tuesday night last gone in’s garden-house
He knew me as a wife. As this is true,
Let me in safety raise me from my knees
Or else for ever be confixed here,
A marble monument!
ANGELO
I did but smile till now:
Now, good my lord, give me the scope of justice
My patience here is touch’d. I do perceive
These poor informal women are no more
But instruments of some more mightier member
That sets them on: let me have way, my lord,
To find this practise out.
DUKE VINCENTIO
Ay, with my heart
And punish them to your height of pleasure.
Thou foolish friar, and thou pernicious woman,
Compact with her that’s gone, think’st thou thy oaths,
Though they would swear down each particular saint,
Were testimonies against his worth and credit
That’s seal’d in approbation? You, Lord Escalus,
Sit with my cousin; lend him your kind pains
To find out this abuse, whence ’tis derived.
There is another friar that set them on;
Let him be sent for.
FRIAR PETER
Would he were here, my lord! for he indeed
Hath set the women on to this complaint:
Your provost knows the place where he abides
And he may fetch him.
DUKE VINCENTIO
Go do it instantly.
Exit Provost

And you, my noble and well-warranted cousin,
Whom it concerns to hear this matter forth,
Do with your injuries as seems you best,
In any chastisement: I for a while will leave you;
But stir not you till you have well determined
Upon these slanderers.
ESCALUS
My lord, we’ll do it throughly.
Exit DUKE

Signior Lucio, did not you say you knew that
Friar Lodowick to be a dishonest person?
LUCIO
‘Cucullus non facit monachum:’ honest in nothing
but in his clothes; and one that hath spoke most
villanous speeches of the duke.
ESCALUS
We shall entreat you to abide here till he come and
enforce them against him: we shall find this friar a
notable fellow.
LUCIO
As any in Vienna, on my word.
ESCALUS
Call that same Isabel here once again; I would speak with her.
Exit an Attendant

Pray you, my lord, give me leave to question; you
shall see how I’ll handle her.
LUCIO
Not better than he, by her own report.
ESCALUS
Say you?
LUCIO
Marry, sir, I think, if you handled her privately,
she would sooner confess: perchance, publicly,
she’ll be ashamed.
ESCALUS
I will go darkly to work with her.
LUCIO
That’s the way; for women are light at midnight.
Re-enter Officers with ISABELLA; and Provost with the DUKE VINCENTIO in his friar’s habit

ESCALUS
Come on, mistress: here’s a gentlewoman denies all
that you have said.
LUCIO
My lord, here comes the rascal I spoke of; here with
the provost.
ESCALUS
In very good time: speak not you to him till we
call upon you.
LUCIO
Mum.
ESCALUS
Come, sir: did you set these women on to slander
Lord Angelo? they have confessed you did.
DUKE VINCENTIO
‘Tis false.
ESCALUS
How! know you where you are?
DUKE VINCENTIO
Respect to your great place! and let the devil
Be sometime honour’d for his burning throne!
Where is the duke? ’tis he should hear me speak.
ESCALUS
The duke’s in us; and we will hear you speak:
Look you speak justly.
DUKE VINCENTIO
Boldly, at least. But, O, poor souls,
Come you to seek the lamb here of the fox?
Good night to your redress! Is the duke gone?
Then is your cause gone too. The duke’s unjust,
Thus to retort your manifest appeal,
And put your trial in the villain’s mouth
Which here you come to accuse.
LUCIO
This is the rascal; this is he I spoke of.
ESCALUS
Why, thou unreverend and unhallow’d friar,
Is’t not enough thou hast suborn’d these women
To accuse this worthy man, but, in foul mouth
And in the witness of his proper ear,
To call him villain? and then to glance from him
To the duke himself, to tax him with injustice?
Take him hence; to the rack with him! We’ll touse you
Joint by joint, but we will know his purpose.
What ‘unjust’!
DUKE VINCENTIO
Be not so hot; the duke
Dare no more stretch this finger of mine than he
Dare rack his own: his subject am I not,
Nor here provincial. My business in this state
Made me a looker on here in Vienna,
Where I have seen corruption boil and bubble
Till it o’er-run the stew; laws for all faults,
But faults so countenanced, that the strong statutes
Stand like the forfeits in a barber’s shop,
As much in mock as mark.
ESCALUS
Slander to the state! Away with him to prison!
ANGELO
What can you vouch against him, Signior Lucio?
Is this the man that you did tell us of?
LUCIO
‘Tis he, my lord. Come hither, goodman baldpate:
do you know me?
DUKE VINCENTIO
I remember you, sir, by the sound of your voice: I
met you at the prison, in the absence of the duke.
LUCIO
O, did you so? And do you remember what you said of the duke?
DUKE VINCENTIO
Most notedly, sir.
LUCIO
Do you so, sir? And was the duke a fleshmonger, a
fool, and a coward, as you then reported him to be?
DUKE VINCENTIO
You must, sir, change persons with me, ere you make
that my report: you, indeed, spoke so of him; and
much more, much worse.
LUCIO
O thou damnable fellow! Did not I pluck thee by the
nose for thy speeches?
DUKE VINCENTIO
I protest I love the duke as I love myself.
ANGELO
Hark, how the villain would close now, after his
treasonable abuses!
ESCALUS
Such a fellow is not to be talked withal. Away with
him to prison! Where is the provost? Away with him
to prison! lay bolts enough upon him: let him
speak no more. Away with those giglots too, and
with the other confederate companion!
DUKE VINCENTIO
[To Provost] Stay, sir; stay awhile.
ANGELO
What, resists he? Help him, Lucio.
LUCIO
Come, sir; come, sir; come, sir; foh, sir! Why, you
bald-pated, lying rascal, you must be hooded, must
you? Show your knave’s visage, with a pox to you!
show your sheep-biting face, and be hanged an hour!
Will’t not off?
Pulls off the friar’s hood, and discovers DUKE VINCENTIO

DUKE VINCENTIO
Thou art the first knave that e’er madest a duke.
First, provost, let me bail these gentle three.
To LUCIO

Sneak not away, sir; for the friar and you
Must have a word anon. Lay hold on him.
LUCIO
This may prove worse than hanging.
DUKE VINCENTIO
[To ESCALUS] What you have spoke I pardon: sit you down:
We’ll borrow place of him.
To ANGELO

Sir, by your leave.
Hast thou or word, or wit, or impudence,
That yet can do thee office? If thou hast,
Rely upon it till my tale be heard,
And hold no longer out.
ANGELO
O my dread lord,
I should be guiltier than my guiltiness,
To think I can be undiscernible,
When I perceive your grace, like power divine,
Hath look’d upon my passes. Then, good prince,
No longer session hold upon my shame,
But let my trial be mine own confession:
Immediate sentence then and sequent death
Is all the grace I beg.
DUKE VINCENTIO
Come hither, Mariana.
Say, wast thou e’er contracted to this woman?
ANGELO
I was, my lord.
DUKE VINCENTIO
Go take her hence, and marry her instantly.
Do you the office, friar; which consummate,
Return him here again. Go with him, provost.
Exeunt ANGELO, MARIANA, FRIAR PETER and Provost

ESCALUS
My lord, I am more amazed at his dishonour
Than at the strangeness of it.
DUKE VINCENTIO
Come hither, Isabel.
Your friar is now your prince: as I was then
Advertising and holy to your business,
Not changing heart with habit, I am still
Attorney’d at your service.
ISABELLA
O, give me pardon,
That I, your vassal, have employ’d and pain’d
Your unknown sovereignty!
DUKE VINCENTIO
You are pardon’d, Isabel:
And now, dear maid, be you as free to us.
Your brother’s death, I know, sits at your heart;
And you may marvel why I obscured myself,
Labouring to save his life, and would not rather
Make rash remonstrance of my hidden power
Than let him so be lost. O most kind maid,
It was the swift celerity of his death,
Which I did think with slower foot came on,
That brain’d my purpose. But, peace be with him!
That life is better life, past fearing death,
Than that which lives to fear: make it your comfort,
So happy is your brother.
ISABELLA
I do, my lord.
Re-enter ANGELO, MARIANA, FRIAR PETER, and Provost

DUKE VINCENTIO
For this new-married man approaching here,
Whose salt imagination yet hath wrong’d
Your well defended honour, you must pardon
For Mariana’s sake: but as he adjudged your brother,–
Being criminal, in double violation
Of sacred chastity and of promise-breach
Thereon dependent, for your brother’s life,–
The very mercy of the law cries out
Most audible, even from his proper tongue,
‘An Angelo for Claudio, death for death!’
Haste still pays haste, and leisure answers leisure;
Like doth quit like, and MEASURE still FOR MEASURE.
Then, Angelo, thy fault’s thus manifested;
Which, though thou wouldst deny, denies thee vantage.
We do condemn thee to the very block
Where Claudio stoop’d to death, and with like haste.
Away with him!
MARIANA
O my most gracious lord,
I hope you will not mock me with a husband.
DUKE VINCENTIO
It is your husband mock’d you with a husband.
Consenting to the safeguard of your honour,
I thought your marriage fit; else imputation,
For that he knew you, might reproach your life
And choke your good to come; for his possessions,
Although by confiscation they are ours,
We do instate and widow you withal,
To buy you a better husband.
MARIANA
O my dear lord,
I crave no other, nor no better man.
DUKE VINCENTIO
Never crave him; we are definitive.
MARIANA
Gentle my liege,–
Kneeling

DUKE VINCENTIO
You do but lose your labour.
Away with him to death!
To LUCIO

Now, sir, to you.
MARIANA
O my good lord! Sweet Isabel, take my part;
Lend me your knees, and all my life to come
I’ll lend you all my life to do you service.
DUKE VINCENTIO
Against all sense you do importune her:
Should she kneel down in mercy of this fact,
Her brother’s ghost his paved bed would break,
And take her hence in horror.
MARIANA
Isabel,
Sweet Isabel, do yet but kneel by me;
Hold up your hands, say nothing; I’ll speak all.
They say, best men are moulded out of faults;
And, for the most, become much more the better
For being a little bad: so may my husband.
O Isabel, will you not lend a knee?
DUKE VINCENTIO
He dies for Claudio’s death.
ISABELLA
Most bounteous sir,
Kneeling

Look, if it please you, on this man condemn’d,
As if my brother lived: I partly think
A due sincerity govern’d his deeds,
Till he did look on me: since it is so,
Let him not die. My brother had but justice,
In that he did the thing for which he died:
For Angelo,
His act did not o’ertake his bad intent,
And must be buried but as an intent
That perish’d by the way: thoughts are no subjects;
Intents but merely thoughts.
MARIANA
Merely, my lord.
DUKE VINCENTIO
Your suit’s unprofitable; stand up, I say.
I have bethought me of another fault.
Provost, how came it Claudio was beheaded
At an unusual hour?
Provost
It was commanded so.
DUKE VINCENTIO
Had you a special warrant for the deed?
Provost
No, my good lord; it was by private message.
DUKE VINCENTIO
For which I do discharge you of your office:
Give up your keys.
Provost
Pardon me, noble lord:
I thought it was a fault, but knew it not;
Yet did repent me, after more advice;
For testimony whereof, one in the prison,
That should by private order else have died,
I have reserved alive.
DUKE VINCENTIO
What’s he?
Provost
His name is Barnardine.
DUKE VINCENTIO
I would thou hadst done so by Claudio.
Go fetch him hither; let me look upon him.
Exit Provost

ESCALUS
I am sorry, one so learned and so wise
As you, Lord Angelo, have still appear’d,
Should slip so grossly, both in the heat of blood.
And lack of temper’d judgment afterward.
ANGELO
I am sorry that such sorrow I procure:
And so deep sticks it in my penitent heart
That I crave death more willingly than mercy;
‘Tis my deserving, and I do entreat it.
Re-enter Provost, with BARNARDINE, CLAUDIO muffled, and JULIET

DUKE VINCENTIO
Which is that Barnardine?
Provost
This, my lord.
DUKE VINCENTIO
There was a friar told me of this man.
Sirrah, thou art said to have a stubborn soul.
That apprehends no further than this world,
And squarest thy life according. Thou’rt condemn’d:
But, for those earthly faults, I quit them all;
And pray thee take this mercy to provide
For better times to come. Friar, advise him;
I leave him to your hand. What muffled fellow’s that?
Provost
This is another prisoner that I saved.
Who should have died when Claudio lost his head;
As like almost to Claudio as himself.
Unmuffles CLAUDIO

DUKE VINCENTIO
[To ISABELLA] If he be like your brother, for his sake
Is he pardon’d; and, for your lovely sake,
Give me your hand and say you will be mine.
He is my brother too: but fitter time for that.
By this Lord Angelo perceives he’s safe;
Methinks I see a quickening in his eye.
Well, Angelo, your evil quits you well:
Look that you love your wife; her worth worth yours.
I find an apt remission in myself;
And yet here’s one in place I cannot pardon.
To LUCIO

You, sirrah, that knew me for a fool, a coward,
One all of luxury, an ass, a madman;
Wherein have I so deserved of you,
That you extol me thus?
LUCIO
‘Faith, my lord. I spoke it but according to the
trick. If you will hang me for it, you may; but I
had rather it would please you I might be whipt.
DUKE VINCENTIO
Whipt first, sir, and hanged after.
Proclaim it, provost, round about the city.
Is any woman wrong’d by this lewd fellow,
As I have heard him swear himself there’s one
Whom he begot with child, let her appear,
And he shall marry her: the nuptial finish’d,
Let him be whipt and hang’d.
LUCIO
I beseech your highness, do not marry me to a whore.
Your highness said even now, I made you a duke:
good my lord, do not recompense me in making me a cuckold.
DUKE VINCENTIO
Upon mine honour, thou shalt marry her.
Thy slanders I forgive; and therewithal
Remit thy other forfeits. Take him to prison;
And see our pleasure herein executed.
LUCIO
Marrying a punk, my lord, is pressing to death,
whipping, and hanging.
DUKE VINCENTIO
Slandering a prince deserves it.
Exit Officers with LUCIO

She, Claudio, that you wrong’d, look you restore.
Joy to you, Mariana! Love her, Angelo:
I have confess’d her and I know her virtue.
Thanks, good friend Escalus, for thy much goodness:
There’s more behind that is more gratulate.
Thanks, provost, for thy care and secrecy:
We shill employ thee in a worthier place.
Forgive him, Angelo, that brought you home
The head of Ragozine for Claudio’s:
The offence pardons itself. Dear Isabel,
I have a motion much imports your good;
Whereto if you’ll a willing ear incline,
What’s mine is yours and what is yours is mine.
So, bring us to our palace; where we’ll show
What’s yet behind, that’s meet you all should know.
Exeunt

partment in the DUKE’S p

Loves Labours Lost
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ACT I
SCENE I. The king of Navarre’s park.
Enter FERDINAND king of Navarre, BIRON, LONGAVILLE and DUMAIN
FERDINAND
Let fame, that all hunt after in their lives,
Live register’d upon our brazen tombs
And then grace us in the disgrace of death;
When, spite of cormorant devouring Time,
The endeavor of this present breath may buy
That honour which shall bate his scythe’s keen edge
And make us heirs of all eternity.
Therefore, brave conquerors,–for so you are,
That war against your own affections
And the huge army of the world’s desires,–
Our late edict shall strongly stand in force:
Navarre shall be the wonder of the world;
Our court shall be a little Academe,
Still and contemplative in living art.
You three, Biron, Dumain, and Longaville,
Have sworn for three years’ term to live with me
My fellow-scholars, and to keep those statutes
That are recorded in this schedule here:
Your oaths are pass’d; and now subscribe your names,
That his own hand may strike his honour down
That violates the smallest branch herein:
If you are arm’d to do as sworn to do,
Subscribe to your deep oaths, and keep it too.
LONGAVILLE
I am resolved; ’tis but a three years’ fast:
The mind shall banquet, though the body pine:
Fat paunches have lean pates, and dainty bits
Make rich the ribs, but bankrupt quite the wits.
DUMAIN
My loving lord, Dumain is mortified:
The grosser manner of these world’s delights
He throws upon the gross world’s baser slaves:
To love, to wealth, to pomp, I pine and die;
With all these living in philosophy.
BIRON
I can but say their protestation over;
So much, dear liege, I have already sworn,
That is, to live and study here three years.
But there are other strict observances;
As, not to see a woman in that term,
Which I hope well is not enrolled there;
And one day in a week to touch no food
And but one meal on every day beside,
The which I hope is not enrolled there;
And then, to sleep but three hours in the night,
And not be seen to wink of all the day–
When I was wont to think no harm all night
And make a dark night too of half the day–
Which I hope well is not enrolled there:
O, these are barren tasks, too hard to keep,
Not to see ladies, study, fast, not sleep!
FERDINAND
Your oath is pass’d to pass away from these.
BIRON
Let me say no, my liege, an if you please:
I only swore to study with your grace
And stay here in your court for three years’ space.
LONGAVILLE
You swore to that, Biron, and to the rest.
BIRON
By yea and nay, sir, then I swore in jest.
What is the end of study? let me know.
FERDINAND
Why, that to know, which else we should not know.
BIRON
Things hid and barr’d, you mean, from common sense?
FERDINAND
Ay, that is study’s godlike recompense.
BIRON
Come on, then; I will swear to study so,
To know the thing I am forbid to know:
As thus,–to study where I well may dine,
When I to feast expressly am forbid;
Or study where to meet some mistress fine,
When mistresses from common sense are hid;
Or, having sworn too hard a keeping oath,
Study to break it and not break my troth.
If study’s gain be thus and this be so,
Study knows that which yet it doth not know:
Swear me to this, and I will ne’er say no.
FERDINAND
These be the stops that hinder study quite
And train our intellects to vain delight.
BIRON
Why, all delights are vain; but that most vain,
Which with pain purchased doth inherit pain:
As, painfully to pore upon a book
To seek the light of truth; while truth the while
Doth falsely blind the eyesight of his look:
Light seeking light doth light of light beguile:
So, ere you find where light in darkness lies,
Your light grows dark by losing of your eyes.
Study me how to please the eye indeed
By fixing it upon a fairer eye,
Who dazzling so, that eye shall be his heed
And give him light that it was blinded by.
Study is like the heaven’s glorious sun
That will not be deep-search’d with saucy looks:
Small have continual plodders ever won
Save base authority from others’ books
These earthly godfathers of heaven’s lights
That give a name to every fixed star
Have no more profit of their shining nights
Than those that walk and wot not what they are.
Too much to know is to know nought but fame;
And every godfather can give a name.
FERDINAND
How well he’s read, to reason against reading!
DUMAIN
Proceeded well, to stop all good proceeding!
LONGAVILLE
He weeds the corn and still lets grow the weeding.
BIRON
The spring is near when green geese are a-breeding.
DUMAIN
How follows that?
BIRON
Fit in his place and time.
DUMAIN
In reason nothing.
BIRON
Something then in rhyme.
FERDINAND
Biron is like an envious sneaping frost,
That bites the first-born infants of the spring.
BIRON
Well, say I am; why should proud summer boast
Before the birds have any cause to sing?
Why should I joy in any abortive birth?
At Christmas I no more desire a rose
Than wish a snow in May’s new-fangled mirth;
But like of each thing that in season grows.
So you, to study now it is too late,
Climb o’er the house to unlock the little gate.
FERDINAND
Well, sit you out: go home, Biron: adieu.
BIRON
No, my good lord; I have sworn to stay with you:
And though I have for barbarism spoke more
Than for that angel knowledge you can say,
Yet confident I’ll keep what I have swore
And bide the penance of each three years’ day.
Give me the paper; let me read the same;
And to the strict’st decrees I’ll write my name.
FERDINAND
How well this yielding rescues thee from shame!
BIRON
[Reads] ‘Item, That no woman shall come within a
mile of my court:’ Hath this been proclaimed?
LONGAVILLE
Four days ago.
BIRON
Let’s see the penalty.
Reads

‘On pain of losing her tongue.’ Who devised this penalty?
LONGAVILLE
Marry, that did I.
BIRON
Sweet lord, and why?
LONGAVILLE
To fright them hence with that dread penalty.
BIRON
A dangerous law against gentility!
Reads

‘Item, If any man be seen to talk with a woman
within the term of three years, he shall endure such
public shame as the rest of the court can possibly devise.’
This article, my liege, yourself must break;
For well you know here comes in embassy
The French king’s daughter with yourself to speak–
A maid of grace and complete majesty–
About surrender up of Aquitaine
To her decrepit, sick and bedrid father:
Therefore this article is made in vain,
Or vainly comes the admired princess hither.
FERDINAND
What say you, lords? Why, this was quite forgot.
BIRON
So study evermore is overshot:
While it doth study to have what it would
It doth forget to do the thing it should,
And when it hath the thing it hunteth most,
‘Tis won as towns with fire, so won, so lost.
FERDINAND
We must of force dispense with this decree;
She must lie here on mere necessity.
BIRON
Necessity will make us all forsworn
Three thousand times within this three years’ space;
For every man with his affects is born,
Not by might master’d but by special grace:
If I break faith, this word shall speak for me;
I am forsworn on ‘mere necessity.’
So to the laws at large I write my name:
Subscribes

And he that breaks them in the least degree
Stands in attainder of eternal shame:
Suggestions are to other as to me;
But I believe, although I seem so loath,
I am the last that will last keep his oath.
But is there no quick recreation granted?
FERDINAND
Ay, that there is. Our court, you know, is haunted
With a refined traveller of Spain;
A man in all the world’s new fashion planted,
That hath a mint of phrases in his brain;
One whom the music of his own vain tongue
Doth ravish like enchanting harmony;
A man of complements, whom right and wrong
Have chose as umpire of their mutiny:
This child of fancy, that Armado hight,
For interim to our studies shall relate
In high-born words the worth of many a knight
From tawny Spain lost in the world’s debate.
How you delight, my lords, I know not, I;
But, I protest, I love to hear him lie
And I will use him for my minstrelsy.
BIRON
Armado is a most illustrious wight,
A man of fire-new words, fashion’s own knight.
LONGAVILLE
Costard the swain and he shall be our sport;
And so to study, three years is but short.
Enter DULL with a letter, and COSTARD

DULL
Which is the duke’s own person?
BIRON
This, fellow: what wouldst?
DULL
I myself reprehend his own person, for I am his
grace’s tharborough: but I would see his own person
in flesh and blood.
BIRON
This is he.
DULL
Signior Arme–Arme–commends you. There’s villany
abroad: this letter will tell you more.
COSTARD
Sir, the contempts thereof are as touching me.
FERDINAND
A letter from the magnificent Armado.
BIRON
How low soever the matter, I hope in God for high words.
LONGAVILLE
A high hope for a low heaven: God grant us patience!
BIRON
To hear? or forbear laughing?
LONGAVILLE
To hear meekly, sir, and to laugh moderately; or to
forbear both.
BIRON
Well, sir, be it as the style shall give us cause to
climb in the merriness.
COSTARD
The matter is to me, sir, as concerning Jaquenetta.
The manner of it is, I was taken with the manner.
BIRON
In what manner?
COSTARD
In manner and form following, sir; all those three:
I was seen with her in the manor-house, sitting with
her upon the form, and taken following her into the
park; which, put together, is in manner and form
following. Now, sir, for the manner,–it is the
manner of a man to speak to a woman: for the form,–
in some form.
BIRON
For the following, sir?
COSTARD
As it shall follow in my correction: and God defend
the right!
FERDINAND
Will you hear this letter with attention?
BIRON
As we would hear an oracle.
COSTARD
Such is the simplicity of man to hearken after the flesh.
FERDINAND
[Reads] ‘Great deputy, the welkin’s vicegerent and
sole dominator of Navarre, my soul’s earth’s god,
and body’s fostering patron.’
COSTARD
Not a word of Costard yet.
FERDINAND
[Reads] ‘So it is,’–
COSTARD
It may be so: but if he say it is so, he is, in
telling true, but so.
FERDINAND
Peace!
COSTARD
Be to me and every man that dares not fight!
FERDINAND
No words!
COSTARD
Of other men’s secrets, I beseech you.
FERDINAND
[Reads] ‘So it is, besieged with sable-coloured
melancholy, I did commend the black-oppressing humour
to the most wholesome physic of thy health-giving
air; and, as I am a gentleman, betook myself to
walk. The time when. About the sixth hour; when
beasts most graze, birds best peck, and men sit down
to that nourishment which is called supper: so much
for the time when. Now for the ground which; which,
I mean, I walked upon: it is y-cleped thy park. Then
for the place where; where, I mean, I did encounter
that obscene and preposterous event, that draweth
from my snow-white pen the ebon-coloured ink, which
here thou viewest, beholdest, surveyest, or seest;
but to the place where; it standeth north-north-east
and by east from the west corner of thy curious-
knotted garden: there did I see that low-spirited
swain, that base minnow of thy mirth,’–
COSTARD
Me?
FERDINAND
[Reads] ‘that unlettered small-knowing soul,’–
COSTARD
Me?
FERDINAND
[Reads] ‘that shallow vassal,’–
COSTARD
Still me?
FERDINAND
[Reads] ‘which, as I remember, hight Costard,’–
COSTARD
O, me!
FERDINAND
[Reads] ‘sorted and consorted, contrary to thy
established proclaimed edict and continent canon,
which with,–O, with–but with this I passion to say
wherewith,–
COSTARD
With a wench.
FERDINAND
[Reads] ‘with a child of our grandmother Eve, a
female; or, for thy more sweet understanding, a
woman. Him I, as my ever-esteemed duty pricks me on,
have sent to thee, to receive the meed of
punishment, by thy sweet grace’s officer, Anthony
Dull; a man of good repute, carriage, bearing, and
estimation.’
DULL
‘Me, an’t shall please you; I am Anthony Dull.
FERDINAND
[Reads] ‘For Jaquenetta,–so is the weaker vessel
called which I apprehended with the aforesaid
swain,–I keep her as a vessel of the law’s fury;
and shall, at the least of thy sweet notice, bring
her to trial. Thine, in all compliments of devoted
and heart-burning heat of duty.
DON ADRIANO DE ARMADO.’
BIRON
This is not so well as I looked for, but the best
that ever I heard.
FERDINAND
Ay, the best for the worst. But, sirrah, what say
you to this?
COSTARD
Sir, I confess the wench.
FERDINAND
Did you hear the proclamation?
COSTARD
I do confess much of the hearing it but little of
the marking of it.
FERDINAND
It was proclaimed a year’s imprisonment, to be taken
with a wench.
COSTARD
I was taken with none, sir: I was taken with a damsel.
FERDINAND
Well, it was proclaimed ‘damsel.’
COSTARD
This was no damsel, neither, sir; she was a virgin.
FERDINAND
It is so varied, too; for it was proclaimed ‘virgin.’
COSTARD
If it were, I deny her virginity: I was taken with a maid.
FERDINAND
This maid will not serve your turn, sir.
COSTARD
This maid will serve my turn, sir.
FERDINAND
Sir, I will pronounce your sentence: you shall fast
a week with bran and water.
COSTARD
I had rather pray a month with mutton and porridge.
FERDINAND
And Don Armado shall be your keeper.
My Lord Biron, see him deliver’d o’er:
And go we, lords, to put in practise that
Which each to other hath so strongly sworn.
Exeunt FERDINAND, LONGAVILLE, and DUMAIN

BIRON
I’ll lay my head to any good man’s hat,
These oaths and laws will prove an idle scorn.
Sirrah, come on.
COSTARD
I suffer for the truth, sir; for true it is, I was
taken with Jaquenetta, and Jaquenetta is a true
girl; and therefore welcome the sour cup of
prosperity! Affliction may one day smile again; and
till then, sit thee down, sorrow!
Exeunt

LOVE’S LABOURS LOST
SCENE II. The same.
Enter DON ADRIANO DE ARMADO and MOTH
DON
ADRIANO DE ARMADO
Boy, what sign is it when a man of great spirit
grows melancholy?
MOTH
A great sign, sir, that he will look sad.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Why, sadness is one and the self-same thing, dear imp.
MOTH
No, no; O Lord, sir, no.
DON
ADRIANO DE ARMADO
How canst thou part sadness and melancholy, my
tender juvenal?
MOTH
By a familiar demonstration of the working, my tough senior.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Why tough senior? why tough senior?
MOTH
Why tender juvenal? why tender juvenal?
DON
ADRIANO DE ARMADO
I spoke it, tender juvenal, as a congruent epitheton
appertaining to thy young days, which we may
nominate tender.
MOTH
And I, tough senior, as an appertinent title to your
old time, which we may name tough.
DON ADRIANO DE
ARMADO
Pretty and apt.
MOTH
How mean you, sir? I pretty, and my saying apt? or
I apt, and my saying pretty?
DON
ADRIANO DE ARMADO
Thou pretty, because little.
MOTH
Little pretty, because little. Wherefore apt?
DON
ADRIANO DE ARMADO
And therefore apt, because quick.
MOTH
Speak you this in my praise, master?
DON
ADRIANO DE ARMADO
In thy condign praise.
MOTH
I will praise an eel with the same praise.
DON
ADRIANO DE ARMADO
What, that an eel is ingenious?
MOTH
That an eel is quick.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I do say thou art quick in answers: thou heatest my blood.
MOTH
I am answered, sir.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I love not to be crossed.
MOTH
[Aside] He speaks the mere contrary; crosses love not him.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I have promised to study three years with the duke.
MOTH
You may do it in an hour, sir.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Impossible.
MOTH
How many is one thrice told?
DON
ADRIANO DE ARMADO
I am ill at reckoning; it fitteth the spirit of a tapster.
MOTH
You are a gentleman and a gamester, sir.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I confess both: they are both the varnish of a
complete man.
MOTH
Then, I am sure, you know how much the gross sum of
deuce-ace amounts to.
DON
ADRIANO DE ARMADO
It doth amount to one more than two.
MOTH
Which the base vulgar do call three.
DON
ADRIANO DE ARMADO
True.
MOTH
Why, sir, is this such a piece of study? Now here
is three studied, ere ye’ll thrice wink: and how
easy it is to put ‘years’ to the word ‘three,’ and
study three years in two words, the dancing horse
will tell you.
DON
ADRIANO DE ARMADO
A most fine figure!
MOTH
To prove you a cipher.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I will hereupon confess I am in love: and as it is
base for a soldier to love, so am I in love with a
base wench. If drawing my sword against the humour
of affection would deliver me from the reprobate
thought of it, I would take Desire prisoner, and
ransom him to any French courtier for a new-devised
courtesy. I think scorn to sigh: methinks I should
outswear Cupid. Comfort, me, boy: what great men
have been in love?
MOTH
Hercules, master.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Most sweet Hercules! More authority, dear boy, name
more; and, sweet my child, let them be men of good
repute and carriage.
MOTH
Samson, master: he was a man of good carriage, great
carriage, for he carried the town-gates on his back
like a porter: and he was in love.
DON
ADRIANO DE ARMADO
O well-knit Samson! strong-jointed Samson! I do
excel thee in my rapier as much as thou didst me in
carrying gates. I am in love too. Who was Samson’s
love, my dear Moth?
MOTH
A woman, master.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Of what complexion?
MOTH
Of all the four, or the three, or the two, or one of the four.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Tell me precisely of what complexion.
MOTH
Of the sea-water green, sir.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Is that one of the four complexions?
MOTH
As I have read, sir; and the best of them too.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Green indeed is the colour of lovers; but to have a
love of that colour, methinks Samson had small reason
for it. He surely affected her for her wit.
MOTH
It was so, sir; for she had a green wit.
DON
ADRIANO DE ARMADO
My love is most immaculate white and red.
MOTH
Most maculate thoughts, master, are masked under
such colours.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Define, define, well-educated infant.
MOTH
My father’s wit and my mother’s tongue, assist me!
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sweet invocation of a child; most pretty and
pathetical!
MOTH
If she be made of white and red,
Her faults will ne’er be known,
For blushing cheeks by faults are bred
And fears by pale white shown:
Then if she fear, or be to blame,
By this you shall not know,
For still her cheeks possess the same
Which native she doth owe.
A dangerous rhyme, master, against the reason of
white and red.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Is there not a ballad, boy, of the King and the Beggar?
MOTH
The world was very guilty of such a ballad some
three ages since: but I think now ’tis not to be
found; or, if it were, it would neither serve for
the writing nor the tune.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I will have that subject newly writ o’er, that I may
example my digression by some mighty precedent.
Boy, I do love that country girl that I took in the
park with the rational hind Costard: she deserves well.
MOTH
[Aside] To be whipped; and yet a better love than
my master.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sing, boy; my spirit grows heavy in love.
MOTH
And that’s great marvel, loving a light wench.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I say, sing.
MOTH
Forbear till this company be past.
Enter DULL, COSTARD, and JAQUENETTA

DULL
Sir, the duke’s pleasure is, that you keep Costard
safe: and you must suffer him to take no delight
nor no penance; but a’ must fast three days a week.
For this damsel, I must keep her at the park: she
is allowed for the day-woman. Fare you well.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I do betray myself with blushing. Maid!
JAQUENETTA
Man?
DON
ADRIANO DE ARMADO
I will visit thee at the lodge.
JAQUENETTA
That’s hereby.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I know where it is situate.
JAQUENETTA
Lord, how wise you are!
DON
ADRIANO DE ARMADO
I will tell thee wonders.
JAQUENETTA
With that face?
DON
ADRIANO DE ARMADO
I love thee.
JAQUENETTA
So I heard you say.
DON
ADRIANO DE ARMADO
And so, farewell.
JAQUENETTA
Fair weather after you!
DULL
Come, Jaquenetta, away!
Exeunt DULL and JAQUENETTA

DON
ADRIANO DE ARMADO
Villain, thou shalt fast for thy offences ere thou
be pardoned.
COSTARD
Well, sir, I hope, when I do it, I shall do it on a
full stomach.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Thou shalt be heavily punished.
COSTARD
I am more bound to you than your fellows, for they
are but lightly rewarded.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Take away this villain; shut him up.
MOTH
Come, you transgressing slave; away!
COSTARD
Let me not be pent up, sir: I will fast, being loose.
MOTH
No, sir; that were fast and loose: thou shalt to prison.
COSTARD
Well, if ever I do see the merry days of desolation
that I have seen, some shall see.
MOTH
What shall some see?
COSTARD
Nay, nothing, Master Moth, but what they look upon.
It is not for prisoners to be too silent in their
words; and therefore I will say nothing: I thank
God I have as little patience as another man; and
therefore I can be quiet.
Exeunt MOTH and COSTARD

DON
ADRIANO DE ARMADO
I do affect the very ground, which is base, where
her shoe, which is baser, guided by her foot, which
is basest, doth tread. I shall be forsworn, which
is a great argument of falsehood, if I love. And
how can that be true love which is falsely
attempted? Love is a familiar; Love is a devil:
there is no evil angel but Love. Yet was Samson so
tempted, and he had an excellent strength; yet was
Solomon so seduced, and he had a very good wit.
Cupid’s butt-shaft is too hard for Hercules’ club;
and therefore too much odds for a Spaniard’s rapier.
The first and second cause will not serve my turn;
the passado he respects not, the duello he regards
not: his disgrace is to be called boy; but his
glory is to subdue men. Adieu, valour! rust rapier!
be still, drum! for your manager is in love; yea,
he loveth. Assist me, some extemporal god of rhyme,
for I am sure I shall turn sonnet. Devise, wit;
write, pen; for I am for whole volumes in folio.
Exit

LOVE’S LABOURS LOST
ACT II
SCENE I. The same.
Enter the PRINCESS of France, ROSALINE, MARIA, KATHARINE, BOYET, Lords, and other Attendants
BOYET
Now, madam, summon up your dearest spirits:
Consider who the king your father sends,
To whom he sends, and what’s his embassy:
Yourself, held precious in the world’s esteem,
To parley with the sole inheritor
Of all perfections that a man may owe,
Matchless Navarre; the plea of no less weight
Than Aquitaine, a dowry for a queen.
Be now as prodigal of all dear grace
As Nature was in making graces dear
When she did starve the general world beside
And prodigally gave them all to you.
PRINCESS
Good Lord Boyet, my beauty, though but mean,
Needs not the painted flourish of your praise:
Beauty is bought by judgement of the eye,
Not utter’d by base sale of chapmen’s tongues:
I am less proud to hear you tell my worth
Than you much willing to be counted wise
In spending your wit in the praise of mine.
But now to task the tasker: good Boyet,
You are not ignorant, all-telling fame
Doth noise abroad, Navarre hath made a vow,
Till painful study shall outwear three years,
No woman may approach his silent court:
Therefore to’s seemeth it a needful course,
Before we enter his forbidden gates,
To know his pleasure; and in that behalf,
Bold of your worthiness, we single you
As our best-moving fair solicitor.
Tell him, the daughter of the King of France,
On serious business, craving quick dispatch,
Importunes personal conference with his grace:
Haste, signify so much; while we attend,
Like humble-visaged suitors, his high will.
BOYET
Proud of employment, willingly I go.
PRINCESS
All pride is willing pride, and yours is so.
Exit BOYET

Who are the votaries, my loving lords,
That are vow-fellows with this virtuous duke?
First Lord
Lord Longaville is one.
PRINCESS
Know you the man?
MARIA
I know him, madam: at a marriage-feast,
Between Lord Perigort and the beauteous heir
Of Jaques Falconbridge, solemnized
In Normandy, saw I this Longaville:
A man of sovereign parts he is esteem’d;
Well fitted in arts, glorious in arms:
Nothing becomes him ill that he would well.
The only soil of his fair virtue’s gloss,
If virtue’s gloss will stain with any soil,
Is a sharp wit matched with too blunt a will;
Whose edge hath power to cut, whose will still wills
It should none spare that come within his power.
PRINCESS
Some merry mocking lord, belike; is’t so?
MARIA
They say so most that most his humours know.
PRINCESS
Such short-lived wits do wither as they grow.
Who are the rest?
KATHARINE
The young Dumain, a well-accomplished youth,
Of all that virtue love for virtue loved:
Most power to do most harm, least knowing ill;
For he hath wit to make an ill shape good,
And shape to win grace though he had no wit.
I saw him at the Duke Alencon’s once;
And much too little of that good I saw
Is my report to his great worthiness.
ROSALINE
Another of these students at that time
Was there with him, if I have heard a truth.
Biron they call him; but a merrier man,
Within the limit of becoming mirth,
I never spent an hour’s talk withal:
His eye begets occasion for his wit;
For every object that the one doth catch
The other turns to a mirth-moving jest,
Which his fair tongue, conceit’s expositor,
Delivers in such apt and gracious words
That aged ears play truant at his tales
And younger hearings are quite ravished;
So sweet and voluble is his discourse.
PRINCESS
God bless my ladies! are they all in love,
That every one her own hath garnished
With such bedecking ornaments of praise?
First Lord
Here comes Boyet.
Re-enter BOYET

PRINCESS
Now, what admittance, lord?
BOYET
Navarre had notice of your fair approach;
And he and his competitors in oath
Were all address’d to meet you, gentle lady,
Before I came. Marry, thus much I have learnt:
He rather means to lodge you in the field,
Like one that comes here to besiege his court,
Than seek a dispensation for his oath,
To let you enter his unpeopled house.
Here comes Navarre.
Enter FERDINAND, LONGAVILLE, DUMAIN, BIRON, and Attendants

FERDINAND
Fair princess, welcome to the court of Navarre.
PRINCESS
‘Fair’ I give you back again; and ‘welcome’ I have
not yet: the roof of this court is too high to be
yours; and welcome to the wide fields too base to be mine.
FERDINAND
You shall be welcome, madam, to my court.
PRINCESS
I will be welcome, then: conduct me thither.
FERDINAND
Hear me, dear lady; I have sworn an oath.
PRINCESS
Our Lady help my lord! he’ll be forsworn.
FERDINAND
Not for the world, fair madam, by my will.
PRINCESS
Why, will shall break it; will and nothing else.
FERDINAND
Your ladyship is ignorant what it is.
PRINCESS
Were my lord so, his ignorance were wise,
Where now his knowledge must prove ignorance.
I hear your grace hath sworn out house-keeping:
Tis deadly sin to keep that oath, my lord,
And sin to break it.
But pardon me. I am too sudden-bold:
To teach a teacher ill beseemeth me.
Vouchsafe to read the purpose of my coming,
And suddenly resolve me in my suit.
FERDINAND
Madam, I will, if suddenly I may.
PRINCESS
You will the sooner, that I were away;
For you’ll prove perjured if you make me stay.
BIRON
Did not I dance with you in Brabant once?
ROSALINE
Did not I dance with you in Brabant once?
BIRON
I know you did.
ROSALINE
How needless was it then to ask the question!
BIRON
You must not be so quick.
ROSALINE
‘Tis ‘long of you that spur me with such questions.
BIRON
Your wit’s too hot, it speeds too fast, ’twill tire.
ROSALINE
Not till it leave the rider in the mire.
BIRON
What time o’ day?
ROSALINE
The hour that fools should ask.
BIRON
Now fair befall your mask!
ROSALINE
Fair fall the face it covers!
BIRON
And send you many lovers!
ROSALINE
Amen, so you be none.
BIRON
Nay, then will I be gone.
FERDINAND
Madam, your father here doth intimate
The payment of a hundred thousand crowns;
Being but the one half of an entire sum
Disbursed by my father in his wars.
But say that he or we, as neither have,
Received that sum, yet there remains unpaid
A hundred thousand more; in surety of the which,
One part of Aquitaine is bound to us,
Although not valued to the money’s worth.
If then the king your father will restore
But that one half which is unsatisfied,
We will give up our right in Aquitaine,
And hold fair friendship with his majesty.
But that, it seems, he little purposeth,
For here he doth demand to have repaid
A hundred thousand crowns; and not demands,
On payment of a hundred thousand crowns,
To have his title live in Aquitaine;
Which we much rather had depart withal
And have the money by our father lent
Than Aquitaine so gelded as it is.
Dear Princess, were not his requests so far
From reason’s yielding, your fair self should make
A yielding ‘gainst some reason in my breast
And go well satisfied to France again.
PRINCESS
You do the king my father too much wrong
And wrong the reputation of your name,
In so unseeming to confess receipt
Of that which hath so faithfully been paid.
FERDINAND
I do protest I never heard of it;
And if you prove it, I’ll repay it back
Or yield up Aquitaine.
PRINCESS
We arrest your word.
Boyet, you can produce acquittances
For such a sum from special officers
Of Charles his father.
FERDINAND
Satisfy me so.
BOYET
So please your grace, the packet is not come
Where that and other specialties are bound:
To-morrow you shall have a sight of them.
FERDINAND
It shall suffice me: at which interview
All liberal reason I will yield unto.
Meantime receive such welcome at my hand
As honour without breach of honour may
Make tender of to thy true worthiness:
You may not come, fair princess, in my gates;
But here without you shall be so received
As you shall deem yourself lodged in my heart,
Though so denied fair harbour in my house.
Your own good thoughts excuse me, and farewell:
To-morrow shall we visit you again.
PRINCESS
Sweet health and fair desires consort your grace!
FERDINAND
Thy own wish wish I thee in every place!
Exit

BIRON
Lady, I will commend you to mine own heart.
ROSALINE
Pray you, do my commendations; I would be glad to see it.
BIRON
I would you heard it groan.
ROSALINE
Is the fool sick?
BIRON
Sick at the heart.
ROSALINE
Alack, let it blood.
BIRON
Would that do it good?
ROSALINE
My physic says ‘ay.’
BIRON
Will you prick’t with your eye?
ROSALINE
No point, with my knife.
BIRON
Now, God save thy life!
ROSALINE
And yours from long living!
BIRON
I cannot stay thanksgiving.
Retiring

DUMAIN
Sir, I pray you, a word: what lady is that same?
BOYET
The heir of Alencon, Katharine her name.
DUMAIN
A gallant lady. Monsieur, fare you well.
Exit

LONGAVILLE
I beseech you a word: what is she in the white?
BOYET
A woman sometimes, an you saw her in the light.
LONGAVILLE
Perchance light in the light. I desire her name.
BOYET
She hath but one for herself; to desire that were a shame.
LONGAVILLE
Pray you, sir, whose daughter?
BOYET
Her mother’s, I have heard.
LONGAVILLE
God’s blessing on your beard!
BOYET
Good sir, be not offended.
She is an heir of Falconbridge.
LONGAVILLE
Nay, my choler is ended.
She is a most sweet lady.
BOYET
Not unlike, sir, that may be.
Exit LONGAVILLE

BIRON
What’s her name in the cap?
BOYET
Rosaline, by good hap.
BIRON
Is she wedded or no?
BOYET
To her will, sir, or so.
BIRON
You are welcome, sir: adieu.
BOYET
Farewell to me, sir, and welcome to you.
Exit BIRON

MARIA
That last is Biron, the merry madcap lord:
Not a word with him but a jest.
BOYET
And every jest but a word.
PRINCESS
It was well done of you to take him at his word.
BOYET
I was as willing to grapple as he was to board.
MARIA
Two hot sheeps, marry.
BOYET
And wherefore not ships?
No sheep, sweet lamb, unless we feed on your lips.
MARIA
You sheep, and I pasture: shall that finish the jest?
BOYET
So you grant pasture for me.
Offering to kiss her

MARIA
Not so, gentle beast:
My lips are no common, though several they be.
BOYET
Belonging to whom?
MARIA
To my fortunes and me.
PRINCESS
Good wits will be jangling; but, gentles, agree:
This civil war of wits were much better used
On Navarre and his book-men; for here ’tis abused.
BOYET
If my observation, which very seldom lies,
By the heart’s still rhetoric disclosed with eyes,
Deceive me not now, Navarre is infected.
PRINCESS
With what?
BOYET
With that which we lovers entitle affected.
PRINCESS
Your reason?
BOYET
Why, all his behaviors did make their retire
To the court of his eye, peeping thorough desire:
His heart, like an agate, with your print impress’d,
Proud with his form, in his eye pride express’d:
His tongue, all impatient to speak and not see,
Did stumble with haste in his eyesight to be;
All senses to that sense did make their repair,
To feel only looking on fairest of fair:
Methought all his senses were lock’d in his eye,
As jewels in crystal for some prince to buy;
Who, tendering their own worth from where they were glass’d,
Did point you to buy them, along as you pass’d:
His face’s own margent did quote such amazes
That all eyes saw his eyes enchanted with gazes.
I’ll give you Aquitaine and all that is his,
An you give him for my sake but one loving kiss.
PRINCESS
Come to our pavilion: Boyet is disposed.
BOYET
But to speak that in words which his eye hath
disclosed.
I only have made a mouth of his eye,
By adding a tongue which I know will not lie.
ROSALINE
Thou art an old love-monger and speakest skilfully.
MARIA
He is Cupid’s grandfather and learns news of him.
ROSALINE
Then was Venus like her mother, for her father is but grim.
BOYET
Do you hear, my mad wenches?
MARIA
No.
BOYET
What then, do you see?
ROSALINE
Ay, our way to be gone.
BOYET
You are too hard for me.
Exeunt

LOVE’S LABOURS LOST
ACT III
SCENE I. The same.
Enter DON ADRIANO DE ARMADO and MOTH
DON
ADRIANO DE ARMADO
Warble, child; make passionate my sense of hearing.
MOTH
Concolinel.
Singing

DON
ADRIANO DE ARMADO
Sweet air! Go, tenderness of years; take this key,
give enlargement to the swain, bring him festinately
hither: I must employ him in a letter to my love.
MOTH
Master, will you win your love with a French brawl?
DON
ADRIANO DE ARMADO
How meanest thou? brawling in French?
MOTH
No, my complete master: but to jig off a tune at
the tongue’s end, canary to it with your feet, humour
it with turning up your eyelids, sigh a note and
sing a note, sometime through the throat, as if you
swallowed love with singing love, sometime through
the nose, as if you snuffed up love by smelling
love; with your hat penthouse-like o’er the shop of
your eyes; with your arms crossed on your thin-belly
doublet like a rabbit on a spit; or your hands in
your pocket like a man after the old painting; and
keep not too long in one tune, but a snip and away.
These are complements, these are humours; these
betray nice wenches, that would be betrayed without
these; and make them men of note–do you note
me?–that most are affected to these.
DON
ADRIANO DE ARMADO
How hast thou purchased this experience?
MOTH
By my penny of observation.
DON
ADRIANO DE ARMADO
But O,–but O,–
MOTH
‘The hobby-horse is forgot.’
DON
ADRIANO DE ARMADO
Callest thou my love ‘hobby-horse’?
MOTH
No, master; the hobby-horse is but a colt, and your
love perhaps a hackney. But have you forgot your love?
DON
ADRIANO DE ARMADO
Almost I had.
MOTH
Negligent student! learn her by heart.
DON
ADRIANO DE ARMADO
By heart and in heart, boy.
MOTH
And out of heart, master: all those three I will prove.
DON
ADRIANO DE ARMADO
What wilt thou prove?
MOTH
A man, if I live; and this, by, in, and without, upon
the instant: by heart you love her, because your
heart cannot come by her; in heart you love her,
because your heart is in love with her; and out of
heart you love her, being out of heart that you
cannot enjoy her.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I am all these three.
MOTH
And three times as much more, and yet nothing at
all.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Fetch hither the swain: he must carry me a letter.
MOTH
A message well sympathized; a horse to be ambassador
for an ass.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Ha, ha! what sayest thou?
MOTH
Marry, sir, you must send the ass upon the horse,
for he is very slow-gaited. But I go.
DON
ADRIANO DE ARMADO
The way is but short: away!
MOTH
As swift as lead, sir.
DON
ADRIANO DE ARMADO
The meaning, pretty ingenious?
Is not lead a metal heavy, dull, and slow?
MOTH
Minime, honest master; or rather, master, no.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I say lead is slow.
MOTH
You are too swift, sir, to say so:
Is that lead slow which is fired from a gun?
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sweet smoke of rhetoric!
He reputes me a cannon; and the bullet, that’s he:
I shoot thee at the swain.
MOTH
Thump then and I flee.
Exit

DON
ADRIANO DE ARMADO
A most acute juvenal; voluble and free of grace!
By thy favour, sweet welkin, I must sigh in thy face:
Most rude melancholy, valour gives thee place.
My herald is return’d.
Re-enter MOTH with COSTARD

MOTH
A wonder, master! here’s a costard broken in a shin.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Some enigma, some riddle: come, thy l’envoy; begin.
COSTARD
No enigma, no riddle, no l’envoy; no salve in the
mail, sir: O, sir, plantain, a plain plantain! no
l’envoy, no l’envoy; no salve, sir, but a plantain!
DON
ADRIANO DE ARMADO
By virtue, thou enforcest laughter; thy silly
thought my spleen; the heaving of my lungs provokes
me to ridiculous smiling. O, pardon me, my stars!
Doth the inconsiderate take salve for l’envoy, and
the word l’envoy for a salve?
MOTH
Do the wise think them other? is not l’envoy a salve?
DON
ADRIANO DE ARMADO
No, page: it is an epilogue or discourse, to make plain
Some obscure precedence that hath tofore been sain.
I will example it:
The fox, the ape, and the humble-bee,
Were still at odds, being but three.
There’s the moral. Now the l’envoy.
MOTH
I will add the l’envoy. Say the moral again.
DON
ADRIANO DE ARMADO
The fox, the ape, and the humble-bee,
Were still at odds, being but three.
MOTH
Until the goose came out of door,
And stay’d the odds by adding four.
Now will I begin your moral, and do you follow with
my l’envoy.
The fox, the ape, and the humble-bee,
Were still at odds, being but three.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Until the goose came out of door,
Staying the odds by adding four.
MOTH
A good l’envoy, ending in the goose: would you
desire more?
COSTARD
The boy hath sold him a bargain, a goose, that’s flat.
Sir, your pennyworth is good, an your goose be fat.
To sell a bargain well is as cunning as fast and loose:
Let me see; a fat l’envoy; ay, that’s a fat goose.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Come hither, come hither. How did this argument begin?
MOTH
By saying that a costard was broken in a shin.
Then call’d you for the l’envoy.
COSTARD
True, and I for a plantain: thus came your
argument in;
Then the boy’s fat l’envoy, the goose that you bought;
And he ended the market.
DON
ADRIANO DE ARMADO
But tell me; how was there a costard broken in a shin?
MOTH
I will tell you sensibly.
COSTARD
Thou hast no feeling of it, Moth: I will speak that l’envoy:
I Costard, running out, that was safely within,
Fell over the threshold and broke my shin.
DON
ADRIANO DE ARMADO
We will talk no more of this matter.
COSTARD
Till there be more matter in the shin.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sirrah Costard, I will enfranchise thee.
COSTARD
O, marry me to one Frances: I smell some l’envoy,
some goose, in this.
DON
ADRIANO DE ARMADO
By my sweet soul, I mean setting thee at liberty,
enfreedoming thy person; thou wert immured,
restrained, captivated, bound.
COSTARD
True, true; and now you will be my purgation and let me loose.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I give thee thy liberty, set thee from durance; and,
in lieu thereof, impose on thee nothing but this:
bear this significant
Giving a letter

to the country maid Jaquenetta:
there is remuneration; for the best ward of mine
honour is rewarding my dependents. Moth, follow.
Exit

MOTH
Like the sequel, I. Signior Costard, adieu.
COSTARD
My sweet ounce of man’s flesh! my incony Jew!
Exit MOTH

Now will I look to his remuneration. Remuneration!
O, that’s the Latin word for three farthings: three
farthings–remuneration.–‘What’s the price of this
inkle?’–‘One penny.’–‘No, I’ll give you a
remuneration:’ why, it carries it. Remuneration!
why, it is a fairer name than French crown. I will
never buy and sell out of this word.
Enter BIRON

BIRON
O, my good knave Costard! exceedingly well met.
COSTARD
Pray you, sir, how much carnation ribbon may a man
buy for a remuneration?
BIRON
What is a remuneration?
COSTARD
Marry, sir, halfpenny farthing.
BIRON
Why, then, three-farthing worth of silk.
COSTARD
I thank your worship: God be wi’ you!
BIRON
Stay, slave; I must employ thee:
As thou wilt win my favour, good my knave,
Do one thing for me that I shall entreat.
COSTARD
When would you have it done, sir?
BIRON
This afternoon.
COSTARD
Well, I will do it, sir: fare you well.
BIRON
Thou knowest not what it is.
COSTARD
I shall know, sir, when I have done it.
BIRON
Why, villain, thou must know first.
COSTARD
I will come to your worship to-morrow morning.
BIRON
It must be done this afternoon.
Hark, slave, it is but this:
The princess comes to hunt here in the park,
And in her train there is a gentle lady;
When tongues speak sweetly, then they name her name,
And Rosaline they call her: ask for her;
And to her white hand see thou do commend
This seal’d-up counsel. There’s thy guerdon; go.
Giving him a shilling

COSTARD
Gardon, O sweet gardon! better than remuneration,
a’leven-pence farthing better: most sweet gardon! I
will do it sir, in print. Gardon! Remuneration!
Exit

BIRON
And I, forsooth, in love! I, that have been love’s whip;
A very beadle to a humorous sigh;
A critic, nay, a night-watch constable;
A domineering pedant o’er the boy;
Than whom no mortal so magnificent!
This whimpled, whining, purblind, wayward boy;
This senior-junior, giant-dwarf, Dan Cupid;
Regent of love-rhymes, lord of folded arms,
The anointed sovereign of sighs and groans,
Liege of all loiterers and malcontents,
Dread prince of plackets, king of codpieces,
Sole imperator and great general
Of trotting ‘paritors:–O my little heart:–
And I to be a corporal of his field,
And wear his colours like a tumbler’s hoop!
What, I! I love! I sue! I seek a wife!
A woman, that is like a German clock,
Still a-repairing, ever out of frame,
And never going aright, being a watch,
But being watch’d that it may still go right!
Nay, to be perjured, which is worst of all;
And, among three, to love the worst of all;
A wightly wanton with a velvet brow,
With two pitch-balls stuck in her face for eyes;
Ay, and by heaven, one that will do the deed
Though Argus were her eunuch and her guard:
And I to sigh for her! to watch for her!
To pray for her! Go to; it is a plague
That Cupid will impose for my neglect
Of his almighty dreadful little might.
Well, I will love, write, sigh, pray, sue and groan:
Some men must love my lady and some Joan.
Exit

LOVE’S LABOURS LOST
ACT IV
SCENE I. The same.
Enter the PRINCESS, and her train, a Forester, BOYET, ROSALINE, MARIA, and KATHARINE
PRINCESS
Was that the king, that spurred his horse so hard
Against the steep uprising of the hill?
BOYET
I know not; but I think it was not he.
PRINCESS
Whoe’er a’ was, a’ show’d a mounting mind.
Well, lords, to-day we shall have our dispatch:
On Saturday we will return to France.
Then, forester, my friend, where is the bush
That we must stand and play the murderer in?
Forester
Hereby, upon the edge of yonder coppice;
A stand where you may make the fairest shoot.
PRINCESS
I thank my beauty, I am fair that shoot,
And thereupon thou speak’st the fairest shoot.
Forester
Pardon me, madam, for I meant not so.
PRINCESS
What, what? first praise me and again say no?
O short-lived pride! Not fair? alack for woe!
Forester
Yes, madam, fair.
PRINCESS
Nay, never paint me now:
Where fair is not, praise cannot mend the brow.
Here, good my glass, take this for telling true:
Fair payment for foul words is more than due.
Forester
Nothing but fair is that which you inherit.
PRINCESS
See see, my beauty will be saved by merit!
O heresy in fair, fit for these days!
A giving hand, though foul, shall have fair praise.
But come, the bow: now mercy goes to kill,
And shooting well is then accounted ill.
Thus will I save my credit in the shoot:
Not wounding, pity would not let me do’t;
If wounding, then it was to show my skill,
That more for praise than purpose meant to kill.
And out of question so it is sometimes,
Glory grows guilty of detested crimes,
When, for fame’s sake, for praise, an outward part,
We bend to that the working of the heart;
As I for praise alone now seek to spill
The poor deer’s blood, that my heart means no ill.
BOYET
Do not curst wives hold that self-sovereignty
Only for praise sake, when they strive to be
Lords o’er their lords?
PRINCESS
Only for praise: and praise we may afford
To any lady that subdues a lord.
BOYET
Here comes a member of the commonwealth.
Enter COSTARD

COSTARD
God dig-you-den all! Pray you, which is the head lady?
PRINCESS
Thou shalt know her, fellow, by the rest that have no heads.
COSTARD
Which is the greatest lady, the highest?
PRINCESS
The thickest and the tallest.
COSTARD
The thickest and the tallest! it is so; truth is truth.
An your waist, mistress, were as slender as my wit,
One o’ these maids’ girdles for your waist should be fit.
Are not you the chief woman? you are the thickest here.
PRINCESS
What’s your will, sir? what’s your will?
COSTARD
I have a letter from Monsieur Biron to one Lady Rosaline.
PRINCESS
O, thy letter, thy letter! he’s a good friend of mine:
Stand aside, good bearer. Boyet, you can carve;
Break up this capon.
BOYET
I am bound to serve.
This letter is mistook, it importeth none here;
It is writ to Jaquenetta.
PRINCESS
We will read it, I swear.
Break the neck of the wax, and every one give ear.
Reads

BOYET
‘By heaven, that thou art fair, is most infallible;
true, that thou art beauteous; truth itself, that
thou art lovely. More fairer than fair, beautiful
than beauteous, truer than truth itself, have
commiseration on thy heroical vassal! The
magnanimous and most illustrate king Cophetua set
eye upon the pernicious and indubitate beggar
Zenelophon; and he it was that might rightly say,
Veni, vidi, vici; which to annothanize in the
vulgar,–O base and obscure vulgar!–videlicet, He
came, saw, and overcame: he came, one; saw two;
overcame, three. Who came? the king: why did he
come? to see: why did he see? to overcome: to
whom came he? to the beggar: what saw he? the
beggar: who overcame he? the beggar. The
conclusion is victory: on whose side? the king’s.
The captive is enriched: on whose side? the
beggar’s. The catastrophe is a nuptial: on whose
side? the king’s: no, on both in one, or one in
both. I am the king; for so stands the comparison:
thou the beggar; for so witnesseth thy lowliness.
Shall I command thy love? I may: shall I enforce
thy love? I could: shall I entreat thy love? I
will. What shalt thou exchange for rags? robes;
for tittles? titles; for thyself? me. Thus,
expecting thy reply, I profane my lips on thy foot,
my eyes on thy picture. and my heart on thy every
part. Thine, in the dearest design of industry,
DON ADRIANO DE ARMADO.’
Thus dost thou hear the Nemean lion roar
‘Gainst thee, thou lamb, that standest as his prey.
Submissive fall his princely feet before,
And he from forage will incline to play:
But if thou strive, poor soul, what art thou then?
Food for his rage, repasture for his den.
PRINCESS
What plume of feathers is he that indited this letter?
What vane? what weathercock? did you ever hear better?
BOYET
I am much deceived but I remember the style.
PRINCESS
Else your memory is bad, going o’er it erewhile.
BOYET
This Armado is a Spaniard, that keeps here in court;
A phantasime, a Monarcho, and one that makes sport
To the prince and his bookmates.
PRINCESS
Thou fellow, a word:
Who gave thee this letter?
COSTARD
I told you; my lord.
PRINCESS
To whom shouldst thou give it?
COSTARD
From my lord to my lady.
PRINCESS
From which lord to which lady?
COSTARD
From my lord Biron, a good master of mine,
To a lady of France that he call’d Rosaline.
PRINCESS
Thou hast mistaken his letter. Come, lords, away.
To ROSALINE

Here, sweet, put up this: ’twill be thine another day.
Exeunt PRINCESS and train

BOYET
Who is the suitor? who is the suitor?
ROSALINE
Shall I teach you to know?
BOYET
Ay, my continent of beauty.
ROSALINE
Why, she that bears the bow.
Finely put off!
BOYET
My lady goes to kill horns; but, if thou marry,
Hang me by the neck, if horns that year miscarry.
Finely put on!
ROSALINE
Well, then, I am the shooter.
BOYET
And who is your deer?
ROSALINE
If we choose by the horns, yourself come not near.
Finely put on, indeed!
MARIA
You still wrangle with her, Boyet, and she strikes
at the brow.
BOYET
But she herself is hit lower: have I hit her now?
ROSALINE
Shall I come upon thee with an old saying, that was
a man when King Pepin of France was a little boy, as
touching the hit it?
BOYET
So I may answer thee with one as old, that was a
woman when Queen Guinover of Britain was a little
wench, as touching the hit it.
ROSALINE
Thou canst not hit it, hit it, hit it,
Thou canst not hit it, my good man.
BOYET
An I cannot, cannot, cannot,
An I cannot, another can.
Exeunt ROSALINE and KATHARINE

COSTARD
By my troth, most pleasant: how both did fit it!
MARIA
A mark marvellous well shot, for they both did hit it.
BOYET
A mark! O, mark but that mark! A mark, says my lady!
Let the mark have a prick in’t, to mete at, if it may be.
MARIA
Wide o’ the bow hand! i’ faith, your hand is out.
COSTARD
Indeed, a’ must shoot nearer, or he’ll ne’er hit the clout.
BOYET
An if my hand be out, then belike your hand is in.
COSTARD
Then will she get the upshoot by cleaving the pin.
MARIA
Come, come, you talk greasily; your lips grow foul.
COSTARD
She’s too hard for you at pricks, sir: challenge her to bowl.
BOYET
I fear too much rubbing. Good night, my good owl.
Exeunt BOYET and MARIA

COSTARD
By my soul, a swain! a most simple clown!
Lord, Lord, how the ladies and I have put him down!
O’ my troth, most sweet jests! most incony
vulgar wit!
When it comes so smoothly off, so obscenely, as it
were, so fit.
Armado o’ th’ one side,–O, a most dainty man!
To see him walk before a lady and to bear her fan!
To see him kiss his hand! and how most sweetly a’
will swear!
And his page o’ t’ other side, that handful of wit!
Ah, heavens, it is a most pathetical nit!
Sola, sola!
Shout within

Exit COSTARD, running

LOVE’S LABOURS LOST
SCENE II. The same.
Enter HOLOFERNES, SIR NATHANIEL, and DULL
SIR NATHANIEL
Very reverend sport, truly; and done in the testimony
of a good conscience.
HOLOFERNES
The deer was, as you know, sanguis, in blood; ripe
as the pomewater, who now hangeth like a jewel in
the ear of caelo, the sky, the welkin, the heaven;
and anon falleth like a crab on the face of terra,
the soil, the land, the earth.
SIR NATHANIEL
Truly, Master Holofernes, the epithets are sweetly
varied, like a scholar at the least: but, sir, I
assure ye, it was a buck of the first head.
HOLOFERNES
Sir Nathaniel, haud credo.
DULL
‘Twas not a haud credo; ’twas a pricket.
HOLOFERNES
Most barbarous intimation! yet a kind of
insinuation, as it were, in via, in way, of
explication; facere, as it were, replication, or
rather, ostentare, to show, as it were, his
inclination, after his undressed, unpolished,
uneducated, unpruned, untrained, or rather,
unlettered, or ratherest, unconfirmed fashion, to
insert again my haud credo for a deer.
DULL
I said the deer was not a haud credo; twas a pricket.
HOLOFERNES
Twice-sod simplicity, his coctus!
O thou monster Ignorance, how deformed dost thou look!
SIR NATHANIEL
Sir, he hath never fed of the dainties that are bred
in a book; he hath not eat paper, as it were; he
hath not drunk ink: his intellect is not
replenished; he is only an animal, only sensible in
the duller parts:
And such barren plants are set before us, that we
thankful should be,
Which we of taste and feeling are, for those parts that
do fructify in us more than he.
For as it would ill become me to be vain, indiscreet, or a fool,
So were there a patch set on learning, to see him in a school:
But omne bene, say I; being of an old father’s mind,
Many can brook the weather that love not the wind.
DULL
You two are book-men: can you tell me by your wit
What was a month old at Cain’s birth, that’s not five
weeks old as yet?
HOLOFERNES
Dictynna, goodman Dull; Dictynna, goodman Dull.
DULL
What is Dictynna?
SIR NATHANIEL
A title to Phoebe, to Luna, to the moon.
HOLOFERNES
The moon was a month old when Adam was no more,
And raught not to five weeks when he came to
five-score.
The allusion holds in the exchange.
DULL
‘Tis true indeed; the collusion holds in the exchange.
HOLOFERNES
God comfort thy capacity! I say, the allusion holds
in the exchange.
DULL
And I say, the pollusion holds in the exchange; for
the moon is never but a month old: and I say beside
that, ’twas a pricket that the princess killed.
HOLOFERNES
Sir Nathaniel, will you hear an extemporal epitaph
on the death of the deer? And, to humour the
ignorant, call I the deer the princess killed a pricket.
SIR NATHANIEL
Perge, good Master Holofernes, perge; so it shall
please you to abrogate scurrility.
HOLOFERNES
I will something affect the letter, for it argues facility.
The preyful princess pierced and prick’d a pretty
pleasing pricket;
Some say a sore; but not a sore, till now made
sore with shooting.
The dogs did yell: put L to sore, then sorel jumps
from thicket;
Or pricket sore, or else sorel; the people fall a-hooting.
If sore be sore, then L to sore makes fifty sores
one sorel.
Of one sore I an hundred make by adding but one more L.
SIR NATHANIEL
A rare talent!
DULL
[Aside] If a talent be a claw, look how he claws
him with a talent.
HOLOFERNES
This is a gift that I have, simple, simple; a
foolish extravagant spirit, full of forms, figures,
shapes, objects, ideas, apprehensions, motions,
revolutions: these are begot in the ventricle of
memory, nourished in the womb of pia mater, and
delivered upon the mellowing of occasion. But the
gift is good in those in whom it is acute, and I am
thankful for it.
SIR NATHANIEL
Sir, I praise the Lord for you; and so may my
parishioners; for their sons are well tutored by
you, and their daughters profit very greatly under
you: you are a good member of the commonwealth.
HOLOFERNES
Mehercle, if their sons be ingenuous, they shall
want no instruction; if their daughters be capable,
I will put it to them: but vir sapit qui pauca
loquitur; a soul feminine saluteth us.
Enter JAQUENETTA and COSTARD

JAQUENETTA
God give you good morrow, master Parson.
HOLOFERNES
Master Parson, quasi pers-on. An if one should be
pierced, which is the one?
COSTARD
Marry, master schoolmaster, he that is likest to a hogshead.
HOLOFERNES
Piercing a hogshead! a good lustre of conceit in a
tuft of earth; fire enough for a flint, pearl enough
for a swine: ’tis pretty; it is well.
JAQUENETTA
Good master Parson, be so good as read me this
letter: it was given me by Costard, and sent me
from Don Armado: I beseech you, read it.
HOLOFERNES
Fauste, precor gelida quando pecus omne sub umbra
Ruminat,–and so forth. Ah, good old Mantuan! I
may speak of thee as the traveller doth of Venice;
Venetia, Venetia,
Chi non ti vede non ti pretia.
Old Mantuan, old Mantuan! who understandeth thee
not, loves thee not. Ut, re, sol, la, mi, fa.
Under pardon, sir, what are the contents? or rather,
as Horace says in his–What, my soul, verses?
SIR NATHANIEL
Ay, sir, and very learned.
HOLOFERNES
Let me hear a staff, a stanze, a verse; lege, domine.
SIR NATHANIEL
[Reads]
If love make me forsworn, how shall I swear to love?
Ah, never faith could hold, if not to beauty vow’d!
Though to myself forsworn, to thee I’ll faithful prove:
Those thoughts to me were oaks, to thee like
osiers bow’d.
Study his bias leaves and makes his book thine eyes,
Where all those pleasures live that art would
comprehend:
If knowledge be the mark, to know thee shall suffice;
Well learned is that tongue that well can thee commend,
All ignorant that soul that sees thee without wonder;
Which is to me some praise that I thy parts admire:
Thy eye Jove’s lightning bears, thy voice his dreadful thunder,
Which not to anger bent, is music and sweet fire.
Celestial as thou art, O, pardon, love, this wrong,
That sings heaven’s praise with such an earthly tongue.
HOLOFERNES
You find not the apostraphas, and so miss the
accent: let me supervise the canzonet. Here are
only numbers ratified; but, for the elegancy,
facility, and golden cadence of poesy, caret.
Ovidius Naso was the man: and why, indeed, Naso,
but for smelling out the odouriferous flowers of
fancy, the jerks of invention? Imitari is nothing:
so doth the hound his master, the ape his keeper,
the tired horse his rider. But, damosella virgin,
was this directed to you?
JAQUENETTA
Ay, sir, from one Monsieur Biron, one of the strange
queen’s lords.
HOLOFERNES
I will overglance the superscript: ‘To the
snow-white hand of the most beauteous Lady
Rosaline.’ I will look again on the intellect of
the letter, for the nomination of the party writing
to the person written unto: ‘Your ladyship’s in all
desired employment, BIRON.’ Sir Nathaniel, this
Biron is one of the votaries with the king; and here
he hath framed a letter to a sequent of the stranger
queen’s, which accidentally, or by the way of
progression, hath miscarried. Trip and go, my
sweet; deliver this paper into the royal hand of the
king: it may concern much. Stay not thy
compliment; I forgive thy duty; adieu.
JAQUENETTA
Good Costard, go with me. Sir, God save your life!
COSTARD
Have with thee, my girl.
Exeunt COSTARD and JAQUENETTA

SIR NATHANIEL
Sir, you have done this in the fear of God, very
religiously; and, as a certain father saith,–
HOLOFERNES
Sir tell me not of the father; I do fear colourable
colours. But to return to the verses: did they
please you, Sir Nathaniel?
SIR NATHANIEL
Marvellous well for the pen.
HOLOFERNES
I do dine to-day at the father’s of a certain pupil
of mine; where, if, before repast, it shall please
you to gratify the table with a grace, I will, on my
privilege I have with the parents of the foresaid
child or pupil, undertake your ben venuto; where I
will prove those verses to be very unlearned,
neither savouring of poetry, wit, nor invention: I
beseech your society.
SIR NATHANIEL
And thank you too; for society, saith the text, is
the happiness of life.
HOLOFERNES
And, certes, the text most infallibly concludes it.
To DULL

Sir, I do invite you too; you shall not
say me nay: pauca verba. Away! the gentles are at
their game, and we will to our recreation.
Exeunt

LOVE’S LABOURS LOST
SCENE III. The same.
Enter BIRON, with a paper
BIRON
The king he is hunting the deer; I am coursing
myself: they have pitched a toil; I am toiling in
a pitch,–pitch that defiles: defile! a foul
word. Well, set thee down, sorrow! for so they say
the fool said, and so say I, and I the fool: well
proved, wit! By the Lord, this love is as mad as
Ajax: it kills sheep; it kills me, I a sheep:
well proved again o’ my side! I will not love: if
I do, hang me; i’ faith, I will not. O, but her
eye,–by this light, but for her eye, I would not
love her; yes, for her two eyes. Well, I do nothing
in the world but lie, and lie in my throat. By
heaven, I do love: and it hath taught me to rhyme
and to be melancholy; and here is part of my rhyme,
and here my melancholy. Well, she hath one o’ my
sonnets already: the clown bore it, the fool sent
it, and the lady hath it: sweet clown, sweeter
fool, sweetest lady! By the world, I would not care
a pin, if the other three were in. Here comes one
with a paper: God give him grace to groan!
Stands aside

Enter FERDINAND, with a paper

FERDINAND
Ay me!
BIRON
[Aside] Shot, by heaven! Proceed, sweet Cupid:
thou hast thumped him with thy bird-bolt under the
left pap. In faith, secrets!
FERDINAND
[Reads]
So sweet a kiss the golden sun gives not
To those fresh morning drops upon the rose,
As thy eye-beams, when their fresh rays have smote
The night of dew that on my cheeks down flows:
Nor shines the silver moon one half so bright
Through the transparent bosom of the deep,
As doth thy face through tears of mine give light;
Thou shinest in every tear that I do weep:
No drop but as a coach doth carry thee;
So ridest thou triumphing in my woe.
Do but behold the tears that swell in me,
And they thy glory through my grief will show:
But do not love thyself; then thou wilt keep
My tears for glasses, and still make me weep.
O queen of queens! how far dost thou excel,
No thought can think, nor tongue of mortal tell.
How shall she know my griefs? I’ll drop the paper:
Sweet leaves, shade folly. Who is he comes here?
Steps aside

What, Longaville! and reading! listen, ear.
BIRON
Now, in thy likeness, one more fool appear!
Enter LONGAVILLE, with a paper

LONGAVILLE
Ay me, I am forsworn!
BIRON
Why, he comes in like a perjure, wearing papers.
FERDINAND
In love, I hope: sweet fellowship in shame!
BIRON
One drunkard loves another of the name.
LONGAVILLE
Am I the first that have been perjured so?
BIRON
I could put thee in comfort. Not by two that I know:
Thou makest the triumviry, the corner-cap of society,
The shape of Love’s Tyburn that hangs up simplicity.
LONGAVILLE
I fear these stubborn lines lack power to move:
O sweet Maria, empress of my love!
These numbers will I tear, and write in prose.
BIRON
O, rhymes are guards on wanton Cupid’s hose:
Disfigure not his slop.
LONGAVILLE
This same shall go.
Reads

Did not the heavenly rhetoric of thine eye,
‘Gainst whom the world cannot hold argument,
Persuade my heart to this false perjury?
Vows for thee broke deserve not punishment.
A woman I forswore; but I will prove,
Thou being a goddess, I forswore not thee:
My vow was earthly, thou a heavenly love;
Thy grace being gain’d cures all disgrace in me.
Vows are but breath, and breath a vapour is:
Then thou, fair sun, which on my earth dost shine,
Exhalest this vapour-vow; in thee it is:
If broken then, it is no fault of mine:
If by me broke, what fool is not so wise
To lose an oath to win a paradise?
BIRON
This is the liver-vein, which makes flesh a deity,
A green goose a goddess: pure, pure idolatry.
God amend us, God amend! we are much out o’ the way.
LONGAVILLE
By whom shall I send this?–Company! stay.
Steps aside

BIRON
All hid, all hid; an old infant play.
Like a demigod here sit I in the sky.
And wretched fools’ secrets heedfully o’ereye.
More sacks to the mill! O heavens, I have my wish!
Enter DUMAIN, with a paper

Dumain transform’d! four woodcocks in a dish!
DUMAIN
O most divine Kate!
BIRON
O most profane coxcomb!
DUMAIN
By heaven, the wonder in a mortal eye!
BIRON
By earth, she is not, corporal, there you lie.
DUMAIN
Her amber hair for foul hath amber quoted.
BIRON
An amber-colour’d raven was well noted.
DUMAIN
As upright as the cedar.
BIRON
Stoop, I say;
Her shoulder is with child.
DUMAIN
As fair as day.
BIRON
Ay, as some days; but then no sun must shine.
DUMAIN
O that I had my wish!
LONGAVILLE
And I had mine!
FERDINAND
And I mine too, good Lord!
BIRON
Amen, so I had mine: is not that a good word?
DUMAIN
I would forget her; but a fever she
Reigns in my blood and will remember’d be.
BIRON
A fever in your blood! why, then incision
Would let her out in saucers: sweet misprision!
DUMAIN
Once more I’ll read the ode that I have writ.
BIRON
Once more I’ll mark how love can vary wit.
DUMAIN
[Reads]
On a day–alack the day!–
Love, whose month is ever May,
Spied a blossom passing fair
Playing in the wanton air:
Through the velvet leaves the wind,
All unseen, can passage find;
That the lover, sick to death,
Wish himself the heaven’s breath.
Air, quoth he, thy cheeks may blow;
Air, would I might triumph so!
But, alack, my hand is sworn
Ne’er to pluck thee from thy thorn;
Vow, alack, for youth unmeet,
Youth so apt to pluck a sweet!
Do not call it sin in me,
That I am forsworn for thee;
Thou for whom Jove would swear
Juno but an Ethiope were;
And deny himself for Jove,
Turning mortal for thy love.
This will I send, and something else more plain,
That shall express my true love’s fasting pain.
O, would the king, Biron, and Longaville,
Were lovers too! Ill, to example ill,
Would from my forehead wipe a perjured note;
For none offend where all alike do dote.
LONGAVILLE
[Advancing] Dumain, thy love is far from charity.
You may look pale, but I should blush, I know,
To be o’erheard and taken napping so.
FERDINAND
[Advancing] Come, sir, you blush; as his your case is such;
You chide at him, offending twice as much;
You do not love Maria; Longaville
Did never sonnet for her sake compile,
Nor never lay his wreathed arms athwart
His loving bosom to keep down his heart.
I have been closely shrouded in this bush
And mark’d you both and for you both did blush:
I heard your guilty rhymes, observed your fashion,
Saw sighs reek from you, noted well your passion:
Ay me! says one; O Jove! the other cries;
One, her hairs were gold, crystal the other’s eyes:
To LONGAVILLE

You would for paradise break faith, and troth;
To DUMAIN

And Jove, for your love, would infringe an oath.
What will Biron say when that he shall hear
Faith so infringed, which such zeal did swear?
How will he scorn! how will he spend his wit!
How will he triumph, leap and laugh at it!
For all the wealth that ever I did see,
I would not have him know so much by me.
BIRON
Now step I forth to whip hypocrisy.
Advancing

Ah, good my liege, I pray thee, pardon me!
Good heart, what grace hast thou, thus to reprove
These worms for loving, that art most in love?
Your eyes do make no coaches; in your tears
There is no certain princess that appears;
You’ll not be perjured, ’tis a hateful thing;
Tush, none but minstrels like of sonneting!
But are you not ashamed? nay, are you not,
All three of you, to be thus much o’ershot?
You found his mote; the king your mote did see;
But I a beam do find in each of three.
O, what a scene of foolery have I seen,
Of sighs, of groans, of sorrow and of teen!
O me, with what strict patience have I sat,
To see a king transformed to a gnat!
To see great Hercules whipping a gig,
And profound Solomon to tune a jig,
And Nestor play at push-pin with the boys,
And critic Timon laugh at idle toys!
Where lies thy grief, O, tell me, good Dumain?
And gentle Longaville, where lies thy pain?
And where my liege’s? all about the breast:
A caudle, ho!
FERDINAND
Too bitter is thy jest.
Are we betray’d thus to thy over-view?
BIRON
Not you to me, but I betray’d by you:
I, that am honest; I, that hold it sin
To break the vow I am engaged in;
I am betray’d, by keeping company
With men like men of inconstancy.
When shall you see me write a thing in rhyme?
Or groan for love? or spend a minute’s time
In pruning me? When shall you hear that I
Will praise a hand, a foot, a face, an eye,
A gait, a state, a brow, a breast, a waist,
A leg, a limb?
FERDINAND
Soft! whither away so fast?
A true man or a thief that gallops so?
BIRON
I post from love: good lover, let me go.
Enter JAQUENETTA and COSTARD

JAQUENETTA
God bless the king!
FERDINAND
What present hast thou there?
COSTARD
Some certain treason.
FERDINAND
What makes treason here?
COSTARD
Nay, it makes nothing, sir.
FERDINAND
If it mar nothing neither,
The treason and you go in peace away together.
JAQUENETTA
I beseech your grace, let this letter be read:
Our parson misdoubts it; ’twas treason, he said.
FERDINAND
Biron, read it over.
Giving him the paper

Where hadst thou it?
JAQUENETTA
Of Costard.
FERDINAND
Where hadst thou it?
COSTARD
Of Dun Adramadio, Dun Adramadio.
BIRON tears the letter

FERDINAND
How now! what is in you? why dost thou tear it?
BIRON
A toy, my liege, a toy: your grace needs not fear it.
LONGAVILLE
It did move him to passion, and therefore let’s hear it.
DUMAIN
It is Biron’s writing, and here is his name.
Gathering up the pieces

BIRON
[To COSTARD] Ah, you whoreson loggerhead! you were
born to do me shame.
Guilty, my lord, guilty! I confess, I confess.
FERDINAND
What?
BIRON
That you three fools lack’d me fool to make up the mess:
He, he, and you, and you, my liege, and I,
Are pick-purses in love, and we deserve to die.
O, dismiss this audience, and I shall tell you more.
DUMAIN
Now the number is even.
BIRON
True, true; we are four.
Will these turtles be gone?
FERDINAND
Hence, sirs; away!
COSTARD
Walk aside the true folk, and let the traitors stay.
Exeunt COSTARD and JAQUENETTA

BIRON
Sweet lords, sweet lovers, O, let us embrace!
As true we are as flesh and blood can be:
The sea will ebb and flow, heaven show his face;
Young blood doth not obey an old decree:
We cannot cross the cause why we were born;
Therefore of all hands must we be forsworn.
FERDINAND
What, did these rent lines show some love of thine?
BIRON
Did they, quoth you? Who sees the heavenly Rosaline,
That, like a rude and savage man of Inde,
At the first opening of the gorgeous east,
Bows not his vassal head and strucken blind
Kisses the base ground with obedient breast?
What peremptory eagle-sighted eye
Dares look upon the heaven of her brow,
That is not blinded by her majesty?
FERDINAND
What zeal, what fury hath inspired thee now?
My love, her mistress, is a gracious moon;
She an attending star, scarce seen a light.
BIRON
My eyes are then no eyes, nor I Biron:
O, but for my love, day would turn to night!
Of all complexions the cull’d sovereignty
Do meet, as at a fair, in her fair cheek,
Where several worthies make one dignity,
Where nothing wants that want itself doth seek.
Lend me the flourish of all gentle tongues,–
Fie, painted rhetoric! O, she needs it not:
To things of sale a seller’s praise belongs,
She passes praise; then praise too short doth blot.
A wither’d hermit, five-score winters worn,
Might shake off fifty, looking in her eye:
Beauty doth varnish age, as if new-born,
And gives the crutch the cradle’s infancy:
O, ’tis the sun that maketh all things shine.
FERDINAND
By heaven, thy love is black as ebony.
BIRON
Is ebony like her? O wood divine!
A wife of such wood were felicity.
O, who can give an oath? where is a book?
That I may swear beauty doth beauty lack,
If that she learn not of her eye to look:
No face is fair that is not full so black.
FERDINAND
O paradox! Black is the badge of hell,
The hue of dungeons and the suit of night;
And beauty’s crest becomes the heavens well.
BIRON
Devils soonest tempt, resembling spirits of light.
O, if in black my lady’s brows be deck’d,
It mourns that painting and usurping hair
Should ravish doters with a false aspect;
And therefore is she born to make black fair.
Her favour turns the fashion of the days,
For native blood is counted painting now;
And therefore red, that would avoid dispraise,
Paints itself black, to imitate her brow.
DUMAIN
To look like her are chimney-sweepers black.
LONGAVILLE
And since her time are colliers counted bright.
FERDINAND
And Ethiopes of their sweet complexion crack.
DUMAIN
Dark needs no candles now, for dark is light.
BIRON
Your mistresses dare never come in rain,
For fear their colours should be wash’d away.
FERDINAND
‘Twere good, yours did; for, sir, to tell you plain,
I’ll find a fairer face not wash’d to-day.
BIRON
I’ll prove her fair, or talk till doomsday here.
FERDINAND
No devil will fright thee then so much as she.
DUMAIN
I never knew man hold vile stuff so dear.
LONGAVILLE
Look, here’s thy love: my foot and her face see.
BIRON
O, if the streets were paved with thine eyes,
Her feet were much too dainty for such tread!
DUMAIN
O, vile! then, as she goes, what upward lies
The street should see as she walk’d overhead.
FERDINAND
But what of this? are we not all in love?
BIRON
Nothing so sure; and thereby all forsworn.
FERDINAND
Then leave this chat; and, good Biron, now prove
Our loving lawful, and our faith not torn.
DUMAIN
Ay, marry, there; some flattery for this evil.
LONGAVILLE
O, some authority how to proceed;
Some tricks, some quillets, how to cheat the devil.
DUMAIN
Some salve for perjury.
BIRON
‘Tis more than need.
Have at you, then, affection’s men at arms.
Consider what you first did swear unto,
To fast, to study, and to see no woman;
Flat treason ‘gainst the kingly state of youth.
Say, can you fast? your stomachs are too young;
And abstinence engenders maladies.
And where that you have vow’d to study, lords,
In that each of you have forsworn his book,
Can you still dream and pore and thereon look?
For when would you, my lord, or you, or you,
Have found the ground of study’s excellence
Without the beauty of a woman’s face?
From women’s eyes this doctrine I derive; They are the ground, the books, the academes From whence doth spring the true Promethean fire

Why, universal plodding poisons up
The nimble spirits in the arteries,
As motion and long-during action tires
The sinewy vigour of the traveller.
Now, for not looking on a woman’s face,
You have in that forsworn the use of eyes
And study too, the causer of your vow;
For where is any author in the world
Teaches such beauty as a woman’s eye?
Learning is but an adjunct to ourself
And where we are our learning likewise is:
Then when ourselves we see in ladies’ eyes,
Do we not likewise see our learning there?
O, we have made a vow to study, lords,
And in that vow we have forsworn our books.
For when would you, my liege, or you, or you,
In leaden contemplation have found out
Such fiery numbers as the prompting eyes
Of beauty’s tutors have enrich’d you with?
Other slow arts entirely keep the brain;
And therefore, finding barren practisers,
Scarce show a harvest of their heavy toil:
But love, first learned in a lady’s eyes,
Lives not alone immured in the brain;
But, with the motion of all elements,
Courses as swift as thought in every power,
And gives to every power a double power,
Above their functions and their offices.
It adds a precious seeing to the eye;
A lover’s eyes will gaze an eagle blind;
A lover’s ear will hear the lowest sound,
When the suspicious head of theft is stopp’d:
Love’s feeling is more soft and sensible
Than are the tender horns of cockl’d snails;
Love’s tongue proves dainty Bacchus gross in taste:
For valour, is not Love a Hercules,
Still climbing trees in the Hesperides?
Subtle as Sphinx; as sweet and musical
As bright Apollo’s lute, strung with his hair:
And when Love speaks, the voice of all the gods
Makes heaven drowsy with the harmony.
Never durst poet touch a pen to write
Until his ink were temper’d with Love’s sighs;
O, then his lines would ravish savage ears
And plant in tyrants mild humility.
From women’s eyes this doctrine I derive:
They sparkle still the right Promethean fire;
They are the books, the arts, the academes,
That show, contain and nourish all the world:
Else none at all in ought proves excellent.
Then fools you were these women to forswear,
Or keeping what is sworn, you will prove fools.
For wisdom’s sake, a word that all men love,
Or for love’s sake, a word that loves all men,
Or for men’s sake, the authors of these women,
Or women’s sake, by whom we men are men,
Let us once lose our oaths to find ourselves,
Or else we lose ourselves to keep our oaths.
It is religion to be thus forsworn,
For charity itself fulfills the law,
And who can sever love from charity?
FERDINAND
Saint Cupid, then! and, soldiers, to the field!
BIRON
Advance your standards, and upon them, lords;
Pell-mell, down with them! but be first advised,
In conflict that you get the sun of them.
LONGAVILLE
Now to plain-dealing; lay these glozes by:
Shall we resolve to woo these girls of France?
FERDINAND
And win them too: therefore let us devise
Some entertainment for them in their tents.
BIRON
First, from the park let us conduct them thither;
Then homeward every man attach the hand
Of his fair mistress: in the afternoon
We will with some strange pastime solace them,
Such as the shortness of the time can shape;
For revels, dances, masks and merry hours
Forerun fair Love, strewing her way with flowers.
FERDINAND
Away, away! no time shall be omitted
That will betime, and may by us be fitted.
BIRON
Allons! allons! Sow’d cockle reap’d no corn;
And justice always whirls in equal measure:
Light wenches may prove plagues to men forsworn;
If so, our copper buys no better treasure.
Exeunt

LOVE’S LABOURS LOST
ACT V
SCENE I. The same.
Enter HOLOFERNES, SIR NATHANIEL, and DULL
HOLOFERNES
Satis quod sufficit.
SIR NATHANIEL
I praise God for you, sir: your reasons at dinner
have been sharp and sententious; pleasant without
scurrility, witty without affection, audacious without
impudency, learned without opinion, and strange with-
out heresy. I did converse this quondam day with
a companion of the king’s, who is intituled, nomi-
nated, or called, Don Adriano de Armado.
HOLOFERNES
Novi hominem tanquam te: his humour is lofty, his
discourse peremptory, his tongue filed, his eye
ambitious, his gait majestical, and his general
behavior vain, ridiculous, and thrasonical. He is
too picked, too spruce, too affected, too odd, as it
were, too peregrinate, as I may call it.
SIR NATHANIEL
A most singular and choice epithet.
Draws out his table-book

HOLOFERNES
He draweth out the thread of his verbosity finer
than the staple of his argument. I abhor such
fanatical phantasimes, such insociable and
point-devise companions; such rackers of
orthography, as to speak dout, fine, when he should
say doubt; det, when he should pronounce debt,–d,
e, b, t, not d, e, t: he clepeth a calf, cauf;
half, hauf; neighbour vocatur nebor; neigh
abbreviated ne. This is abhominable,–which he
would call abbominable: it insinuateth me of
insanie: anne intelligis, domine? to make frantic, lunatic.
SIR NATHANIEL
Laus Deo, bene intelligo.
HOLOFERNES
Bon, bon, fort bon, Priscian! a little scratch’d,
’twill serve.
SIR NATHANIEL
Videsne quis venit?
HOLOFERNES
Video, et gaudeo.
Enter DON ADRIANO DE ARMADO, MOTH, and COSTARD

DON
ADRIANO DE ARMADO
Chirrah!
To MOTH

HOLOFERNES
Quare chirrah, not sirrah?
DON
ADRIANO DE ARMADO
Men of peace, well encountered.
HOLOFERNES
Most military sir, salutation.
MOTH
[Aside to COSTARD] They have been at a great feast
of languages, and stolen the scraps.
COSTARD
O, they have lived long on the alms-basket of words.
I marvel thy master hath not eaten thee for a word;
for thou art not so long by the head as
honorificabilitudinitatibus: thou art easier
swallowed than a flap-dragon.
MOTH
Peace! the peal begins.
DON
ADRIANO DE ARMADO
[To HOLOFERNES] Monsieur, are you not lettered?
MOTH
Yes, yes; he teaches boys the hornbook. What is a,
b, spelt backward, with the horn on his head?
HOLOFERNES
Ba, pueritia, with a horn added.
MOTH
Ba, most silly sheep with a horn. You hear his learning.
HOLOFERNES
Quis, quis, thou consonant?
MOTH
The third of the five vowels, if you repeat them; or
the fifth, if I.
HOLOFERNES
I will repeat them,–a, e, i,–
MOTH
The sheep: the other two concludes it,–o, u.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Now, by the salt wave of the Mediterraneum, a sweet
touch, a quick venue of wit! snip, snap, quick and
home! it rejoiceth my intellect: true wit!
MOTH
Offered by a child to an old man; which is wit-old.
HOLOFERNES
What is the figure? what is the figure?
MOTH
Horns.
HOLOFERNES
Thou disputest like an infant: go, whip thy gig.
MOTH
Lend me your horn to make one, and I will whip about
your infamy circum circa,–a gig of a cuckold’s horn.
COSTARD
An I had but one penny in the world, thou shouldst
have it to buy gingerbread: hold, there is the very
remuneration I had of thy master, thou halfpenny
purse of wit, thou pigeon-egg of discretion. O, an
the heavens were so pleased that thou wert but my
bastard, what a joyful father wouldst thou make me!
Go to; thou hast it ad dunghill, at the fingers’
ends, as they say.
HOLOFERNES
O, I smell false Latin; dunghill for unguem.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Arts-man, preambulate, we will be singled from the
barbarous. Do you not educate youth at the
charge-house on the top of the mountain?
HOLOFERNES
Or mons, the hill.
DON
ADRIANO DE ARMADO
At your sweet pleasure, for the mountain.
HOLOFERNES
I do, sans question.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sir, it is the king’s most sweet pleasure and
affection to congratulate the princess at her
pavilion in the posteriors of this day, which the
rude multitude call the afternoon.
HOLOFERNES
The posterior of the day, most generous sir, is
liable, congruent and measurable for the afternoon:
the word is well culled, chose, sweet and apt, I do
assure you, sir, I do assure.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sir, the king is a noble gentleman, and my familiar,
I do assure ye, very good friend: for what is
inward between us, let it pass. I do beseech thee,
remember thy courtesy; I beseech thee, apparel thy
head: and among other important and most serious
designs, and of great import indeed, too, but let
that pass: for I must tell thee, it will please his
grace, by the world, sometime to lean upon my poor
shoulder, and with his royal finger, thus, dally
with my excrement, with my mustachio; but, sweet
heart, let that pass. By the world, I recount no
fable: some certain special honours it pleaseth his
greatness to impart to Armado, a soldier, a man of
travel, that hath seen the world; but let that pass.
The very all of all is,–but, sweet heart, I do
implore secrecy,–that the king would have me
present the princess, sweet chuck, with some
delightful ostentation, or show, or pageant, or
antique, or firework. Now, understanding that the
curate and your sweet self are good at such
eruptions and sudden breaking out of mirth, as it
were, I have acquainted you withal, to the end to
crave your assistance.
HOLOFERNES
Sir, you shall present before her the Nine Worthies.
Sir, as concerning some entertainment of time, some
show in the posterior of this day, to be rendered by
our assistants, at the king’s command, and this most
gallant, illustrate, and learned gentleman, before
the princess; I say none so fit as to present the
Nine Worthies.
SIR NATHANIEL
Where will you find men worthy enough to present them?
HOLOFERNES
Joshua, yourself; myself and this gallant gentleman,
Judas Maccabaeus; this swain, because of his great
limb or joint, shall pass Pompey the Great; the
page, Hercules,–
DON
ADRIANO DE ARMADO
Pardon, sir; error: he is not quantity enough for
that Worthy’s thumb: he is not so big as the end of his club.
HOLOFERNES
Shall I have audience? he shall present Hercules in
minority: his enter and exit shall be strangling a
snake; and I will have an apology for that purpose.
MOTH
An excellent device! so, if any of the audience
hiss, you may cry ‘Well done, Hercules! now thou
crushest the snake!’ that is the way to make an
offence gracious, though few have the grace to do it.
DON
ADRIANO DE ARMADO
For the rest of the Worthies?–
HOLOFERNES
I will play three myself.
MOTH
Thrice-worthy gentleman!
DON
ADRIANO DE ARMADO
Shall I tell you a thing?
HOLOFERNES
We attend.
DON
ADRIANO DE ARMADO
We will have, if this fadge not, an antique. I
beseech you, follow.
HOLOFERNES
Via, goodman Dull! thou hast spoken no word all this while.
DULL
Nor understood none neither, sir.
HOLOFERNES
Allons! we will employ thee.
DULL
I’ll make one in a dance, or so; or I will play
On the tabour to the Worthies, and let them dance the hay.
HOLOFERNES
Most dull, honest Dull! To our sport, away!
Exeunt

LOVE’S LABOURS LOST
SCENE II. The same.
Enter the PRINCESS, KATHARINE, ROSALINE, and MARIA
PRINCESS
Sweet hearts, we shall be rich ere we depart,
If fairings come thus plentifully in:
A lady wall’d about with diamonds!
Look you what I have from the loving king.
ROSALINE
Madame, came nothing else along with that?
PRINCESS
Nothing but this! yes, as much love in rhyme
As would be cramm’d up in a sheet of paper,
Writ o’ both sides the leaf, margent and all,
That he was fain to seal on Cupid’s name.
ROSALINE
That was the way to make his godhead wax,
For he hath been five thousand years a boy.
KATHARINE
Ay, and a shrewd unhappy gallows too.
ROSALINE
You’ll ne’er be friends with him; a’ kill’d your sister.
KATHARINE
He made her melancholy, sad, and heavy;
And so she died: had she been light, like you,
Of such a merry, nimble, stirring spirit,
She might ha’ been a grandam ere she died:
And so may you; for a light heart lives long.
ROSALINE
What’s your dark meaning, mouse, of this light word?
KATHARINE
A light condition in a beauty dark.
ROSALINE
We need more light to find your meaning out.
KATHARINE
You’ll mar the light by taking it in snuff;
Therefore I’ll darkly end the argument.
ROSALINE
Look what you do, you do it still i’ the dark.
KATHARINE
So do not you, for you are a light wench.
ROSALINE
Indeed I weigh not you, and therefore light.
KATHARINE
You weigh me not? O, that’s you care not for me.
ROSALINE
Great reason; for ‘past cure is still past care.’
PRINCESS
Well bandied both; a set of wit well play’d.
But Rosaline, you have a favour too:
Who sent it? and what is it?
ROSALINE
I would you knew:
An if my face were but as fair as yours,
My favour were as great; be witness this.
Nay, I have verses too, I thank Biron:
The numbers true; and, were the numbering too,
I were the fairest goddess on the ground:
I am compared to twenty thousand fairs.
O, he hath drawn my picture in his letter!
PRINCESS
Any thing like?
ROSALINE
Much in the letters; nothing in the praise.
PRINCESS
Beauteous as ink; a good conclusion.
KATHARINE
Fair as a text B in a copy-book.
ROSALINE
‘Ware pencils, ho! let me not die your debtor,
My red dominical, my golden letter:
O, that your face were not so full of O’s!
KATHARINE
A pox of that jest! and I beshrew all shrows.
PRINCESS
But, Katharine, what was sent to you from fair Dumain?
KATHARINE
Madam, this glove.
PRINCESS
Did he not send you twain?
KATHARINE
Yes, madam, and moreover
Some thousand verses of a faithful lover,
A huge translation of hypocrisy,
Vilely compiled, profound simplicity.
MARIA
This and these pearls to me sent Longaville:
The letter is too long by half a mile.
PRINCESS
I think no less. Dost thou not wish in heart
The chain were longer and the letter short?
MARIA
Ay, or I would these hands might never part.
PRINCESS
We are wise girls to mock our lovers so.
ROSALINE
They are worse fools to purchase mocking so.
That same Biron I’ll torture ere I go:
O that I knew he were but in by the week!
How I would make him fawn and beg and seek
And wait the season and observe the times
And spend his prodigal wits in bootless rhymes
And shape his service wholly to my hests
And make him proud to make me proud that jests!
So perttaunt-like would I o’ersway his state
That he should be my fool and I his fate.
PRINCESS
None are so surely caught, when they are catch’d,
As wit turn’d fool: folly, in wisdom hatch’d,
Hath wisdom’s warrant and the help of school
And wit’s own grace to grace a learned fool.
ROSALINE
The blood of youth burns not with such excess
As gravity’s revolt to wantonness.
MARIA
Folly in fools bears not so strong a note
As foolery in the wise, when wit doth dote;
Since all the power thereof it doth apply
To prove, by wit, worth in simplicity.
PRINCESS
Here comes Boyet, and mirth is in his face.
Enter BOYET

BOYET
O, I am stabb’d with laughter! Where’s her grace?
PRINCESS
Thy news Boyet?
BOYET
Prepare, madam, prepare!
Arm, wenches, arm! encounters mounted are
Against your peace: Love doth approach disguised,
Armed in arguments; you’ll be surprised:
Muster your wits; stand in your own defence;
Or hide your heads like cowards, and fly hence.
PRINCESS
Saint Denis to Saint Cupid! What are they
That charge their breath against us? say, scout, say.
BOYET
Under the cool shade of a sycamore
I thought to close mine eyes some half an hour;
When, lo! to interrupt my purposed rest,
Toward that shade I might behold addrest
The king and his companions: warily
I stole into a neighbour thicket by,
And overheard what you shall overhear,
That, by and by, disguised they will be here.
Their herald is a pretty knavish page,
That well by heart hath conn’d his embassage:
Action and accent did they teach him there;
‘Thus must thou speak,’ and ‘thus thy body bear:’
And ever and anon they made a doubt
Presence majestical would put him out,
‘For,’ quoth the king, ‘an angel shalt thou see;
Yet fear not thou, but speak audaciously.’
The boy replied, ‘An angel is not evil;
I should have fear’d her had she been a devil.’
With that, all laugh’d and clapp’d him on the shoulder,
Making the bold wag by their praises bolder:
One rubb’d his elbow thus, and fleer’d and swore
A better speech was never spoke before;
Another, with his finger and his thumb,
Cried, ‘Via! we will do’t, come what will come;’
The third he caper’d, and cried, ‘All goes well;’
The fourth turn’d on the toe, and down he fell.
With that, they all did tumble on the ground,
With such a zealous laughter, so profound,
That in this spleen ridiculous appears,
To cheque their folly, passion’s solemn tears.
PRINCESS
But what, but what, come they to visit us?
BOYET
They do, they do: and are apparell’d thus.
Like Muscovites or Russians, as I guess.
Their purpose is to parle, to court and dance;
And every one his love-feat will advance
Unto his several mistress, which they’ll know
By favours several which they did bestow.
PRINCESS
And will they so? the gallants shall be task’d;
For, ladies, we shall every one be mask’d;
And not a man of them shall have the grace,
Despite of suit, to see a lady’s face.
Hold, Rosaline, this favour thou shalt wear,
And then the king will court thee for his dear;
Hold, take thou this, my sweet, and give me thine,
So shall Biron take me for Rosaline.
And change your favours too; so shall your loves
Woo contrary, deceived by these removes.
ROSALINE
Come on, then; wear the favours most in sight.
KATHARINE
But in this changing what is your intent?
PRINCESS
The effect of my intent is to cross theirs:
They do it but in mocking merriment;
And mock for mock is only my intent.
Their several counsels they unbosom shall
To loves mistook, and so be mock’d withal
Upon the next occasion that we meet,
With visages displayed, to talk and greet.
ROSALINE
But shall we dance, if they desire to’t?
PRINCESS
No, to the death, we will not move a foot;
Nor to their penn’d speech render we no grace,
But while ’tis spoke each turn away her face.
BOYET
Why, that contempt will kill the speaker’s heart,
And quite divorce his memory from his part.
PRINCESS
Therefore I do it; and I make no doubt
The rest will ne’er come in, if he be out
There’s no such sport as sport by sport o’erthrown,
To make theirs ours and ours none but our own:
So shall we stay, mocking intended game,
And they, well mock’d, depart away with shame.
Trumpets sound within

BOYET
The trumpet sounds: be mask’d; the maskers come.
The Ladies mask

Enter Blackamoors with music; MOTH; FERDINAND, BIRON, LONGAVILLE, and DUMAIN, in Russian habits, and masked

MOTH
All hail, the richest beauties on the earth!–
BOYET
Beauties no richer than rich taffeta.
MOTH
A holy parcel of the fairest dames.
The Ladies turn their backs to him

That ever turn’d their–backs–to mortal views!
BIRON
[Aside to MOTH] Their eyes, villain, their eyes!
MOTH
That ever turn’d their eyes to mortal views!–Out–
BOYET
True; out indeed.
MOTH
Out of your favours, heavenly spirits, vouchsafe
Not to behold–
BIRON
[Aside to MOTH] Once to behold, rogue.
MOTH
Once to behold with your sun-beamed eyes,
–with your sun-beamed eyes–
BOYET
They will not answer to that epithet;
You were best call it ‘daughter-beamed eyes.’
MOTH
They do not mark me, and that brings me out.
BIRON
Is this your perfectness? be gone, you rogue!
Exit MOTH

ROSALINE
What would these strangers? know their minds, Boyet:
If they do speak our language, ’tis our will:
That some plain man recount their purposes
Know what they would.
BOYET
What would you with the princess?
BIRON
Nothing but peace and gentle visitation.
ROSALINE
What would they, say they?
BOYET
Nothing but peace and gentle visitation.
ROSALINE
Why, that they have; and bid them so be gone.
BOYET
She says, you have it, and you may be gone.
FERDINAND
Say to her, we have measured many miles
To tread a measure with her on this grass.
BOYET
They say, that they have measured many a mile
To tread a measure with you on this grass.
ROSALINE
It is not so. Ask them how many inches
Is in one mile: if they have measured many,
The measure then of one is easily told.
BOYET
If to come hither you have measured miles,
And many miles, the princess bids you tell
How many inches doth fill up one mile.
BIRON
Tell her, we measure them by weary steps.
BOYET
She hears herself.
ROSALINE
How many weary steps,
Of many weary miles you have o’ergone,
Are number’d in the travel of one mile?
BIRON
We number nothing that we spend for you:
Our duty is so rich, so infinite,
That we may do it still without accompt.
Vouchsafe to show the sunshine of your face,
That we, like savages, may worship it.
ROSALINE
My face is but a moon, and clouded too.
FERDINAND
Blessed are clouds, to do as such clouds do!
Vouchsafe, bright moon, and these thy stars, to shine,
Those clouds removed, upon our watery eyne.
ROSALINE
O vain petitioner! beg a greater matter;
Thou now request’st but moonshine in the water.
FERDINAND
Then, in our measure do but vouchsafe one change.
Thou bid’st me beg: this begging is not strange.
ROSALINE
Play, music, then! Nay, you must do it soon.
Music plays

Not yet! no dance! Thus change I like the moon.
FERDINAND
Will you not dance? How come you thus estranged?
ROSALINE
You took the moon at full, but now she’s changed.
FERDINAND
Yet still she is the moon, and I the man.
The music plays; vouchsafe some motion to it.
ROSALINE
Our ears vouchsafe it.
FERDINAND
But your legs should do it.
ROSALINE
Since you are strangers and come here by chance,
We’ll not be nice: take hands. We will not dance.
FERDINAND
Why take we hands, then?
ROSALINE
Only to part friends:
Curtsy, sweet hearts; and so the measure ends.
FERDINAND
More measure of this measure; be not nice.
ROSALINE
We can afford no more at such a price.
FERDINAND
Prize you yourselves: what buys your company?
ROSALINE
Your absence only.
FERDINAND
That can never be.
ROSALINE
Then cannot we be bought: and so, adieu;
Twice to your visor, and half once to you.
FERDINAND
If you deny to dance, let’s hold more chat.
ROSALINE
In private, then.
FERDINAND
I am best pleased with that.
They converse apart

BIRON
White-handed mistress, one sweet word with thee.
PRINCESS
Honey, and milk, and sugar; there is three.
BIRON
Nay then, two treys, and if you grow so nice,
Metheglin, wort, and malmsey: well run, dice!
There’s half-a-dozen sweets.
PRINCESS
Seventh sweet, adieu:
Since you can cog, I’ll play no more with you.
BIRON
One word in secret.
PRINCESS
Let it not be sweet.
BIRON
Thou grievest my gall.
PRINCESS
Gall! bitter.
BIRON
Therefore meet.
They converse apart

DUMAIN
Will you vouchsafe with me to change a word?
MARIA
Name it.
DUMAIN
Fair lady,–
MARIA
Say you so? Fair lord,–
Take that for your fair lady.
DUMAIN
Please it you,
As much in private, and I’ll bid adieu.
They converse apart

KATHARINE
What, was your vizard made without a tongue?
LONGAVILLE
I know the reason, lady, why you ask.
KATHARINE
O for your reason! quickly, sir; I long.
LONGAVILLE
You have a double tongue within your mask,
And would afford my speechless vizard half.
KATHARINE
Veal, quoth the Dutchman. Is not ‘veal’ a calf?
LONGAVILLE
A calf, fair lady!
KATHARINE
No, a fair lord calf.
LONGAVILLE
Let’s part the word.
KATHARINE
No, I’ll not be your half
Take all, and wean it; it may prove an ox.
LONGAVILLE
Look, how you butt yourself in these sharp mocks!
Will you give horns, chaste lady? do not so.
KATHARINE
Then die a calf, before your horns do grow.
LONGAVILLE
One word in private with you, ere I die.
KATHARINE
Bleat softly then; the butcher hears you cry.
They converse apart

BOYET
The tongues of mocking wenches are as keen
As is the razor’s edge invisible,
Cutting a smaller hair than may be seen,
Above the sense of sense; so sensible
Seemeth their conference; their conceits have wings
Fleeter than arrows, bullets, wind, thought, swifter things.
ROSALINE
Not one word more, my maids; break off, break off.
BIRON
By heaven, all dry-beaten with pure scoff!
FERDINAND
Farewell, mad wenches; you have simple wits.
PRINCESS
Twenty adieus, my frozen Muscovits.
Exeunt FERDINAND, Lords, and Blackamoors

Are these the breed of wits so wonder’d at?
BOYET
Tapers they are, with your sweet breaths puff’d out.
ROSALINE
Well-liking wits they have; gross, gross; fat, fat.
PRINCESS
O poverty in wit, kingly-poor flout!
Will they not, think you, hang themselves tonight?
Or ever, but in vizards, show their faces?
This pert Biron was out of countenance quite.
ROSALINE
O, they were all in lamentable cases!
The king was weeping-ripe for a good word.
PRINCESS
Biron did swear himself out of all suit.
MARIA
Dumain was at my service, and his sword:
No point, quoth I; my servant straight was mute.
KATHARINE
Lord Longaville said, I came o’er his heart;
And trow you what he called me?
PRINCESS
Qualm, perhaps.
KATHARINE
Yes, in good faith.
PRINCESS
Go, sickness as thou art!
ROSALINE
Well, better wits have worn plain statute-caps.
But will you hear? the king is my love sworn.
PRINCESS
And quick Biron hath plighted faith to me.
KATHARINE
And Longaville was for my service born.
MARIA
Dumain is mine, as sure as bark on tree.
BOYET
Madam, and pretty mistresses, give ear:
Immediately they will again be here
In their own shapes; for it can never be
They will digest this harsh indignity.
PRINCESS
Will they return?
BOYET
They will, they will, God knows,
And leap for joy, though they are lame with blows:
Therefore change favours; and, when they repair,
Blow like sweet roses in this summer air.
PRINCESS
How blow? how blow? speak to be understood.
BOYET
Fair ladies mask’d are roses in their bud;
Dismask’d, their damask sweet commixture shown,
Are angels vailing clouds, or roses blown.
PRINCESS
Avaunt, perplexity! What shall we do,
If they return in their own shapes to woo?
ROSALINE
Good madam, if by me you’ll be advised,
Let’s, mock them still, as well known as disguised:
Let us complain to them what fools were here,
Disguised like Muscovites, in shapeless gear;
And wonder what they were and to what end
Their shallow shows and prologue vilely penn’d
And their rough carriage so ridiculous,
Should be presented at our tent to us.
BOYET
Ladies, withdraw: the gallants are at hand.
PRINCESS
Whip to our tents, as roes run o’er land.
Exeunt PRINCESS, ROSALINE, KATHARINE, and MARIA

Re-enter FERDINAND, BIRON, LONGAVILLE, and DUMAIN, in their proper habits

FERDINAND
Fair sir, God save you! Where’s the princess?
BOYET
Gone to her tent. Please it your majesty
Command me any service to her thither?
FERDINAND
That she vouchsafe me audience for one word.
BOYET
I will; and so will she, I know, my lord.
Exit

BIRON
This fellow pecks up wit as pigeons pease,
And utters it again when God doth please:
He is wit’s pedler, and retails his wares
At wakes and wassails, meetings, markets, fairs;
And we that sell by gross, the Lord doth know,
Have not the grace to grace it with such show.
This gallant pins the wenches on his sleeve;
Had he been Adam, he had tempted Eve;
A’ can carve too, and lisp: why, this is he
That kiss’d his hand away in courtesy;
This is the ape of form, monsieur the nice,
That, when he plays at tables, chides the dice
In honourable terms: nay, he can sing
A mean most meanly; and in ushering
Mend him who can: the ladies call him sweet;
The stairs, as he treads on them, kiss his feet:
This is the flower that smiles on every one,
To show his teeth as white as whale’s bone;
And consciences, that will not die in debt,
Pay him the due of honey-tongued Boyet.
FERDINAND
A blister on his sweet tongue, with my heart,
That put Armado’s page out of his part!
BIRON
See where it comes! Behavior, what wert thou
Till this madman show’d thee? and what art thou now?
Re-enter the PRINCESS, ushered by BOYET, ROSALINE, MARIA, and KATHARINE

FERDINAND
All hail, sweet madam, and fair time of day!
PRINCESS
‘Fair’ in ‘all hail’ is foul, as I conceive.
FERDINAND
Construe my speeches better, if you may.
PRINCESS
Then wish me better; I will give you leave.
FERDINAND
We came to visit you, and purpose now
To lead you to our court; vouchsafe it then.
PRINCESS
This field shall hold me; and so hold your vow:
Nor God, nor I, delights in perjured men.
FERDINAND
Rebuke me not for that which you provoke:
The virtue of your eye must break my oath.
PRINCESS
You nickname virtue; vice you should have spoke;
For virtue’s office never breaks men’s troth.
Now by my maiden honour, yet as pure
As the unsullied lily, I protest,
A world of torments though I should endure,
I would not yield to be your house’s guest;
So much I hate a breaking cause to be
Of heavenly oaths, vow’d with integrity.
FERDINAND
O, you have lived in desolation here,
Unseen, unvisited, much to our shame.
PRINCESS
Not so, my lord; it is not so, I swear;
We have had pastimes here and pleasant game:
A mess of Russians left us but of late.
FERDINAND
How, madam! Russians!
PRINCESS
Ay, in truth, my lord;
Trim gallants, full of courtship and of state.
ROSALINE
Madam, speak true. It is not so, my lord:
My lady, to the manner of the days,
In courtesy gives undeserving praise.
We four indeed confronted were with four
In Russian habit: here they stay’d an hour,
And talk’d apace; and in that hour, my lord,
They did not bless us with one happy word.
I dare not call them fools; but this I think,
When they are thirsty, fools would fain have drink.
BIRON
This jest is dry to me. Fair gentle sweet,
Your wit makes wise things foolish: when we greet,
With eyes best seeing, heaven’s fiery eye,
By light we lose light: your capacity
Is of that nature that to your huge store
Wise things seem foolish and rich things but poor.
ROSALINE
This proves you wise and rich, for in my eye,–
BIRON
I am a fool, and full of poverty.
ROSALINE
But that you take what doth to you belong,
It were a fault to snatch words from my tongue.
BIRON
O, I am yours, and all that I possess!
ROSALINE
All the fool mine?
BIRON
I cannot give you less.
ROSALINE
Which of the vizards was it that you wore?
BIRON
Where? when? what vizard? why demand you this?
ROSALINE
There, then, that vizard; that superfluous case
That hid the worse and show’d the better face.
FERDINAND
We are descried; they’ll mock us now downright.
DUMAIN
Let us confess and turn it to a jest.
PRINCESS
Amazed, my lord? why looks your highness sad?
ROSALINE
Help, hold his brows! he’ll swoon! Why look you pale?
Sea-sick, I think, coming from Muscovy.
BIRON
Thus pour the stars down plagues for perjury.
Can any face of brass hold longer out?
Here stand I
lady, dart thy skill at me;
Bruise me with scorn, confound me with a flout;
Thrust thy sharp wit quite through my ignorance;
Cut me to pieces with thy keen conceit;
And I will wish thee never more to dance,
Nor never more in Russian habit wait.
O, never will I trust to speeches penn’d,
Nor to the motion of a schoolboy’s tongue,
Nor never come in vizard to my friend,
Nor woo in rhyme, like a blind harper’s song!
Taffeta phrases, silken terms precise,
Three-piled hyperboles, spruce affectation,
Figures pedantical; these summer-flies
Have blown me full of maggot ostentation:
I do forswear them; and I here protest,
By this white glove;–how white the hand, God knows!–
Henceforth my wooing mind shall be express’d
In russet yeas and honest kersey noes:
And, to begin, wench,–so God help me, la!–
My love to thee is sound, sans crack or flaw.
ROSALINE
Sans sans, I pray you.
BIRON
Yet I have a trick
Of the old rage: bear with me, I am sick;
I’ll leave it by degrees. Soft, let us see:
Write, ‘Lord have mercy on us’ on those three;
They are infected; in their hearts it lies;
They have the plague, and caught it of your eyes;
These lords are visited; you are not free,
For the Lord’s tokens on you do I see.
PRINCESS
No, they are free that gave these tokens to us.
BIRON
Our states are forfeit: seek not to undo us.
ROSALINE
It is not so; for how can this be true,
That you stand forfeit, being those that sue?
BIRON
Peace! for I will not have to do with you.
ROSALINE
Nor shall not, if I do as I intend.
BIRON
Speak for yourselves; my wit is at an end.
FERDINAND
Teach us, sweet madam, for our rude transgression
Some fair excuse.
PRINCESS
The fairest is confession.
Were not you here but even now disguised?
FERDINAND
Madam, I was.
PRINCESS
And were you well advised?
FERDINAND
I was, fair madam.
PRINCESS
When you then were here,
What did you whisper in your lady’s ear?
FERDINAND
That more than all the world I did respect her.
PRINCESS
When she shall challenge this, you will reject her.
FERDINAND
Upon mine honour, no.
PRINCESS
Peace, peace! forbear:
Your oath once broke, you force not to forswear.
FERDINAND
Despise me, when I break this oath of mine.
PRINCESS
I will: and therefore keep it. Rosaline,
What did the Russian whisper in your ear?
ROSALINE
Madam, he swore that he did hold me dear
As precious eyesight, and did value me
Above this world; adding thereto moreover
That he would wed me, or else die my lover.
PRINCESS
God give thee joy of him! the noble lord
Most honourably doth unhold his word.
FERDINAND
What mean you, madam? by my life, my troth,
I never swore this lady such an oath.
ROSALINE
By heaven, you did; and to confirm it plain,
You gave me this: but take it, sir, again.
FERDINAND
My faith and this the princess I did give:
I knew her by this jewel on her sleeve.
PRINCESS
Pardon me, sir, this jewel did she wear;
And Lord Biron, I thank him, is my dear.
What, will you have me, or your pearl again?
BIRON
Neither of either; I remit both twain.
I see the trick on’t: here was a consent,
Knowing aforehand of our merriment,
To dash it like a Christmas comedy:
Some carry-tale, some please-man, some slight zany,
Some mumble-news, some trencher-knight, some Dick,
That smiles his cheek in years and knows the trick
To make my lady laugh when she’s disposed,
Told our intents before; which once disclosed,
The ladies did change favours: and then we,
Following the signs, woo’d but the sign of she.
Now, to our perjury to add more terror,
We are again forsworn, in will and error.
Much upon this it is: and might not you
To BOYET

Forestall our sport, to make us thus untrue?
Do not you know my lady’s foot by the squier,
And laugh upon the apple of her eye?
And stand between her back, sir, and the fire,
Holding a trencher, jesting merrily?
You put our page out: go, you are allow’d;
Die when you will, a smock shall be your shroud.
You leer upon me, do you? there’s an eye
Wounds like a leaden sword.
BOYET
Full merrily
Hath this brave manage, this career, been run.
BIRON
Lo, he is tilting straight! Peace! I have done.
Enter COSTARD

Welcome, pure wit! thou partest a fair fray.
COSTARD
O Lord, sir, they would know
Whether the three Worthies shall come in or no.
BIRON
What, are there but three?
COSTARD
No, sir; but it is vara fine,
For every one pursents three.
BIRON
And three times thrice is nine.
COSTARD
Not so, sir; under correction, sir; I hope it is not so.
You cannot beg us, sir, I can assure you, sir we know
what we know:
I hope, sir, three times thrice, sir,–
BIRON
Is not nine.
COSTARD
Under correction, sir, we know whereuntil it doth amount.
BIRON
By Jove, I always took three threes for nine.
COSTARD
O Lord, sir, it were pity you should get your living
by reckoning, sir.
BIRON
How much is it?
COSTARD
O Lord, sir, the parties themselves, the actors,
sir, will show whereuntil it doth amount: for mine
own part, I am, as they say, but to parfect one man
in one poor man, Pompion the Great, sir.
BIRON
Art thou one of the Worthies?
COSTARD
It pleased them to think me worthy of Pompion the
Great: for mine own part, I know not the degree of
the Worthy, but I am to stand for him.
BIRON
Go, bid them prepare.
COSTARD
We will turn it finely off, sir; we will take
some care.
Exit

FERDINAND
Biron, they will shame us: let them not approach.
BIRON
We are shame-proof, my lord: and tis some policy
To have one show worse than the king’s and his company.
FERDINAND
I say they shall not come.
PRINCESS
Nay, my good lord, let me o’errule you now:
That sport best pleases that doth least know how:
Where zeal strives to content, and the contents
Dies in the zeal of that which it presents:
Their form confounded makes most form in mirth,
When great things labouring perish in their birth.
BIRON
A right description of our sport, my lord.
Enter DON ADRIANO DE ARMADO

DON
ADRIANO DE ARMADO
Anointed, I implore so much expense of thy royal
sweet breath as will utter a brace of words.
Converses apart with FERDINAND, and delivers him a paper

PRINCESS
Doth this man serve God?
BIRON
Why ask you?
PRINCESS
He speaks not like a man of God’s making.
DON
ADRIANO DE ARMADO
That is all one, my fair, sweet, honey monarch; for,
I protest, the schoolmaster is exceeding
fantastical; too, too vain, too too vain: but we
will put it, as they say, to fortuna de la guerra.
I wish you the peace of mind, most royal couplement!
Exit

FERDINAND
Here is like to be a good presence of Worthies. He
presents Hector of Troy; the swain, Pompey the
Great; the parish curate, Alexander; Armado’s page,
Hercules; the pedant, Judas Maccabaeus: And if
these four Worthies in their first show thrive,
These four will change habits, and present the other five.
BIRON
There is five in the first show.
FERDINAND
You are deceived; ’tis not so.
BIRON
The pedant, the braggart, the hedge-priest, the fool
and the boy:–
Abate throw at novum, and the whole world again
Cannot pick out five such, take each one in his vein.
FERDINAND
The ship is under sail, and here she comes amain.
Enter COSTARD, for Pompey

COSTARD
I Pompey am,–
BOYET
You lie, you are not he.
COSTARD
I Pompey am,–
BOYET
With libbard’s head on knee.
BIRON
Well said, old mocker: I must needs be friends
with thee.
COSTARD
I Pompey am, Pompey surnamed the Big–
DUMAIN
The Great.
COSTARD
It is, ‘Great,’ sir:–
Pompey surnamed the Great;
That oft in field, with targe and shield, did make
my foe to sweat:
And travelling along this coast, I here am come by chance,
And lay my arms before the legs of this sweet lass of France,
If your ladyship would say, ‘Thanks, Pompey,’ I had done.
PRINCESS
Great thanks, great Pompey.
COSTARD
‘Tis not so much worth; but I hope I was perfect: I
made a little fault in ‘Great.’
BIRON
My hat to a halfpenny, Pompey proves the best Worthy.
Enter SIR NATHANIEL, for Alexander

SIR NATHANIEL
When in the world I lived, I was the world’s
commander;
By east, west, north, and south, I spread my
conquering might:
My scutcheon plain declares that I am Alisander,–
BOYET
Your nose says, no, you are not for it stands too right.
BIRON
Your nose smells ‘no’ in this, most tender-smelling knight.
PRINCESS
The conqueror is dismay’d. Proceed, good Alexander.
SIR NATHANIEL
When in the world I lived, I was the world’s
commander,–
BOYET
Most true, ’tis right; you were so, Alisander.
BIRON
Pompey the Great,–
COSTARD
Your servant, and Costard.
BIRON
Take away the conqueror, take away Alisander.
COSTARD
[To SIR NATHANIEL] O, sir, you have overthrown
Alisander the conqueror! You will be scraped out of
the painted cloth for this: your lion, that holds
his poll-axe sitting on a close-stool, will be given
to Ajax: he will be the ninth Worthy. A conqueror,
and afeard to speak! run away for shame, Alisander.
SIR NATHANIEL retires

There, an’t shall please you; a foolish mild man; an
honest man, look you, and soon dashed. He is a
marvellous good neighbour, faith, and a very good
bowler: but, for Alisander,–alas, you see how
’tis,–a little o’erparted. But there are Worthies
a-coming will speak their mind in some other sort.
Enter HOLOFERNES, for Judas; and MOTH, for Hercules

HOLOFERNES
Great Hercules is presented by this imp,
Whose club kill’d Cerberus, that three-headed canis;
And when he was a babe, a child, a shrimp,
Thus did he strangle serpents in his manus.
Quoniam he seemeth in minority,
Ergo I come with this apology.
Keep some state in thy exit, and vanish.
MOTH retires

Judas I am,–
DUMAIN
A Judas!
HOLOFERNES
Not Iscariot, sir.
Judas I am, ycliped Maccabaeus.
DUMAIN
Judas Maccabaeus clipt is plain Judas.
BIRON
A kissing traitor. How art thou proved Judas?
HOLOFERNES
Judas I am,–
DUMAIN
The more shame for you, Judas.
HOLOFERNES
What mean you, sir?
BOYET
To make Judas hang himself.
HOLOFERNES
Begin, sir; you are my elder.
BIRON
Well followed: Judas was hanged on an elder.
HOLOFERNES
I will not be put out of countenance.
BIRON
Because thou hast no face.
HOLOFERNES
What is this?
BOYET
A cittern-head.
DUMAIN
The head of a bodkin.
BIRON
A Death’s face in a ring.
LONGAVILLE
The face of an old Roman coin, scarce seen.
BOYET
The pommel of Caesar’s falchion.
DUMAIN
The carved-bone face on a flask.
BIRON
Saint George’s half-cheek in a brooch.
DUMAIN
Ay, and in a brooch of lead.
BIRON
Ay, and worn in the cap of a tooth-drawer.
And now forward; for we have put thee in countenance.
HOLOFERNES
You have put me out of countenance.
BIRON
False; we have given thee faces.
HOLOFERNES
But you have out-faced them all.
BIRON
An thou wert a lion, we would do so.
BOYET
Therefore, as he is an ass, let him go.
And so adieu, sweet Jude! nay, why dost thou stay?
DUMAIN
For the latter end of his name.
BIRON
For the ass to the Jude; give it him:–Jud-as, away!
HOLOFERNES
This is not generous, not gentle, not humble.
BOYET
A light for Monsieur Judas! it grows dark, he may stumble.
HOLOFERNES retires

PRINCESS
Alas, poor Maccabaeus, how hath he been baited!
Enter DON ADRIANO DE ARMADO, for Hector

BIRON
Hide thy head, Achilles: here comes Hector in arms.
DUMAIN
Though my mocks come home by me, I will now be merry.
FERDINAND
Hector was but a Troyan in respect of this.
BOYET
But is this Hector?
FERDINAND
I think Hector was not so clean-timbered.
LONGAVILLE
His leg is too big for Hector’s.
DUMAIN
More calf, certain.
BOYET
No; he is best endued in the small.
BIRON
This cannot be Hector.
DUMAIN
He’s a god or a painter; for he makes faces.
DON
ADRIANO DE ARMADO
The armipotent Mars, of lances the almighty,
Gave Hector a gift,–
DUMAIN
A gilt nutmeg.
BIRON
A lemon.
LONGAVILLE
Stuck with cloves.
DUMAIN
No, cloven.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Peace!–
The armipotent Mars, of lances the almighty
Gave Hector a gift, the heir of Ilion;
A man so breathed, that certain he would fight; yea
From morn till night, out of his pavilion.
I am that flower,–
DUMAIN
That mint.
LONGAVILLE
That columbine.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sweet Lord Longaville, rein thy tongue.
LONGAVILLE
I must rather give it the rein, for it runs against Hector.
DUMAIN
Ay, and Hector’s a greyhound.
DON
ADRIANO DE ARMADO
The sweet war-man is dead and rotten; sweet chucks,
beat not the bones of the buried: when he breathed,
he was a man. But I will forward with my device.
To the PRINCESS

Sweet royalty, bestow on me the sense of hearing.
PRINCESS
Speak, brave Hector: we are much delighted.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I do adore thy sweet grace’s slipper.
BOYET
[Aside to DUMAIN] Loves her by the foot,–
DUMAIN
[Aside to BOYET] He may not by the yard.
DON
ADRIANO DE ARMADO
This Hector far surmounted Hannibal,–
COSTARD
The party is gone, fellow Hector, she is gone; she
is two months on her way.
DON
ADRIANO DE ARMADO
What meanest thou?
COSTARD
Faith, unless you play the honest Troyan, the poor
wench is cast away: she’s quick; the child brags in
her belly already: tis yours.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Dost thou infamonize me among potentates? thou shalt
die.
COSTARD
Then shall Hector be whipped for Jaquenetta that is
quick by him and hanged for Pompey that is dead by
him.
DUMAIN
Most rare Pompey!
BOYET
Renowned Pompey!
BIRON
Greater than great, great, great, great Pompey!
Pompey the Huge!
DUMAIN
Hector trembles.
BIRON
Pompey is moved. More Ates, more Ates! stir them
on! stir them on!
DUMAIN
Hector will challenge him.
BIRON
Ay, if a’ have no man’s blood in’s belly than will
sup a flea.
DON
ADRIANO DE ARMADO
By the north pole, I do challenge thee.
COSTARD
I will not fight with a pole, like a northern man:
I’ll slash; I’ll do it by the sword. I bepray you,
let me borrow my arms again.
DUMAIN
Room for the incensed Worthies!
COSTARD
I’ll do it in my shirt.
DUMAIN
Most resolute Pompey!
MOTH
Master, let me take you a buttonhole lower. Do you
not see Pompey is uncasing for the combat? What mean
you? You will lose your reputation.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Gentlemen and soldiers, pardon me; I will not combat
in my shirt.
DUMAIN
You may not deny it: Pompey hath made the challenge.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Sweet bloods, I both may and will.
BIRON
What reason have you for’t?
DON
ADRIANO DE ARMADO
The naked truth of it is, I have no shirt; I go
woolward for penance.
BOYET
True, and it was enjoined him in Rome for want of
linen: since when, I’ll be sworn, he wore none but
a dishclout of Jaquenetta’s, and that a’ wears next
his heart for a favour.
Enter MERCADE

MERCADE
God save you, madam!
PRINCESS
Welcome, Mercade;
But that thou interrupt’st our merriment.
MERCADE
I am sorry, madam; for the news I bring
Is heavy in my tongue. The king your father–
PRINCESS
Dead, for my life!
MERCADE
Even so; my tale is told.
BIRON
Worthies, away! the scene begins to cloud.
DON
ADRIANO DE ARMADO
For mine own part, I breathe free breath. I have
seen the day of wrong through the little hole of
discretion, and I will right myself like a soldier.
Exeunt Worthies

FERDINAND
How fares your majesty?
PRINCESS
Boyet, prepare; I will away tonight.
FERDINAND
Madam, not so; I do beseech you, stay.
PRINCESS
Prepare, I say. I thank you, gracious lords,
For all your fair endeavors; and entreat,
Out of a new-sad soul, that you vouchsafe
In your rich wisdom to excuse or hide
The liberal opposition of our spirits,
If over-boldly we have borne ourselves
In the converse of breath: your gentleness
Was guilty of it. Farewell worthy lord!
A heavy heart bears not a nimble tongue:
Excuse me so, coming too short of thanks
For my great suit so easily obtain’d.
FERDINAND
The extreme parts of time extremely forms
All causes to the purpose of his speed,
And often at his very loose decides
That which long process could not arbitrate:
And though the mourning brow of progeny
Forbid the smiling courtesy of love
The holy suit which fain it would convince,
Yet, since love’s argument was first on foot,
Let not the cloud of sorrow justle it
From what it purposed; since, to wail friends lost
Is not by much so wholesome-profitable
As to rejoice at friends but newly found.
PRINCESS
I understand you not: my griefs are double.
BIRON
Honest plain words best pierce the ear of grief;
And by these badges understand the king.
For your fair sakes have we neglected time,
Play’d foul play with our oaths: your beauty, ladies,
Hath much deform’d us, fashioning our humours
Even to the opposed end of our intents:
And what in us hath seem’d ridiculous,–
As love is full of unbefitting strains,
All wanton as a child, skipping and vain,
Form’d by the eye and therefore, like the eye,
Full of strange shapes, of habits and of forms,
Varying in subjects as the eye doth roll
To every varied object in his glance:
Which parti-coated presence of loose love
Put on by us, if, in your heavenly eyes,
Have misbecomed our oaths and gravities,
Those heavenly eyes, that look into these faults,
Suggested us to make. Therefore, ladies,
Our love being yours, the error that love makes
Is likewise yours: we to ourselves prove false,
By being once false for ever to be true
To those that make us both,–fair ladies, you:
And even that falsehood, in itself a sin,
Thus purifies itself and turns to grace.
PRINCESS
We have received your letters full of love;
Your favours, the ambassadors of love;
And, in our maiden council, rated them
At courtship, pleasant jest and courtesy,
As bombast and as lining to the time:
But more devout than this in our respects
Have we not been; and therefore met your loves
In their own fashion, like a merriment.
DUMAIN
Our letters, madam, show’d much more than jest.
LONGAVILLE
So did our looks.
ROSALINE
We did not quote them so.
FERDINAND
Now, at the latest minute of the hour,
Grant us your loves.
PRINCESS
A time, methinks, too short
To make a world-without-end bargain in.
No, no, my lord, your grace is perjured much,
Full of dear guiltiness; and therefore this:
If for my love, as there is no such cause,
You will do aught, this shall you do for me:
Your oath I will not trust; but go with speed
To some forlorn and naked hermitage,
Remote from all the pleasures of the world;
There stay until the twelve celestial signs
Have brought about the annual reckoning.
If this austere insociable life
Change not your offer made in heat of blood;
If frosts and fasts, hard lodging and thin weeds
Nip not the gaudy blossoms of your love,
But that it bear this trial and last love;
Then, at the expiration of the year,
Come challenge me, challenge me by these deserts,
And, by this virgin palm now kissing thine
I will be thine; and till that instant shut
My woeful self up in a mourning house,
Raining the tears of lamentation
For the remembrance of my father’s death.
If this thou do deny, let our hands part,
Neither entitled in the other’s heart.
FERDINAND
If this, or more than this, I would deny,
To flatter up these powers of mine with rest,
The sudden hand of death close up mine eye!
Hence ever then my heart is in thy breast.
DUMAIN
But what to me, my love? but what to me? A wife?
KATHARINE
A beard, fair health, and honesty;
With three-fold love I wish you all these three.
DUMAIN
O, shall I say, I thank you, gentle wife?
KATHARINE
Not so, my lord; a twelvemonth and a day
I’ll mark no words that smooth-faced wooers say:
Come when the king doth to my lady come;
Then, if I have much love, I’ll give you some.
DUMAIN
I’ll serve thee true and faithfully till then.
KATHARINE
Yet swear not, lest ye be forsworn again.
LONGAVILLE
What says Maria?
MARIA
At the twelvemonth’s end
I’ll change my black gown for a faithful friend.
LONGAVILLE
I’ll stay with patience; but the time is long.
MARIA
The liker you; few taller are so young.
BIRON
Studies my lady? mistress, look on me;
Behold the window of my heart, mine eye,
What humble suit attends thy answer there:
Impose some service on me for thy love.
ROSALINE
Oft have I heard of you, my Lord Biron,
Before I saw you; and the world’s large tongue
Proclaims you for a man replete with mocks,
Full of comparisons and wounding flouts,
Which you on all estates will execute
That lie within the mercy of your wit.
To weed this wormwood from your fruitful brain,
And therewithal to win me, if you please,
Without the which I am not to be won,
You shall this twelvemonth term from day to day
Visit the speechless sick and still converse
With groaning wretches; and your task shall be,
With all the fierce endeavor of your wit
To enforce the pained impotent to smile.
BIRON
To move wild laughter in the throat of death?
It cannot be; it is impossible:
Mirth cannot move a soul in agony.
ROSALINE
Why, that’s the way to choke a gibing spirit,
Whose influence is begot of that loose grace
Which shallow laughing hearers give to fools:
A jest’s prosperity lies in the ear
Of him that hears it, never in the tongue
Of him that makes it: then, if sickly ears,
Deaf’d with the clamours of their own dear groans,
Will hear your idle scorns, continue then,
And I will have you and that fault withal;
But if they will not, throw away that spirit,
And I shall find you empty of that fault,
Right joyful of your reformation.
BIRON
A twelvemonth! well; befall what will befall,
I’ll jest a twelvemonth in an hospital.
PRINCESS
[To FERDINAND] Ay, sweet my lord; and so I take my leave.
FERDINAND
No, madam; we will bring you on your way.
BIRON
Our wooing doth not end like an old play;
Jack hath not Jill: these ladies’ courtesy
Might well have made our sport a comedy.
FERDINAND
Come, sir, it wants a twelvemonth and a day,
And then ’twill end.
BIRON
That’s too long for a play.
Re-enter DON ADRIANO DE ARMADO

DON
ADRIANO DE ARMADO
Sweet majesty, vouchsafe me,–
PRINCESS
Was not that Hector?
DUMAIN
The worthy knight of Troy.
DON
ADRIANO DE ARMADO
I will kiss thy royal finger, and take leave. I am
a votary; I have vowed to Jaquenetta to hold the
plough for her sweet love three years. But, most
esteemed greatness, will you hear the dialogue that
the two learned men have compiled in praise of the
owl and the cuckoo? It should have followed in the
end of our show.
FERDINAND
Call them forth quickly; we will do so.
DON
ADRIANO DE ARMADO
Holla! approach.
Re-enter HOLOFERNES, SIR NATHANIEL, MOTH, COSTARD, and others

This side is Hiems, Winter, this Ver, the Spring;
the one maintained by the owl, the other by the
cuckoo. Ver, begin.
THE SONG

SPRING.
When daisies pied and violets blue
And lady-smocks all silver-white
And cuckoo-buds of yellow hue
Do paint the meadows with delight,
The cuckoo then, on every tree,
Mocks married men; for thus sings he, Cuckoo;
Cuckoo, cuckoo: O word of fear,
Unpleasing to a married ear!
When shepherds pipe on oaten straws
And merry larks are ploughmen’s clocks,
When turtles tread, and rooks, and daws,
And maidens bleach their summer smocks
The cuckoo then, on every tree,
Mocks married men; for thus sings he, Cuckoo;
Cuckoo, cuckoo: O word of fear,
Unpleasing to a married ear!
WINTER.
When icicles hang by the wall
And Dick the shepherd blows his nail
And Tom bears logs into the hall
And milk comes frozen home in pail,
When blood is nipp’d and ways be foul,
Then nightly sings the staring owl, Tu-whit;
Tu-who, a merry note,
While greasy Joan doth keel the pot.
When all aloud the wind doth blow
And coughing drowns the parson’s saw
And birds sit brooding in the snow
And Marian’s nose looks red and raw,
When roasted crabs hiss in the bowl,
Then nightly sings the staring owl, Tu-whit;
Tu-who, a merry note,
While greasy Joan doth keel the pot.
DON
ADRIANO DE ARMADO
The words of Mercury are harsh after the songs of
Apollo. You that way: we this way.
Exeunt

As You Like It
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ACT I
SCENE I. Orchard of Oliver’s house.
Enter ORLANDO and ADAM
ORLANDO
As I remember, Adam, it was upon this fashion
bequeathed me by will but poor a thousand crowns,
and, as thou sayest, charged my brother, on his
blessing, to breed me well: and there begins my
sadness. My brother Jaques he keeps at school, and
report speaks goldenly of his profit: for my part,
he keeps me rustically at home, or, to speak more
properly, stays me here at home unkept; for call you
that keeping for a gentleman of my birth, that
differs not from the stalling of an ox? His horses
are bred better; for, besides that they are fair
with their feeding, they are taught their manage,
and to that end riders dearly hired: but I, his
brother, gain nothing under him but growth; for the
which his animals on his dunghills are as much
bound to him as I. Besides this nothing that he so
plentifully gives me, the something that nature gave
me his countenance seems to take from me: he lets
me feed with his hinds, bars me the place of a
brother, and, as much as in him lies, mines my
gentility with my education. This is it, Adam, that
grieves me; and the spirit of my father, which I
think is within me, begins to mutiny against this
servitude: I will no longer endure it, though yet I
know no wise remedy how to avoid it.
ADAM
Yonder comes my master, your brother.
ORLANDO
Go apart, Adam, and thou shalt hear how he will
shake me up.
Enter OLIVER

OLIVER
Now, sir! what make you here?
ORLANDO
Nothing: I am not taught to make any thing.
OLIVER
What mar you then, sir?
ORLANDO
Marry, sir, I am helping you to mar that which God
made, a poor unworthy brother of yours, with idleness.
OLIVER
Marry, sir, be better employed, and be naught awhile.
ORLANDO
Shall I keep your hogs and eat husks with them?
What prodigal portion have I spent, that I should
come to such penury?
OLIVER
Know you where your are, sir?
ORLANDO
O, sir, very well; here in your orchard.
OLIVER
Know you before whom, sir?
ORLANDO
Ay, better than him I am before knows me. I know
you are my eldest brother; and, in the gentle
condition of blood, you should so know me. The
courtesy of nations allows you my better, in that
you are the first-born; but the same tradition
takes not away my blood, were there twenty brothers
betwixt us: I have as much of my father in me as
you; albeit, I confess, your coming before me is
nearer to his reverence.
OLIVER
What, boy!
ORLANDO
Come, come, elder brother, you are too young in this.
OLIVER
Wilt thou lay hands on me, villain?
ORLANDO
I am no villain; I am the youngest son of Sir
Rowland de Boys; he was my father, and he is thrice
a villain that says such a father begot villains.
Wert thou not my brother, I would not take this hand
from thy throat till this other had pulled out thy
tongue for saying so: thou hast railed on thyself.
ADAM
Sweet masters, be patient: for your father’s
remembrance, be at accord.
OLIVER
Let me go, I say.
ORLANDO
I will not, till I please: you shall hear me. My
father charged you in his will to give me good
education: you have trained me like a peasant,
obscuring and hiding from me all gentleman-like
qualities. The spirit of my father grows strong in
me, and I will no longer endure it: therefore allow
me such exercises as may become a gentleman, or
give me the poor allottery my father left me by
testament; with that I will go buy my fortunes.
OLIVER
And what wilt thou do? beg, when that is spent?
Well, sir, get you in: I will not long be troubled
with you; you shall have some part of your will: I
pray you, leave me.
ORLANDO
I will no further offend you than becomes me for my good.
OLIVER
Get you with him, you old dog.
ADAM
Is ‘old dog’ my reward? Most true, I have lost my
teeth in your service. God be with my old master!
he would not have spoke such a word.
Exeunt ORLANDO and ADAM

OLIVER
Is it even so? begin you to grow upon me? I will
physic your rankness, and yet give no thousand
crowns neither. Holla, Dennis!
Enter DENNIS

DENNIS
Calls your worship?
OLIVER
Was not Charles, the duke’s wrestler, here to speak with me?
DENNIS
So please you, he is here at the door and importunes
access to you.
OLIVER
Call him in.
Exit DENNIS

‘Twill be a good way; and to-morrow the wrestling is.
Enter CHARLES

CHARLES
Good morrow to your worship.
OLIVER
Good Monsieur Charles, what’s the new news at the
new court?
CHARLES
There’s no news at the court, sir, but the old news:
that is, the old duke is banished by his younger
brother the new duke; and three or four loving lords
have put themselves into voluntary exile with him,
whose lands and revenues enrich the new duke;
therefore he gives them good leave to wander.
OLIVER
Can you tell if Rosalind, the duke’s daughter, be
banished with her father?
CHARLES
O, no; for the duke’s daughter, her cousin, so loves
her, being ever from their cradles bred together,
that she would have followed her exile, or have died
to stay behind her. She is at the court, and no
less beloved of her uncle than his own daughter; and
never two ladies loved as they do.
OLIVER
Where will the old duke live?
CHARLES
They say he is already in the forest of Arden, and
a many merry men with him; and there they live like
the old Robin Hood of England: they say many young
gentlemen flock to him every day, and fleet the time
carelessly, as they did in the golden world.
OLIVER
What, you wrestle to-morrow before the new duke?
CHARLES
Marry, do I, sir; and I came to acquaint you with a
matter. I am given, sir, secretly to understand
that your younger brother Orlando hath a disposition
to come in disguised against me to try a fall.
To-morrow, sir, I wrestle for my credit; and he that
escapes me without some broken limb shall acquit him
well. Your brother is but young and tender; and,
for your love, I would be loath to foil him, as I
must, for my own honour, if he come in: therefore,
out of my love to you, I came hither to acquaint you
withal, that either you might stay him from his
intendment or brook such disgrace well as he shall
run into, in that it is a thing of his own search
and altogether against my will.
OLIVER
Charles, I thank thee for thy love to me, which
thou shalt find I will most kindly requite. I had
myself notice of my brother’s purpose herein and
have by underhand means laboured to dissuade him from
it, but he is resolute. I’ll tell thee, Charles:
it is the stubbornest young fellow of France, full
of ambition, an envious emulator of every man’s
good parts, a secret and villanous contriver against
me his natural brother: therefore use thy
discretion; I had as lief thou didst break his neck
as his finger. And thou wert best look to’t; for if
thou dost him any slight disgrace or if he do not
mightily grace himself on thee, he will practise
against thee by poison, entrap thee by some
treacherous device and never leave thee till he
hath ta’en thy life by some indirect means or other;
for, I assure thee, and almost with tears I speak
it, there is not one so young and so villanous this
day living. I speak but brotherly of him; but
should I anatomize him to thee as he is, I must
blush and weep and thou must look pale and wonder.
CHARLES
I am heartily glad I came hither to you. If he come
to-morrow, I’ll give him his payment: if ever he go
alone again, I’ll never wrestle for prize more: and
so God keep your worship!
OLIVER
Farewell, good Charles.
Exit CHARLES

Now will I stir this gamester: I hope I shall see
an end of him; for my soul, yet I know not why,
hates nothing more than he. Yet he’s gentle, never
schooled and yet learned, full of noble device, of
all sorts enchantingly beloved, and indeed so much
in the heart of the world, and especially of my own
people, who best know him, that I am altogether
misprised: but it shall not be so long; this
wrestler shall clear all: nothing remains but that
I kindle the boy thither; which now I’ll go about.
Exit

SCENE II. Lawn before the Duke’s palace.
Enter CELIA and ROSALIND
CELIA
I pray thee, Rosalind, sweet my coz, be merry.
ROSALIND
Dear Celia, I show more mirth than I am mistress of;
and would you yet I were merrier? Unless you could
teach me to forget a banished father, you must not
learn me how to remember any extraordinary pleasure.
CELIA
Herein I see thou lovest me not with the full weight
that I love thee. If my uncle, thy banished father,
had banished thy uncle, the duke my father, so thou
hadst been still with me, I could have taught my
love to take thy father for mine: so wouldst thou,
if the truth of thy love to me were so righteously
tempered as mine is to thee.
ROSALIND
Well, I will forget the condition of my estate, to
rejoice in yours.
CELIA
You know my father hath no child but I, nor none is
like to have: and, truly, when he dies, thou shalt
be his heir, for what he hath taken away from thy
father perforce, I will render thee again in
affection; by mine honour, I will; and when I break
that oath, let me turn monster: therefore, my
sweet Rose, my dear Rose, be merry.
ROSALIND
From henceforth I will, coz, and devise sports. Let
me see; what think you of falling in love?
CELIA
Marry, I prithee, do, to make sport withal: but
love no man in good earnest; nor no further in sport
neither than with safety of a pure blush thou mayst
in honour come off again.
ROSALIND
What shall be our sport, then?
CELIA
Let us sit and mock the good housewife Fortune from
her wheel, that her gifts may henceforth be bestowed equally.
ROSALIND
I would we could do so, for her benefits are
mightily misplaced, and the bountiful blind woman
doth most mistake in her gifts to women.
CELIA
‘Tis true; for those that she makes fair she scarce
makes honest, and those that she makes honest she
makes very ill-favouredly.
ROSALIND
Nay, now thou goest from Fortune’s office to
Nature’s: Fortune reigns in gifts of the world,
not in the lineaments of Nature.
Enter TOUCHSTONE

CELIA
No? when Nature hath made a fair creature, may she
not by Fortune fall into the fire? Though Nature
hath given us wit to flout at Fortune, hath not
Fortune sent in this fool to cut off the argument?
ROSALIND
Indeed, there is Fortune too hard for Nature, when
Fortune makes Nature’s natural the cutter-off of
Nature’s wit.
CELIA
Peradventure this is not Fortune’s work neither, but
Nature’s; who perceiveth our natural wits too dull
to reason of such goddesses and hath sent this
natural for our whetstone; for always the dulness of
the fool is the whetstone of the wits. How now,
wit! whither wander you?
TOUCHSTONE
Mistress, you must come away to your father.
CELIA
Were you made the messenger?
TOUCHSTONE
No, by mine honour, but I was bid to come for you.
ROSALIND
Where learned you that oath, fool?
TOUCHSTONE
Of a certain knight that swore by his honour they
were good pancakes and swore by his honour the
mustard was naught: now I’ll stand to it, the
pancakes were naught and the mustard was good, and
yet was not the knight forsworn.
CELIA
How prove you that, in the great heap of your
knowledge?
ROSALIND
Ay, marry, now unmuzzle your wisdom.
TOUCHSTONE
Stand you both forth now: stroke your chins, and
swear by your beards that I am a knave.
CELIA
By our beards, if we had them, thou art.
TOUCHSTONE
By my knavery, if I had it, then I were; but if you
swear by that that is not, you are not forsworn: no
more was this knight swearing by his honour, for he
never had any; or if he had, he had sworn it away
before ever he saw those pancakes or that mustard.
CELIA
Prithee, who is’t that thou meanest?
TOUCHSTONE
One that old Frederick, your father, loves.
CELIA
My father’s love is enough to honour him: enough!
speak no more of him; you’ll be whipped for taxation
one of these days.
TOUCHSTONE
The more pity, that fools may not speak wisely what
wise men do foolishly.
CELIA
By my troth, thou sayest true; for since the little
wit that fools have was silenced, the little foolery
that wise men have makes a great show. Here comes
Monsieur Le Beau.
ROSALIND
With his mouth full of news.
CELIA
Which he will put on us, as pigeons feed their young.
ROSALIND
Then shall we be news-crammed.
CELIA
All the better; we shall be the more marketable.
Enter LE BEAU

Bon jour, Monsieur Le Beau: what’s the news?
LE BEAU
Fair princess, you have lost much good sport.
CELIA
Sport! of what colour?
LE BEAU
What colour, madam! how shall I answer you?
ROSALIND
As wit and fortune will.
TOUCHSTONE
Or as the Destinies decree.
CELIA
Well said: that was laid on with a trowel.
TOUCHSTONE
Nay, if I keep not my rank,–
ROSALIND
Thou losest thy old smell.
LE BEAU
You amaze me, ladies: I would have told you of good
wrestling, which you have lost the sight of.
ROSALIND
You tell us the manner of the wrestling.
LE BEAU
I will tell you the beginning; and, if it please
your ladyships, you may see the end; for the best is
yet to do; and here, where you are, they are coming
to perform it.
CELIA
Well, the beginning, that is dead and buried.
LE BEAU
There comes an old man and his three sons,–
CELIA
I could match this beginning with an old tale.
LE BEAU
Three proper young men, of excellent growth and presence.
ROSALIND
With bills on their necks, ‘Be it known unto all men
by these presents.’
LE BEAU
The eldest of the three wrestled with Charles, the
duke’s wrestler; which Charles in a moment threw him
and broke three of his ribs, that there is little
hope of life in him: so he served the second, and
so the third. Yonder they lie; the poor old man,
their father, making such pitiful dole over them
that all the beholders take his part with weeping.
ROSALIND
Alas!
TOUCHSTONE
But what is the sport, monsieur, that the ladies
have lost?
LE BEAU
Why, this that I speak of.
TOUCHSTONE
Thus men may grow wiser every day: it is the first
time that ever I heard breaking of ribs was sport
for ladies.
CELIA
Or I, I promise thee.
ROSALIND
But is there any else longs to see this broken music
in his sides? is there yet another dotes upon
rib-breaking? Shall we see this wrestling, cousin?
LE BEAU
You must, if you stay here; for here is the place
appointed for the wrestling, and they are ready to
perform it.
CELIA
Yonder, sure, they are coming: let us now stay and see it.
Flourish. Enter DUKE FREDERICK, Lords, ORLANDO, CHARLES, and Attendants

DUKE FREDERICK
Come on: since the youth will not be entreated, his
own peril on his forwardness.
ROSALIND
Is yonder the man?
LE BEAU
Even he, madam.
CELIA
Alas, he is too young! yet he looks successfully.
DUKE FREDERICK
How now, daughter and cousin! are you crept hither
to see the wrestling?
ROSALIND
Ay, my liege, so please you give us leave.
DUKE FREDERICK
You will take little delight in it, I can tell you;
there is such odds in the man. In pity of the
challenger’s youth I would fain dissuade him, but he
will not be entreated. Speak to him, ladies; see if
you can move him.
CELIA
Call him hither, good Monsieur Le Beau.
DUKE FREDERICK
Do so: I’ll not be by.
LE BEAU
Monsieur the challenger, the princesses call for you.
ORLANDO
I attend them with all respect and duty.
ROSALIND
Young man, have you challenged Charles the wrestler?
ORLANDO
No, fair princess; he is the general challenger: I
come but in, as others do, to try with him the
strength of my youth.
CELIA
Young gentleman, your spirits are too bold for your
years. You have seen cruel proof of this man’s
strength: if you saw yourself with your eyes or
knew yourself with your judgment, the fear of your
adventure would counsel you to a more equal
enterprise. We pray you, for your own sake, to
embrace your own safety and give over this attempt.
ROSALIND
Do, young sir; your reputation shall not therefore
be misprised: we will make it our suit to the duke
that the wrestling might not go forward.
ORLANDO
I beseech you, punish me not with your hard
thoughts; wherein I confess me much guilty, to deny
so fair and excellent ladies any thing. But let
your fair eyes and gentle wishes go with me to my
trial: wherein if I be foiled, there is but one
shamed that was never gracious; if killed, but one
dead that was willing to be so: I shall do my
friends no wrong, for I have none to lament me, the
world no injury, for in it I have nothing; only in
the world I fill up a place, which may be better
supplied when I have made it empty.
ROSALIND
The little strength that I have, I would it were with you.
CELIA
And mine, to eke out hers.
ROSALIND
Fare you well: pray heaven I be deceived in you!
CELIA
Your heart’s desires be with you!
CHARLES
Come, where is this young gallant that is so
desirous to lie with his mother earth?
ORLANDO
Ready, sir; but his will hath in it a more modest working.
DUKE FREDERICK
You shall try but one fall.
CHARLES
No, I warrant your grace, you shall not entreat him
to a second, that have so mightily persuaded him
from a first.
ORLANDO
An you mean to mock me after, you should not have
mocked me before: but come your ways.
ROSALIND
Now Hercules be thy speed, young man!
CELIA
I would I were invisible, to catch the strong
fellow by the leg.
They wrestle

ROSALIND
O excellent young man!
CELIA
If I had a thunderbolt in mine eye, I can tell who
should down.
Shout. CHARLES is thrown

DUKE FREDERICK
No more, no more.
ORLANDO
Yes, I beseech your grace: I am not yet well breathed.
DUKE FREDERICK
How dost thou, Charles?
LE BEAU
He cannot speak, my lord.
DUKE FREDERICK
Bear him away. What is thy name, young man?
ORLANDO
Orlando, my liege; the youngest son of Sir Rowland de Boys.
DUKE FREDERICK
I would thou hadst been son to some man else:
The world esteem’d thy father honourable,
But I did find him still mine enemy:
Thou shouldst have better pleased me with this deed,
Hadst thou descended from another house.
But fare thee well; thou art a gallant youth:
I would thou hadst told me of another father.
Exeunt DUKE FREDERICK, train, and LE BEAU

CELIA
Were I my father, coz, would I do this?
ORLANDO
I am more proud to be Sir Rowland’s son,
His youngest son; and would not change that calling,
To be adopted heir to Frederick.
ROSALIND
My father loved Sir Rowland as his soul,
And all the world was of my father’s mind:
Had I before known this young man his son,
I should have given him tears unto entreaties,
Ere he should thus have ventured.
CELIA
Gentle cousin,
Let us go thank him and encourage him:
My father’s rough and envious disposition
Sticks me at heart. Sir, you have well deserved:
If you do keep your promises in love
But justly, as you have exceeded all promise,
Your mistress shall be happy.
ROSALIND
Gentleman,
Giving him a chain from her neck

Wear this for me, one out of suits with fortune,
That could give more, but that her hand lacks means.
Shall we go, coz?
CELIA
Ay. Fare you well, fair gentleman.
ORLANDO
Can I not say, I thank you? My better parts
Are all thrown down, and that which here stands up
Is but a quintain, a mere lifeless block.
ROSALIND
He calls us back: my pride fell with my fortunes;
I’ll ask him what he would. Did you call, sir?
Sir, you have wrestled well and overthrown
More than your enemies.
CELIA
Will you go, coz?
ROSALIND
Have with you. Fare you well.
Exeunt ROSALIND and CELIA

ORLANDO
What passion hangs these weights upon my tongue?
I cannot speak to her, yet she urged conference.
O poor Orlando, thou art overthrown!
Or Charles or something weaker masters thee.
Re-enter LE BEAU

LE BEAU
Good sir, I do in friendship counsel you
To leave this place. Albeit you have deserved
High commendation, true applause and love,
Yet such is now the duke’s condition
That he misconstrues all that you have done.
The duke is humorous; what he is indeed,
More suits you to conceive than I to speak of.
ORLANDO
I thank you, sir: and, pray you, tell me this:
Which of the two was daughter of the duke
That here was at the wrestling?
LE BEAU
Neither his daughter, if we judge by manners;
But yet indeed the lesser is his daughter
The other is daughter to the banish’d duke,
And here detain’d by her usurping uncle,
To keep his daughter company; whose loves
Are dearer than the natural bond of sisters.
But I can tell you that of late this duke
Hath ta’en displeasure ‘gainst his gentle niece,
Grounded upon no other argument
But that the people praise her for her virtues
And pity her for her good father’s sake;
And, on my life, his malice ‘gainst the lady
Will suddenly break forth. Sir, fare you well:
Hereafter, in a better world than this,
I shall desire more love and knowledge of you.
ORLANDO
I rest much bounden to you: fare you well.
Exit LE BEAU

Thus must I from the smoke into the smother;
From tyrant duke unto a tyrant brother:
But heavenly Rosalind!
Exit

SCENE III. A room in the palace.
Enter CELIA and ROSALIND
CELIA
Why, cousin! why, Rosalind! Cupid have mercy! not a word?
ROSALIND
Not one to throw at a dog.
CELIA
No, thy words are too precious to be cast away upon
curs; throw some of them at me; come, lame me with reasons.
ROSALIND
Then there were two cousins laid up; when the one
should be lamed with reasons and the other mad
without any.
CELIA
But is all this for your father?
ROSALIND
No, some of it is for my child’s father. O, how
full of briers is this working-day world!
CELIA
They are but burs, cousin, thrown upon thee in
holiday foolery: if we walk not in the trodden
paths our very petticoats will catch them.
ROSALIND
I could shake them off my coat: these burs are in my heart.
CELIA
Hem them away.
ROSALIND
I would try, if I could cry ‘hem’ and have him.
CELIA
Come, come, wrestle with thy affections.
ROSALIND
O, they take the part of a better wrestler than myself!
CELIA
O, a good wish upon you! you will try in time, in
despite of a fall. But, turning these jests out of
service, let us talk in good earnest: is it
possible, on such a sudden, you should fall into so
strong a liking with old Sir Rowland’s youngest son?
ROSALIND
The duke my father loved his father dearly.
CELIA
Doth it therefore ensue that you should love his son
dearly? By this kind of chase, I should hate him,
for my father hated his father dearly; yet I hate
not Orlando.
ROSALIND
No, faith, hate him not, for my sake.
CELIA
Why should I not? doth he not deserve well?
ROSALIND
Let me love him for that, and do you love him
because I do. Look, here comes the duke.
CELIA
With his eyes full of anger.
Enter DUKE FREDERICK, with Lords

DUKE FREDERICK
Mistress, dispatch you with your safest haste
And get you from our court.
ROSALIND
Me, uncle?
DUKE FREDERICK
You, cousin
Within these ten days if that thou be’st found
So near our public court as twenty miles,
Thou diest for it.
ROSALIND
I do beseech your grace,
Let me the knowledge of my fault bear with me:
If with myself I hold intelligence
Or have acquaintance with mine own desires,
If that I do not dream or be not frantic,–
As I do trust I am not–then, dear uncle,
Never so much as in a thought unborn
Did I offend your highness.
DUKE FREDERICK
Thus do all traitors:
If their purgation did consist in words,
They are as innocent as grace itself:
Let it suffice thee that I trust thee not.
ROSALIND
Yet your mistrust cannot make me a traitor:
Tell me whereon the likelihood depends.
DUKE FREDERICK
Thou art thy father’s daughter; there’s enough.
ROSALIND
So was I when your highness took his dukedom;
So was I when your highness banish’d him:
Treason is not inherited, my lord;
Or, if we did derive it from our friends,
What’s that to me? my father was no traitor:
Then, good my liege, mistake me not so much
To think my poverty is treacherous.
CELIA
Dear sovereign, hear me speak.
DUKE FREDERICK
Ay, Celia; we stay’d her for your sake,
Else had she with her father ranged along.
CELIA
I did not then entreat to have her stay;
It was your pleasure and your own remorse:
I was too young that time to value her;
But now I know her: if she be a traitor,
Why so am I; we still have slept together,
Rose at an instant, learn’d, play’d, eat together,
And wheresoever we went, like Juno’s swans,
Still we went coupled and inseparable.
DUKE FREDERICK
She is too subtle for thee; and her smoothness,
Her very silence and her patience
Speak to the people, and they pity her.
Thou art a fool: she robs thee of thy name;
And thou wilt show more bright and seem more virtuous
When she is gone. Then open not thy lips:
Firm and irrevocable is my doom
Which I have pass’d upon her; she is banish’d.
CELIA
Pronounce that sentence then on me, my liege:
I cannot live out of her company.
DUKE FREDERICK
You are a fool. You, niece, provide yourself:
If you outstay the time, upon mine honour,
And in the greatness of my word, you die.
Exeunt DUKE FREDERICK and Lords

CELIA
O my poor Rosalind, whither wilt thou go?
Wilt thou change fathers? I will give thee mine.
I charge thee, be not thou more grieved than I am.
ROSALIND
I have more cause.
CELIA
Thou hast not, cousin;
Prithee be cheerful: know’st thou not, the duke
Hath banish’d me, his daughter?
ROSALIND
That he hath not.
CELIA
No, hath not? Rosalind lacks then the love
Which teacheth thee that thou and I am one:
Shall we be sunder’d? shall we part, sweet girl?
No: let my father seek another heir.
Therefore devise with me how we may fly,
Whither to go and what to bear with us;
And do not seek to take your change upon you,
To bear your griefs yourself and leave me out;
For, by this heaven, now at our sorrows pale,
Say what thou canst, I’ll go along with thee.
ROSALIND
Why, whither shall we go?
CELIA
To seek my uncle in the forest of Arden.
ROSALIND
Alas, what danger will it be to us,
Maids as we are, to travel forth so far!
Beauty provoketh thieves sooner than gold.
CELIA
I’ll put myself in poor and mean attire
And with a kind of umber smirch my face;
The like do you: so shall we pass along
And never stir assailants.
ROSALIND
Were it not better,
Because that I am more than common tall,
That I did suit me all points like a man?
A gallant curtle-axe upon my thigh,
A boar-spear in my hand; and–in my heart
Lie there what hidden woman’s fear there will–
We’ll have a swashing and a martial outside,
As many other mannish cowards have
That do outface it with their semblances.
CELIA
What shall I call thee when thou art a man?
ROSALIND
I’ll have no worse a name than Jove’s own page;
And therefore look you call me Ganymede.
But what will you be call’d?
CELIA
Something that hath a reference to my state
No longer Celia, but Aliena.
ROSALIND
But, cousin, what if we assay’d to steal
The clownish fool out of your father’s court?
Would he not be a comfort to our travel?
CELIA
He’ll go along o’er the wide world with me;
Leave me alone to woo him. Let’s away,
And get our jewels and our wealth together,
Devise the fittest time and safest way
To hide us from pursuit that will be made
After my flight. Now go we in content
To liberty and not to banishment.
Exeunt

ACT II
SCENE I. The Forest of Arden.
Enter DUKE SENIOR, AMIENS, and two or three Lords, like foresters
DUKE SENIOR
Now, my co-mates and brothers in exile,
Hath not old custom made this life more sweet
Than that of painted pomp? Are not these woods
More free from peril than the envious court?
Here feel we but the penalty of Adam,
The seasons’ difference, as the icy fang
And churlish chiding of the winter’s wind,
Which, when it bites and blows upon my body,
Even till I shrink with cold, I smile and say
‘This is no flattery: these are counsellors
That feelingly persuade me what I am.’
Sweet are the uses of adversity,
Which, like the toad, ugly and venomous,
Wears yet a precious jewel in his head;
And this our life exempt from public haunt
Finds tongues in trees, books in the running brooks,
Sermons in stones and good in every thing.
I would not change it.
AMIENS
Happy is your grace,
That can translate the stubbornness of fortune
Into so quiet and so sweet a style.
DUKE SENIOR
Come, shall we go and kill us venison?
And yet it irks me the poor dappled fools,
Being native burghers of this desert city,
Should in their own confines with forked heads
Have their round haunches gored.
First Lord
Indeed, my lord,
The melancholy Jaques grieves at that,
And, in that kind, swears you do more usurp
Than doth your brother that hath banish’d you.
To-day my Lord of Amiens and myself
Did steal behind him as he lay along
Under an oak whose antique root peeps out
Upon the brook that brawls along this wood:
To the which place a poor sequester’d stag,
That from the hunter’s aim had ta’en a hurt,
Did come to languish, and indeed, my lord,
The wretched animal heaved forth such groans
That their discharge did stretch his leathern coat
Almost to bursting, and the big round tears
Coursed one another down his innocent nose
In piteous chase; and thus the hairy fool
Much marked of the melancholy Jaques,
Stood on the extremest verge of the swift brook,
Augmenting it with tears.
DUKE SENIOR
But what said Jaques?
Did he not moralize this spectacle?
First Lord
O, yes, into a thousand similes.
First, for his weeping into the needless stream;
‘Poor deer,’ quoth he, ‘thou makest a testament
As worldlings do, giving thy sum of more
To that which had too much:’ then, being there alone,
Left and abandon’d of his velvet friends,
”Tis right:’ quoth he; ‘thus misery doth part
The flux of company:’ anon a careless herd,
Full of the pasture, jumps along by him
And never stays to greet him; ‘Ay’ quoth Jaques,
‘Sweep on, you fat and greasy citizens;
‘Tis just the fashion: wherefore do you look
Upon that poor and broken bankrupt there?’
Thus most invectively he pierceth through
The body of the country, city, court,
Yea, and of this our life, swearing that we
Are mere usurpers, tyrants and what’s worse,
To fright the animals and to kill them up
In their assign’d and native dwelling-place.
DUKE SENIOR
And did you leave him in this contemplation?
Second Lord
We did, my lord, weeping and commenting
Upon the sobbing deer.
DUKE SENIOR
Show me the place:
I love to cope him in these sullen fits,
For then he’s full of matter.
First Lord
I’ll bring you to him straight.
Exeunt

SCENE II. A room in the palace.
Enter DUKE FREDERICK, with Lords
DUKE FREDERICK
Can it be possible that no man saw them?
It cannot be: some villains of my court
Are of consent and sufferance in this.
First Lord
I cannot hear of any that did see her.
The ladies, her attendants of her chamber,
Saw her abed, and in the morning early
They found the bed untreasured of their mistress.
Second Lord
My lord, the roynish clown, at whom so oft
Your grace was wont to laugh, is also missing.
Hisperia, the princess’ gentlewoman,
Confesses that she secretly o’erheard
Your daughter and her cousin much commend
The parts and graces of the wrestler
That did but lately foil the sinewy Charles;
And she believes, wherever they are gone,
That youth is surely in their company.
DUKE FREDERICK
Send to his brother; fetch that gallant hither;
If he be absent, bring his brother to me;
I’ll make him find him: do this suddenly,
And let not search and inquisition quail
To bring again these foolish runaways.
Exeunt

SCENE III. Before OLIVER’S house.
Enter ORLANDO and ADAM, meeting
ORLANDO
Who’s there?
ADAM
What, my young master? O, my gentle master!
O my sweet master! O you memory
Of old Sir Rowland! why, what make you here?
Why are you virtuous? why do people love you?
And wherefore are you gentle, strong and valiant?
Why would you be so fond to overcome
The bonny priser of the humorous duke?
Your praise is come too swiftly home before you.
Know you not, master, to some kind of men
Their graces serve them but as enemies?
No more do yours: your virtues, gentle master,
Are sanctified and holy traitors to you.
O, what a world is this, when what is comely
Envenoms him that bears it!
ORLANDO
Why, what’s the matter?
ADAM
O unhappy youth!
Come not within these doors; within this roof
The enemy of all your graces lives:
Your brother–no, no brother; yet the son–
Yet not the son, I will not call him son
Of him I was about to call his father–
Hath heard your praises, and this night he means
To burn the lodging where you use to lie
And you within it: if he fail of that,
He will have other means to cut you off.
I overheard him and his practises.
This is no place; this house is but a butchery:
Abhor it, fear it, do not enter it.
ORLANDO
Why, whither, Adam, wouldst thou have me go?
ADAM
No matter whither, so you come not here.
ORLANDO
What, wouldst thou have me go and beg my food?
Or with a base and boisterous sword enforce
A thievish living on the common road?
This I must do, or know not what to do:
Yet this I will not do, do how I can;
I rather will subject me to the malice
Of a diverted blood and bloody brother.
ADAM
But do not so. I have five hundred crowns,
The thrifty hire I saved under your father,
Which I did store to be my foster-nurse
When service should in my old limbs lie lame
And unregarded age in corners thrown:
Take that, and He that doth the ravens feed,
Yea, providently caters for the sparrow,
Be comfort to my age! Here is the gold;
And all this I give you. Let me be your servant:
Though I look old, yet I am strong and lusty;
For in my youth I never did apply
Hot and rebellious liquors in my blood,
Nor did not with unbashful forehead woo
The means of weakness and debility;
Therefore my age is as a lusty winter,
Frosty, but kindly: let me go with you;
I’ll do the service of a younger man
In all your business and necessities.
ORLANDO
O good old man, how well in thee appears
The constant service of the antique world,
When service sweat for duty, not for meed!
Thou art not for the fashion of these times,
Where none will sweat but for promotion,
And having that, do choke their service up
Even with the having: it is not so with thee.
But, poor old man, thou prunest a rotten tree,
That cannot so much as a blossom yield
In lieu of all thy pains and husbandry
But come thy ways; well go along together,
And ere we have thy youthful wages spent,
We’ll light upon some settled low content.
ADAM
Master, go on, and I will follow thee,
To the last gasp, with truth and loyalty.
From seventeen years till now almost fourscore
Here lived I, but now live here no more.
At seventeen years many their fortunes seek;
But at fourscore it is too late a week:
Yet fortune cannot recompense me better
Than to die well and not my master’s debtor.
Exeunt

SCENE IV. The Forest of Arden.
Enter ROSALIND for Ganymede, CELIA for Aliena, and TOUCHSTONE
ROSALIND
O Jupiter, how weary are my spirits!
TOUCHSTONE
I care not for my spirits, if my legs were not weary.
ROSALIND
I could find in my heart to disgrace my man’s
apparel and to cry like a woman; but I must comfort
the weaker vessel, as doublet and hose ought to show
itself courageous to petticoat: therefore courage,
good Aliena!
CELIA
I pray you, bear with me; I cannot go no further.
TOUCHSTONE
For my part, I had rather bear with you than bear
you; yet I should bear no cross if I did bear you,
for I think you have no money in your purse.
ROSALIND
Well, this is the forest of Arden.
TOUCHSTONE
Ay, now am I in Arden; the more fool I; when I was
at home, I was in a better place: but travellers
must be content.
ROSALIND
Ay, be so, good Touchstone.
Enter CORIN and SILVIUS

Look you, who comes here; a young man and an old in
solemn talk.
CORIN
That is the way to make her scorn you still.
SILVIUS
O Corin, that thou knew’st how I do love her!
CORIN
I partly guess; for I have loved ere now.
SILVIUS
No, Corin, being old, thou canst not guess,
Though in thy youth thou wast as true a lover
As ever sigh’d upon a midnight pillow:
But if thy love were ever like to mine–
As sure I think did never man love so–
How many actions most ridiculous
Hast thou been drawn to by thy fantasy?
CORIN
Into a thousand that I have forgotten.
SILVIUS
O, thou didst then ne’er love so heartily!
If thou remember’st not the slightest folly
That ever love did make thee run into,
Thou hast not loved:
Or if thou hast not sat as I do now,
Wearying thy hearer in thy mistress’ praise,
Thou hast not loved:
Or if thou hast not broke from company
Abruptly, as my passion now makes me,
Thou hast not loved.
O Phebe, Phebe, Phebe!
Exit

ROSALIND
Alas, poor shepherd! searching of thy wound,
I have by hard adventure found mine own.
TOUCHSTONE
And I mine. I remember, when I was in love I broke
my sword upon a stone and bid him take that for
coming a-night to Jane Smile; and I remember the
kissing of her batlet and the cow’s dugs that her
pretty chopt hands had milked; and I remember the
wooing of a peascod instead of her, from whom I took
two cods and, giving her them again, said with
weeping tears ‘Wear these for my sake.’ We that are
true lovers run into strange capers; but as all is
mortal in nature, so is all nature in love mortal in folly.
ROSALIND
Thou speakest wiser than thou art ware of.
TOUCHSTONE
Nay, I shall ne’er be ware of mine own wit till I
break my shins against it.
ROSALIND
Jove, Jove! this shepherd’s passion
Is much upon my fashion.
TOUCHSTONE
And mine; but it grows something stale with me.
CELIA
I pray you, one of you question yond man
If he for gold will give us any food:
I faint almost to death.
TOUCHSTONE
Holla, you clown!
ROSALIND
Peace, fool: he’s not thy kinsman.
CORIN
Who calls?
TOUCHSTONE
Your betters, sir.
CORIN
Else are they very wretched.
ROSALIND
Peace, I say. Good even to you, friend.
CORIN
And to you, gentle sir, and to you all.
ROSALIND
I prithee, shepherd, if that love or gold
Can in this desert place buy entertainment,
Bring us where we may rest ourselves and feed:
Here’s a young maid with travel much oppress’d
And faints for succor.
CORIN
Fair sir, I pity her
And wish, for her sake more than for mine own,
My fortunes were more able to relieve her;
But I am shepherd to another man
And do not shear the fleeces that I graze:
My master is of churlish disposition
And little recks to find the way to heaven
By doing deeds of hospitality:
Besides, his cote, his flocks and bounds of feed
Are now on sale, and at our sheepcote now,
By reason of his absence, there is nothing
That you will feed on; but what is, come see.
And in my voice most welcome shall you be.
ROSALIND
What is he that shall buy his flock and pasture?
CORIN
That young swain that you saw here but erewhile,
That little cares for buying any thing.
ROSALIND
I pray thee, if it stand with honesty,
Buy thou the cottage, pasture and the flock,
And thou shalt have to pay for it of us.
CELIA
And we will mend thy wages. I like this place.
And willingly could waste my time in it.
CORIN
Assuredly the thing is to be sold:
Go with me: if you like upon report
The soil, the profit and this kind of life,
I will your very faithful feeder be
And buy it with your gold right suddenly.
Exeunt

SCENE V. The Forest.
Enter AMIENS, JAQUES, and others
SONG.
AMIENS
Under the greenwood tree
Who loves to lie with me,
And turn his merry note
Unto the sweet bird’s throat,
Come hither, come hither, come hither:
Here shall he see No enemy
But winter and rough weather.
JAQUES
More, more, I prithee, more.
AMIENS
It will make you melancholy, Monsieur Jaques.
JAQUES
I thank it. More, I prithee, more. I can suck
melancholy out of a song, as a weasel sucks eggs.
More, I prithee, more.
AMIENS
My voice is ragged: I know I cannot please you.
JAQUES
I do not desire you to please me; I do desire you to
sing. Come, more; another stanzo: call you ’em stanzos?
AMIENS
What you will, Monsieur Jaques.
JAQUES
Nay, I care not for their names; they owe me
nothing. Will you sing?
AMIENS
More at your request than to please myself.
JAQUES
Well then, if ever I thank any man, I’ll thank you;
but that they call compliment is like the encounter
of two dog-apes, and when a man thanks me heartily,
methinks I have given him a penny and he renders me
the beggarly thanks. Come, sing; and you that will
not, hold your tongues.
AMIENS
Well, I’ll end the song. Sirs, cover the while; the
duke will drink under this tree. He hath been all
this day to look you.
JAQUES
And I have been all this day to avoid him. He is
too disputable for my company: I think of as many
matters as he, but I give heaven thanks and make no
boast of them. Come, warble, come.
SONG.
Who doth ambition shun
All together here

And loves to live i’ the sun,
Seeking the food he eats
And pleased with what he gets,
Come hither, come hither, come hither:
Here shall he see No enemy
But winter and rough weather.
JAQUES
I’ll give you a verse to this note that I made
yesterday in despite of my invention.
AMIENS
And I’ll sing it.
JAQUES
Thus it goes:–
If it do come to pass
That any man turn ass,
Leaving his wealth and ease,
A stubborn will to please,
Ducdame, ducdame, ducdame:
Here shall he see
Gross fools as he,
An if he will come to me.
AMIENS
What’s that ‘ducdame’?
JAQUES
‘Tis a Greek invocation, to call fools into a
circle. I’ll go sleep, if I can; if I cannot, I’ll
rail against all the first-born of Egypt.
AMIENS
And I’ll go seek the duke: his banquet is prepared.
Exeunt severally

SCENE VI. The forest.
Enter ORLANDO and ADAM
ADAM
Dear master, I can go no further. O, I die for food!
Here lie I down, and measure out my grave. Farewell,
kind master.
ORLANDO
Why, how now, Adam! no greater heart in thee? Live
a little; comfort a little; cheer thyself a little.
If this uncouth forest yield any thing savage, I
will either be food for it or bring it for food to
thee. Thy conceit is nearer death than thy powers.
For my sake be comfortable; hold death awhile at
the arm’s end: I will here be with thee presently;
and if I bring thee not something to eat, I will
give thee leave to die: but if thou diest before I
come, thou art a mocker of my labour. Well said!
thou lookest cheerly, and I’ll be with thee quickly.
Yet thou liest in the bleak air: come, I will bear
thee to some shelter; and thou shalt not die for
lack of a dinner, if there live any thing in this
desert. Cheerly, good Adam!
Exeunt

SCENE VII. The forest.
A table set out. Enter DUKE SENIOR, AMIENS, and Lords like outlaws
DUKE SENIOR
I think he be transform’d into a beast;
For I can no where find him like a man.
First Lord
My lord, he is but even now gone hence:
Here was he merry, hearing of a song.
DUKE SENIOR
If he, compact of jars, grow musical,
We shall have shortly discord in the spheres.
Go, seek him: tell him I would speak with him.
Enter JAQUES

First Lord
He saves my labour by his own approach.
DUKE SENIOR
Why, how now, monsieur! what a life is this,
That your poor friends must woo your company?
What, you look merrily!
JAQUES
A fool, a fool! I met a fool i’ the forest,
A motley fool; a miserable world!
As I do live by food, I met a fool
Who laid him down and bask’d him in the sun,
And rail’d on Lady Fortune in good terms,
In good set terms and yet a motley fool.
‘Good morrow, fool,’ quoth I. ‘No, sir,’ quoth he,
‘Call me not fool till heaven hath sent me fortune:’
And then he drew a dial from his poke,
And, looking on it with lack-lustre eye,
Says very wisely, ‘It is ten o’clock:
Thus we may see,’ quoth he, ‘how the world wags:
‘Tis but an hour ago since it was nine,
And after one hour more ’twill be eleven;
And so, from hour to hour, we ripe and ripe,
And then, from hour to hour, we rot and rot;
And thereby hangs a tale.’ When I did hear
The motley fool thus moral on the time,
My lungs began to crow like chanticleer,
That fools should be so deep-contemplative,
And I did laugh sans intermission
An hour by his dial. O noble fool!
A worthy fool! Motley’s the only wear.
DUKE SENIOR
What fool is this?
JAQUES
O worthy fool! One that hath been a courtier,
And says, if ladies be but young and fair,
They have the gift to know it: and in his brain,
Which is as dry as the remainder biscuit
After a voyage, he hath strange places cramm’d
With observation, the which he vents
In mangled forms. O that I were a fool!
I am ambitious for a motley coat.
DUKE SENIOR
Thou shalt have one.
JAQUES
It is my only suit;
Provided that you weed your better judgments
Of all opinion that grows rank in them
That I am wise. I must have liberty
Withal, as large a charter as the wind,
To blow on whom I please; for so fools have;
And they that are most galled with my folly,
They most must laugh. And why, sir, must they so?
The ‘why’ is plain as way to parish church:
He that a fool doth very wisely hit
Doth very foolishly, although he smart,
Not to seem senseless of the bob: if not,
The wise man’s folly is anatomized
Even by the squandering glances of the fool.
Invest me in my motley; give me leave
To speak my mind, and I will through and through
Cleanse the foul body of the infected world,
If they will patiently receive my medicine.
DUKE SENIOR
Fie on thee! I can tell what thou wouldst do.
JAQUES
What, for a counter, would I do but good?
DUKE SENIOR
Most mischievous foul sin, in chiding sin:
For thou thyself hast been a libertine,
As sensual as the brutish sting itself;
And all the embossed sores and headed evils,
That thou with licence of free foot hast caught,
Wouldst thou disgorge into the general world.
JAQUES
Why, who cries out on pride,
That can therein tax any private party?
Doth it not flow as hugely as the sea,
Till that the weary very means do ebb?
What woman in the city do I name,
When that I say the city-woman bears
The cost of princes on unworthy shoulders?
Who can come in and say that I mean her,
When such a one as she such is her neighbour?
Or what is he of basest function
That says his bravery is not of my cost,
Thinking that I mean him, but therein suits
His folly to the mettle of my speech?
There then; how then? what then? Let me see wherein
My tongue hath wrong’d him: if it do him right,
Then he hath wrong’d himself; if he be free,
Why then my taxing like a wild-goose flies,
Unclaim’d of any man. But who comes here?
Enter ORLANDO, with his sword drawn

ORLANDO
Forbear, and eat no more.
JAQUES
Why, I have eat none yet.
ORLANDO
Nor shalt not, till necessity be served.
JAQUES
Of what kind should this cock come of?
DUKE SENIOR
Art thou thus bolden’d, man, by thy distress,
Or else a rude despiser of good manners,
That in civility thou seem’st so empty?
ORLANDO
You touch’d my vein at first: the thorny point
Of bare distress hath ta’en from me the show
Of smooth civility: yet am I inland bred
And know some nurture. But forbear, I say:
He dies that touches any of this fruit
Till I and my affairs are answered.
JAQUES
An you will not be answered with reason, I must die.
DUKE SENIOR
What would you have? Your gentleness shall force
More than your force move us to gentleness.
ORLANDO
I almost die for food; and let me have it.
DUKE SENIOR
Sit down and feed, and welcome to our table.
ORLANDO
Speak you so gently? Pardon me, I pray you:
I thought that all things had been savage here;
And therefore put I on the countenance
Of stern commandment. But whate’er you are
That in this desert inaccessible,
Under the shade of melancholy boughs,
Lose and neglect the creeping hours of time
If ever you have look’d on better days,
If ever been where bells have knoll’d to church,
If ever sat at any good man’s feast,
If ever from your eyelids wiped a tear
And know what ’tis to pity and be pitied,
Let gentleness my strong enforcement be:
In the which hope I blush, and hide my sword.
DUKE SENIOR
True is it that we have seen better days,
And have with holy bell been knoll’d to church
And sat at good men’s feasts and wiped our eyes
Of drops that sacred pity hath engender’d:
And therefore sit you down in gentleness
And take upon command what help we have
That to your wanting may be minister’d.
ORLANDO
Then but forbear your food a little while,
Whiles, like a doe, I go to find my fawn
And give it food. There is an old poor man,
Who after me hath many a weary step
Limp’d in pure love: till he be first sufficed,
Oppress’d with two weak evils, age and hunger,
I will not touch a bit.
DUKE SENIOR
Go find him out,
And we will nothing waste till you return.
ORLANDO
I thank ye; and be blest for your good comfort!
Exit

DUKE SENIOR
Thou seest we are not all alone unhappy:
This wide and universal theatre
Presents more woeful pageants than the scene
Wherein we play in.
JAQUES
All the world’s a stage,
And all the men and women merely players:
They have their exits and their entrances;
And one man in his time plays many parts,
His acts being seven ages. At first the infant,
Mewling and puking in the nurse’s arms.
And then the whining school-boy, with his satchel
And shining morning face, creeping like snail
Unwillingly to school. And then the lover,
Sighing like furnace, with a woeful ballad
Made to his mistress’ eyebrow. Then a soldier,
Full of strange oaths and bearded like the pard,
Jealous in honour, sudden and quick in quarrel,
Seeking the bubble reputation
Even in the cannon’s mouth. And then the justice,
In fair round belly with good capon lined,
With eyes severe and beard of formal cut,
Full of wise saws and modern instances;
And so he plays his part. The sixth age shifts
Into the lean and slipper’d pantaloon,
With spectacles on nose and pouch on side,
His youthful hose, well saved, a world too wide
For his shrunk shank; and his big manly voice,
Turning again toward childish treble, pipes
And whistles in his sound. Last scene of all,
That ends this strange eventful history,
Is second childishness and mere oblivion,
Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything.
Re-enter ORLANDO, with ADAM

DUKE SENIOR
Welcome. Set down your venerable burthen,
And let him feed.
ORLANDO
I thank you most for him.
ADAM
So had you need:
I scarce can speak to thank you for myself.
DUKE SENIOR
Welcome; fall to: I will not trouble you
As yet, to question you about your fortunes.
Give us some music; and, good cousin, sing.
SONG.
AMIENS
Blow, blow, thou winter wind.
Thou art not so unkind
As man’s ingratitude;
Thy tooth is not so keen,
Because thou art not seen,
Although thy breath be rude.
Heigh-ho! sing, heigh-ho! unto the green holly:
Most friendship is feigning, most loving mere folly:
Then, heigh-ho, the holly!
This life is most jolly.
Freeze, freeze, thou bitter sky,
That dost not bite so nigh
As benefits forgot:
Though thou the waters warp,
Thy sting is not so sharp
As friend remember’d not.
Heigh-ho! sing, & c.
DUKE SENIOR
If that you were the good Sir Rowland’s son,
As you have whisper’d faithfully you were,
And as mine eye doth his effigies witness
Most truly limn’d and living in your face,
Be truly welcome hither: I am the duke
That loved your father: the residue of your fortune,
Go to my cave and tell me. Good old man,
Thou art right welcome as thy master is.
Support him by the arm. Give me your hand,
And let me all your fortunes understand.
Exeunt

ACT III
SCENE I. A room in the palace.
Enter DUKE FREDERICK, Lords, and OLIVER
DUKE FREDERICK
Not see him since? Sir, sir, that cannot be:
But were I not the better part made mercy,
I should not seek an absent argument
Of my revenge, thou present. But look to it:
Find out thy brother, wheresoe’er he is;
Seek him with candle; bring him dead or living
Within this twelvemonth, or turn thou no more
To seek a living in our territory.
Thy lands and all things that thou dost call thine
Worth seizure do we seize into our hands,
Till thou canst quit thee by thy brothers mouth
Of what we think against thee.
OLIVER
O that your highness knew my heart in this!
I never loved my brother in my life.
DUKE FREDERICK
More villain thou. Well, push him out of doors;
And let my officers of such a nature
Make an extent upon his house and lands:
Do this expediently and turn him going.
Exeunt

SCENE II. The forest.
Enter ORLANDO, with a paper
ORLANDO
Hang there, my verse, in witness of my love:
And thou, thrice-crowned queen of night, survey
With thy chaste eye, from thy pale sphere above,
Thy huntress’ name that my full life doth sway.
O Rosalind! these trees shall be my books
And in their barks my thoughts I’ll character;
That every eye which in this forest looks
Shall see thy virtue witness’d every where.
Run, run, Orlando; carve on every tree
The fair, the chaste and unexpressive she.
Exit

Enter CORIN and TOUCHSTONE

CORIN
And how like you this shepherd’s life, Master Touchstone?
TOUCHSTONE
Truly, shepherd, in respect of itself, it is a good
life, but in respect that it is a shepherd’s life,
it is naught. In respect that it is solitary, I
like it very well; but in respect that it is
private, it is a very vile life. Now, in respect it
is in the fields, it pleaseth me well; but in
respect it is not in the court, it is tedious. As
is it a spare life, look you, it fits my humour well;
but as there is no more plenty in it, it goes much
against my stomach. Hast any philosophy in thee, shepherd?
CORIN
No more but that I know the more one sickens the
worse at ease he is; and that he that wants money,
means and content is without three good friends;
that the property of rain is to wet and fire to
burn; that good pasture makes fat sheep, and that a
great cause of the night is lack of the sun; that
he that hath learned no wit by nature nor art may
complain of good breeding or comes of a very dull kindred.
TOUCHSTONE
Such a one is a natural philosopher. Wast ever in
court, shepherd?
CORIN
No, truly.
TOUCHSTONE
Then thou art damned.
CORIN
Nay, I hope.
TOUCHSTONE
Truly, thou art damned like an ill-roasted egg, all
on one side.
CORIN
For not being at court? Your reason.
TOUCHSTONE
Why, if thou never wast at court, thou never sawest
good manners; if thou never sawest good manners,
then thy manners must be wicked; and wickedness is
sin, and sin is damnation. Thou art in a parlous
state, shepherd.
CORIN
Not a whit, Touchstone: those that are good manners
at the court are as ridiculous in the country as the
behavior of the country is most mockable at the
court. You told me you salute not at the court, but
you kiss your hands: that courtesy would be
uncleanly, if courtiers were shepherds.
TOUCHSTONE
Instance, briefly; come, instance.
CORIN
Why, we are still handling our ewes, and their
fells, you know, are greasy.
TOUCHSTONE
Why, do not your courtier’s hands sweat? and is not
the grease of a mutton as wholesome as the sweat of
a man? Shallow, shallow. A better instance, I say; come.
CORIN
Besides, our hands are hard.
TOUCHSTONE
Your lips will feel them the sooner. Shallow again.
A more sounder instance, come.
CORIN
And they are often tarred over with the surgery of
our sheep: and would you have us kiss tar? The
courtier’s hands are perfumed with civet.
TOUCHSTONE
Most shallow man! thou worms-meat, in respect of a
good piece of flesh indeed! Learn of the wise, and
perpend: civet is of a baser birth than tar, the
very uncleanly flux of a cat. Mend the instance, shepherd.
CORIN
You have too courtly a wit for me: I’ll rest.
TOUCHSTONE
Wilt thou rest damned? God help thee, shallow man!
God make incision in thee! thou art raw.
CORIN
Sir, I am a true labourer: I earn that I eat, get
that I wear, owe no man hate, envy no man’s
happiness, glad of other men’s good, content with my
harm, and the greatest of my pride is to see my ewes
graze and my lambs suck.
TOUCHSTONE
That is another simple sin in you, to bring the ewes
and the rams together and to offer to get your
living by the copulation of cattle; to be bawd to a
bell-wether, and to betray a she-lamb of a
twelvemonth to a crooked-pated, old, cuckoldly ram,
out of all reasonable match. If thou beest not
damned for this, the devil himself will have no
shepherds; I cannot see else how thou shouldst
‘scape.
CORIN
Here comes young Master Ganymede, my new mistress’s brother.
Enter ROSALIND, with a paper, reading

ROSALIND
From the east to western Ind,
No jewel is like Rosalind.
Her worth, being mounted on the wind,
Through all the world bears Rosalind.
All the pictures fairest lined
Are but black to Rosalind.
Let no fair be kept in mind
But the fair of Rosalind.
TOUCHSTONE
I’ll rhyme you so eight years together, dinners and
suppers and sleeping-hours excepted: it is the
right butter-women’s rank to market.
ROSALIND
Out, fool!
TOUCHSTONE
For a taste:
If a hart do lack a hind,
Let him seek out Rosalind.
If the cat will after kind,
So be sure will Rosalind.
Winter garments must be lined,
So must slender Rosalind.
They that reap must sheaf and bind;
Then to cart with Rosalind.
Sweetest nut hath sourest rind,
Such a nut is Rosalind.
He that sweetest rose will find
Must find love’s prick and Rosalind.
This is the very false gallop of verses: why do you
infect yourself with them?
ROSALIND
Peace, you dull fool! I found them on a tree.
TOUCHSTONE
Truly, the tree yields bad fruit.
ROSALIND
I’ll graff it with you, and then I shall graff it
with a medlar: then it will be the earliest fruit
i’ the country; for you’ll be rotten ere you be half
ripe, and that’s the right virtue of the medlar.
TOUCHSTONE
You have said; but whether wisely or no, let the
forest judge.
Enter CELIA, with a writing

ROSALIND
Peace! Here comes my sister, reading: stand aside.
CELIA
[Reads]
Why should this a desert be?
For it is unpeopled? No:
Tongues I’ll hang on every tree,
That shall civil sayings show:
Some, how brief the life of man
Runs his erring pilgrimage,
That the stretching of a span
Buckles in his sum of age;
Some, of violated vows
‘Twixt the souls of friend and friend:
But upon the fairest boughs,
Or at every sentence end,
Will I Rosalinda write,
Teaching all that read to know
The quintessence of every sprite
Heaven would in little show.
Therefore Heaven Nature charged
That one body should be fill’d
With all graces wide-enlarged:
Nature presently distill’d
Helen’s cheek, but not her heart,
Cleopatra’s majesty,
Atalanta’s better part,
Sad Lucretia’s modesty.
Thus Rosalind of many parts
By heavenly synod was devised,
Of many faces, eyes and hearts,
To have the touches dearest prized.
Heaven would that she these gifts should have,
And I to live and die her slave.
ROSALIND
O most gentle pulpiter! what tedious homily of love
have you wearied your parishioners withal, and never
cried ‘Have patience, good people!’
CELIA
How now! back, friends! Shepherd, go off a little.
Go with him, sirrah.
TOUCHSTONE
Come, shepherd, let us make an honourable retreat;
though not with bag and baggage, yet with scrip and scrippage.
Exeunt CORIN and TOUCHSTONE

CELIA
Didst thou hear these verses?
ROSALIND
O, yes, I heard them all, and more too; for some of
them had in them more feet than the verses would bear.
CELIA
That’s no matter: the feet might bear the verses.
ROSALIND
Ay, but the feet were lame and could not bear
themselves without the verse and therefore stood
lamely in the verse.
CELIA
But didst thou hear without wondering how thy name
should be hanged and carved upon these trees?
ROSALIND
I was seven of the nine days out of the wonder
before you came; for look here what I found on a
palm-tree. I was never so be-rhymed since
Pythagoras’ time, that I was an Irish rat, which I
can hardly remember.
CELIA
Trow you who hath done this?
ROSALIND
Is it a man?
CELIA
And a chain, that you once wore, about his neck.
Change you colour?
ROSALIND
I prithee, who?
CELIA
O Lord, Lord! it is a hard matter for friends to
meet; but mountains may be removed with earthquakes
and so encounter.
ROSALIND
Nay, but who is it?
CELIA
Is it possible?
ROSALIND
Nay, I prithee now with most petitionary vehemence,
tell me who it is.
CELIA
O wonderful, wonderful, and most wonderful
wonderful! and yet again wonderful, and after that,
out of all hooping!
ROSALIND
Good my complexion! dost thou think, though I am
caparisoned like a man, I have a doublet and hose in
my disposition? One inch of delay more is a
South-sea of discovery; I prithee, tell me who is it
quickly, and speak apace. I would thou couldst
stammer, that thou mightst pour this concealed man
out of thy mouth, as wine comes out of a narrow-
mouthed bottle, either too much at once, or none at
all. I prithee, take the cork out of thy mouth that
may drink thy tidings.
CELIA
So you may put a man in your belly.
ROSALIND
Is he of God’s making? What manner of man? Is his
head worth a hat, or his chin worth a beard?
CELIA
Nay, he hath but a little beard.
ROSALIND
Why, God will send more, if the man will be
thankful: let me stay the growth of his beard, if
thou delay me not the knowledge of his chin.
CELIA
It is young Orlando, that tripped up the wrestler’s
heels and your heart both in an instant.
ROSALIND
Nay, but the devil take mocking: speak, sad brow and
true maid.
CELIA
I’ faith, coz, ’tis he.
ROSALIND
Orlando?
CELIA
Orlando.
ROSALIND
Alas the day! what shall I do with my doublet and
hose? What did he when thou sawest him? What said
he? How looked he? Wherein went he? What makes
him here? Did he ask for me? Where remains he?
How parted he with thee? and when shalt thou see
him again? Answer me in one word.
CELIA
You must borrow me Gargantua’s mouth first: ’tis a
word too great for any mouth of this age’s size. To
say ay and no to these particulars is more than to
answer in a catechism.
ROSALIND
But doth he know that I am in this forest and in
man’s apparel? Looks he as freshly as he did the
day he wrestled?
CELIA
It is as easy to count atomies as to resolve the
propositions of a lover; but take a taste of my
finding him, and relish it with good observance.
I found him under a tree, like a dropped acorn.
ROSALIND
It may well be called Jove’s tree, when it drops
forth such fruit.
CELIA
Give me audience, good madam.
ROSALIND
Proceed.
CELIA
There lay he, stretched along, like a wounded knight.
ROSALIND
Though it be pity to see such a sight, it well
becomes the ground.
CELIA
Cry ‘holla’ to thy tongue, I prithee; it curvets
unseasonably. He was furnished like a hunter.
ROSALIND
O, ominous! he comes to kill my heart.
CELIA
I would sing my song without a burden: thou bringest
me out of tune.
ROSALIND
Do you not know I am a woman? when I think, I must
speak. Sweet, say on.
CELIA
You bring me out. Soft! comes he not here?
Enter ORLANDO and JAQUES

ROSALIND
‘Tis he: slink by, and note him.
JAQUES
I thank you for your company; but, good faith, I had
as lief have been myself alone.
ORLANDO
And so had I; but yet, for fashion sake, I thank you
too for your society.
JAQUES
God be wi’ you: let’s meet as little as we can.
ORLANDO
I do desire we may be better strangers.
JAQUES
I pray you, mar no more trees with writing
love-songs in their barks.
ORLANDO
I pray you, mar no more of my verses with reading
them ill-favouredly.
JAQUES
Rosalind is your love’s name?
ORLANDO
Yes, just.
JAQUES
I do not like her name.
ORLANDO
There was no thought of pleasing you when she was
christened.
JAQUES
What stature is she of?
ORLANDO
Just as high as my heart.
JAQUES
You are full of pretty answers. Have you not been
acquainted with goldsmiths’ wives, and conned them
out of rings?
ORLANDO
Not so; but I answer you right painted cloth, from
whence you have studied your questions.
JAQUES
You have a nimble wit: I think ’twas made of
Atalanta’s heels. Will you sit down with me? and
we two will rail against our mistress the world and
all our misery.
ORLANDO
I will chide no breather in the world but myself,
against whom I know most faults.
JAQUES
The worst fault you have is to be in love.
ORLANDO
‘Tis a fault I will not change for your best virtue.
I am weary of you.
JAQUES
By my troth, I was seeking for a fool when I found
you.
ORLANDO
He is drowned in the brook: look but in, and you
shall see him.
JAQUES
There I shall see mine own figure.
ORLANDO
Which I take to be either a fool or a cipher.
JAQUES
I’ll tarry no longer with you: farewell, good
Signior Love.
ORLANDO
I am glad of your departure: adieu, good Monsieur
Melancholy.
Exit JAQUES

ROSALIND
[Aside to CELIA] I will speak to him, like a saucy
lackey and under that habit play the knave with him.
Do you hear, forester?
ORLANDO
Very well: what would you?
ROSALIND
I pray you, what is’t o’clock?
ORLANDO
You should ask me what time o’ day: there’s no clock
in the forest.
ROSALIND
Then there is no true lover in the forest; else
sighing every minute and groaning every hour would
detect the lazy foot of Time as well as a clock.
ORLANDO
And why not the swift foot of Time? had not that
been as proper?
ROSALIND
By no means, sir: Time travels in divers paces with
divers persons. I’ll tell you who Time ambles
withal, who Time trots withal, who Time gallops
withal and who he stands still withal.
ORLANDO
I prithee, who doth he trot withal?
ROSALIND
Marry, he trots hard with a young maid between the
contract of her marriage and the day it is
solemnized: if the interim be but a se’nnight,
Time’s pace is so hard that it seems the length of
seven year.
ORLANDO
Who ambles Time withal?
ROSALIND
With a priest that lacks Latin and a rich man that
hath not the gout, for the one sleeps easily because
he cannot study, and the other lives merrily because
he feels no pain, the one lacking the burden of lean
and wasteful learning, the other knowing no burden
of heavy tedious penury; these Time ambles withal.
ORLANDO
Who doth he gallop withal?
ROSALIND
With a thief to the gallows, for though he go as
softly as foot can fall, he thinks himself too soon there.
ORLANDO
Who stays it still withal?
ROSALIND
With lawyers in the vacation, for they sleep between
term and term and then they perceive not how Time moves.
ORLANDO
Where dwell you, pretty youth?
ROSALIND
With this shepherdess, my sister; here in the
skirts of the forest, like fringe upon a petticoat.
ORLANDO
Are you native of this place?
ROSALIND
As the cony that you see dwell where she is kindled.
ORLANDO
Your accent is something finer than you could
purchase in so removed a dwelling.
ROSALIND
I have been told so of many: but indeed an old
religious uncle of mine taught me to speak, who was
in his youth an inland man; one that knew courtship
too well, for there he fell in love. I have heard
him read many lectures against it, and I thank God
I am not a woman, to be touched with so many
giddy offences as he hath generally taxed their
whole sex withal.
ORLANDO
Can you remember any of the principal evils that he
laid to the charge of women?
ROSALIND
There were none principal; they were all like one
another as half-pence are, every one fault seeming
monstrous till his fellow fault came to match it.
ORLANDO
I prithee, recount some of them.
ROSALIND
No, I will not cast away my physic but on those that
are sick. There is a man haunts the forest, that
abuses our young plants with carving ‘Rosalind’ on
their barks; hangs odes upon hawthorns and elegies
on brambles, all, forsooth, deifying the name of
Rosalind: if I could meet that fancy-monger I would
give him some good counsel, for he seems to have the
quotidian of love upon him.
ORLANDO
I am he that is so love-shaked: I pray you tell me
your remedy.
ROSALIND
There is none of my uncle’s marks upon you: he
taught me how to know a man in love; in which cage
of rushes I am sure you are not prisoner.
ORLANDO
What were his marks?
ROSALIND
A lean cheek, which you have not, a blue eye and
sunken, which you have not, an unquestionable
spirit, which you have not, a beard neglected,
which you have not; but I pardon you for that, for
simply your having in beard is a younger brother’s
revenue: then your hose should be ungartered, your
bonnet unbanded, your sleeve unbuttoned, your shoe
untied and every thing about you demonstrating a
careless desolation; but you are no such man; you
are rather point-device in your accoutrements as
loving yourself than seeming the lover of any other.
ORLANDO
Fair youth, I would I could make thee believe I love.
ROSALIND
Me believe it! you may as soon make her that you
love believe it; which, I warrant, she is apter to
do than to confess she does: that is one of the
points in the which women still give the lie to
their consciences. But, in good sooth, are you he
that hangs the verses on the trees, wherein Rosalind
is so admired?
ORLANDO
I swear to thee, youth, by the white hand of
Rosalind, I am that he, that unfortunate he.
ROSALIND
But are you so much in love as your rhymes speak?
ORLANDO
Neither rhyme nor reason can express how much.
ROSALIND
Love is merely a madness, and, I tell you, deserves
as well a dark house and a whip as madmen do: and
the reason why they are not so punished and cured
is, that the lunacy is so ordinary that the whippers
are in love too. Yet I profess curing it by counsel.
ORLANDO
Did you ever cure any so?
ROSALIND
Yes, one, and in this manner. He was to imagine me
his love, his mistress; and I set him every day to
woo me: at which time would I, being but a moonish
youth, grieve, be effeminate, changeable, longing
and liking, proud, fantastical, apish, shallow,
inconstant, full of tears, full of smiles, for every
passion something and for no passion truly any
thing, as boys and women are for the most part
cattle of this colour; would now like him, now loathe
him; then entertain him, then forswear him; now weep
for him, then spit at him; that I drave my suitor
from his mad humour of love to a living humour of
madness; which was, to forswear the full stream of
the world, and to live in a nook merely monastic.
And thus I cured him; and this way will I take upon
me to wash your liver as clean as a sound sheep’s
heart, that there shall not be one spot of love in’t.
ORLANDO
I would not be cured, youth.
ROSALIND
I would cure you, if you would but call me Rosalind
and come every day to my cote and woo me.
ORLANDO
Now, by the faith of my love, I will: tell me
where it is.
ROSALIND
Go with me to it and I’ll show it you and by the way
you shall tell me where in the forest you live.
Will you go?
ORLANDO
With all my heart, good youth.
ROSALIND
Nay you must call me Rosalind. Come, sister, will you go?
Exeunt

SCENE III. The forest.
Enter TOUCHSTONE and AUDREY; JAQUES behind
TOUCHSTONE
Come apace, good Audrey: I will fetch up your
goats, Audrey. And how, Audrey? am I the man yet?
doth my simple feature content you?
AUDREY
Your features! Lord warrant us! what features!
TOUCHSTONE
I am here with thee and thy goats, as the most
capricious poet, honest Ovid, was among the Goths.
JAQUES
[Aside] O knowledge ill-inhabited, worse than Jove
in a thatched house!
TOUCHSTONE
When a man’s verses cannot be understood, nor a
man’s good wit seconded with the forward child
Understanding, it strikes a man more dead than a
great reckoning in a little room. Truly, I would
the gods had made thee poetical.
AUDREY
I do not know what ‘poetical’ is: is it honest in
deed and word? is it a true thing?
TOUCHSTONE
No, truly; for the truest poetry is the most
feigning; and lovers are given to poetry, and what
they swear in poetry may be said as lovers they do feign.
AUDREY
Do you wish then that the gods had made me poetical?
TOUCHSTONE
I do, truly; for thou swearest to me thou art
honest: now, if thou wert a poet, I might have some
hope thou didst feign.
AUDREY
Would you not have me honest?
TOUCHSTONE
No, truly, unless thou wert hard-favoured; for
honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.
JAQUES
[Aside] A material fool!
AUDREY
Well, I am not fair; and therefore I pray the gods
make me honest.
TOUCHSTONE
Truly, and to cast away honesty upon a foul slut
were to put good meat into an unclean dish.
AUDREY
I am not a slut, though I thank the gods I am foul.
TOUCHSTONE
Well, praised be the gods for thy foulness!
sluttishness may come hereafter. But be it as it may
be, I will marry thee, and to that end I have been
with Sir Oliver Martext, the vicar of the next
village, who hath promised to meet me in this place
of the forest and to couple us.
JAQUES
[Aside] I would fain see this meeting.
AUDREY
Well, the gods give us joy!
TOUCHSTONE
Amen. A man may, if he were of a fearful heart,
stagger in this attempt; for here we have no temple
but the wood, no assembly but horn-beasts. But what
though? C ourage! As horns are odious, they are
necessary. It is said, ‘many a man knows no end of
his goods:’ right; many a man has good horns, and
knows no end of them. Well, that is the dowry of
his wife; ’tis none of his own getting. Horns?
Even so. Poor men alone? No, no; the noblest deer
hath them as huge as the rascal. Is the single man
therefore blessed? No: as a walled town is more
worthier than a village, so is the forehead of a
married man more honourable than the bare brow of a
bachelor; and by how much defence is better than no
skill, by so much is a horn more precious than to
want. Here comes Sir Oliver.
Enter SIR OLIVER MARTEXT

Sir Oliver Martext, you are well met: will you
dispatch us here under this tree, or shall we go
with you to your chapel?
SIR OLIVER MARTEXT
Is there none here to give the woman?
TOUCHSTONE
I will not take her on gift of any man.
SIR OLIVER MARTEXT
Truly, she must be given, or the marriage is not lawful.
JAQUES
[Advancing]
Proceed, proceed I’ll give her.
TOUCHSTONE
Good even, good Master What-ye-call’t: how do you,
sir? You are very well met: God ‘ild you for your
last company: I am very glad to see you: even a
toy in hand here, sir: nay, pray be covered.
JAQUES
Will you be married, motley?
TOUCHSTONE
As the ox hath his bow, sir, the horse his curb and
the falcon her bells, so man hath his desires; and
as pigeons bill, so wedlock would be nibbling.
JAQUES
And will you, being a man of your breeding, be
married under a bush like a beggar? Get you to
church, and have a good priest that can tell you
what marriage is: this fellow will but join you
together as they join wainscot; then one of you will
prove a shrunk panel and, like green timber, warp, warp.
TOUCHSTONE
[Aside] I am not in the mind but I were better to be
married of him than of another: for he is not like
to marry me well; and not being well married, it
will be a good excuse for me hereafter to leave my wife.
JAQUES
Go thou with me, and let me counsel thee.
TOUCHSTONE
‘Come, sweet Audrey:
We must be married, or we must live in bawdry.
Farewell, good Master Oliver: not,–
O sweet Oliver,
O brave Oliver,
Leave me not behind thee: but,–
Wind away,
Begone, I say,
I will not to wedding with thee.
Exeunt JAQUES, TOUCHSTONE and AUDREY

SIR OLIVER MARTEXT
‘Tis no matter: ne’er a fantastical knave of them
all shall flout me out of my calling.
Exit

SCENE IV. The forest.
Enter ROSALIND and CELIA
ROSALIND
Never talk to me; I will weep.
CELIA
Do, I prithee; but yet have the grace to consider
that tears do not become a man.
ROSALIND
But have I not cause to weep?
CELIA
As good cause as one would desire; therefore weep.
ROSALIND
His very hair is of the dissembling colour.
CELIA
Something browner than Judas’s marry, his kisses are
Judas’s own children.
ROSALIND
I’ faith, his hair is of a good colour.
CELIA
An excellent colour: your chestnut was ever the only colour.
ROSALIND
And his kissing is as full of sanctity as the touch
of holy bread.
CELIA
He hath bought a pair of cast lips of Diana: a nun
of winter’s sisterhood kisses not more religiously;
the very ice of chastity is in them.
ROSALIND
But why did he swear he would come this morning, and
comes not?
CELIA
Nay, certainly, there is no truth in him.
ROSALIND
Do you think so?
CELIA
Yes; I think he is not a pick-purse nor a
horse-stealer, but for his verity in love, I do
think him as concave as a covered goblet or a
worm-eaten nut.
ROSALIND
Not true in love?
CELIA
Yes, when he is in; but I think he is not in.
ROSALIND
You have heard him swear downright he was.
CELIA
‘Was’ is not ‘is:’ besides, the oath of a lover is
no stronger than the word of a tapster; they are
both the confirmer of false reckonings. He attends
here in the forest on the duke your father.
ROSALIND
I met the duke yesterday and had much question with
him: he asked me of what parentage I was; I told
him, of as good as he; so he laughed and let me go.
But what talk we of fathers, when there is such a
man as Orlando?
CELIA
O, that’s a brave man! he writes brave verses,
speaks brave words, swears brave oaths and breaks
them bravely, quite traverse, athwart the heart of
his lover; as a puisny tilter, that spurs his horse
but on one side, breaks his staff like a noble
goose: but all’s brave that youth mounts and folly
guides. Who comes here?
Enter CORIN

CORIN
Mistress and master, you have oft inquired
After the shepherd that complain’d of love,
Who you saw sitting by me on the turf,
Praising the proud disdainful shepherdess
That was his mistress.
CELIA
Well, and what of him?
CORIN
If you will see a pageant truly play’d,
Between the pale complexion of true love
And the red glow of scorn and proud disdain,
Go hence a little and I shall conduct you,
If you will mark it.
ROSALIND
O, come, let us remove:
The sight of lovers feedeth those in love.
Bring us to this sight, and you shall say
I’ll prove a busy actor in their play.
Exeunt

SCENE V. Another part of the forest.
Enter SILVIUS and PHEBE
SILVIUS
Sweet Phebe, do not scorn me; do not, Phebe;
Say that you love me not, but say not so
In bitterness. The common executioner,
Whose heart the accustom’d sight of death makes hard,
Falls not the axe upon the humbled neck
But first begs pardon: will you sterner be
Than he that dies and lives by bloody drops?
Enter ROSALIND, CELIA, and CORIN, behind

PHEBE
I would not be thy executioner:
I fly thee, for I would not injure thee.
Thou tell’st me there is murder in mine eye:
‘Tis pretty, sure, and very probable,
That eyes, that are the frail’st and softest things,
Who shut their coward gates on atomies,
Should be call’d tyrants, butchers, murderers!
Now I do frown on thee with all my heart;
And if mine eyes can wound, now let them kill thee:
Now counterfeit to swoon; why now fall down;
Or if thou canst not, O, for shame, for shame,
Lie not, to say mine eyes are murderers!
Now show the wound mine eye hath made in thee:
Scratch thee but with a pin, and there remains
Some scar of it; lean but upon a rush,
The cicatrice and capable impressure
Thy palm some moment keeps; but now mine eyes,
Which I have darted at thee, hurt thee not,
Nor, I am sure, there is no force in eyes
That can do hurt.
SILVIUS
O dear Phebe,
If ever,–as that ever may be near,–
You meet in some fresh cheek the power of fancy,
Then shall you know the wounds invisible
That love’s keen arrows make.
PHEBE
But till that time
Come not thou near me: and when that time comes,
Afflict me with thy mocks, pity me not;
As till that time I shall not pity thee.
ROSALIND
And why, I pray you? Who might be your mother,
That you insult, exult, and all at once,
Over the wretched? What though you have no beauty,–
As, by my faith, I see no more in you
Than without candle may go dark to bed–
Must you be therefore proud and pitiless?
Why, what means this? Why do you look on me?
I see no more in you than in the ordinary
Of nature’s sale-work. ‘Od’s my little life,
I think she means to tangle my eyes too!
No, faith, proud mistress, hope not after it:
‘Tis not your inky brows, your black silk hair,
Your bugle eyeballs, nor your cheek of cream,
That can entame my spirits to your worship.
You foolish shepherd, wherefore do you follow her,
Like foggy south puffing with wind and rain?
You are a thousand times a properer man
Than she a woman: ’tis such fools as you
That makes the world full of ill-favour’d children:
‘Tis not her glass, but you, that flatters her;
And out of you she sees herself more proper
Than any of her lineaments can show her.
But, mistress, know yourself: down on your knees,
And thank heaven, fasting, for a good man’s love:
For I must tell you friendly in your ear,
Sell when you can: you are not for all markets:
Cry the man mercy; love him; take his offer:
Foul is most foul, being foul to be a scoffer.
So take her to thee, shepherd: fare you well.
PHEBE
Sweet youth, I pray you, chide a year together:
I had rather hear you chide than this man woo.
ROSALIND
He’s fallen in love with your foulness and she’ll
fall in love with my anger. If it be so, as fast as
she answers thee with frowning looks, I’ll sauce her
with bitter words. Why look you so upon me?
PHEBE
For no ill will I bear you.
ROSALIND
I pray you, do not fall in love with me,
For I am falser than vows made in wine:
Besides, I like you not. If you will know my house,
‘Tis at the tuft of olives here hard by.
Will you go, sister? Shepherd, ply her hard.
Come, sister. Shepherdess, look on him better,
And be not proud: though all the world could see,
None could be so abused in sight as he.
Come, to our flock.
Exeunt ROSALIND, CELIA and CORIN

PHEBE
Dead Shepherd, now I find thy saw of might,
‘Who ever loved that loved not at first sight?’
SILVIUS
Sweet Phebe,–
PHEBE
Ha, what say’st thou, Silvius?
SILVIUS
Sweet Phebe, pity me.
PHEBE
Why, I am sorry for thee, gentle Silvius.
SILVIUS
Wherever sorrow is, relief would be:
If you do sorrow at my grief in love,
By giving love your sorrow and my grief
Were both extermined.
PHEBE
Thou hast my love: is not that neighbourly?
SILVIUS
I would have you.
PHEBE
Why, that were covetousness.
Silvius, the time was that I hated thee,
And yet it is not that I bear thee love;
But since that thou canst talk of love so well,
Thy company, which erst was irksome to me,
I will endure, and I’ll employ thee too:
But do not look for further recompense
Than thine own gladness that thou art employ’d.
SILVIUS
So holy and so perfect is my love,
And I in such a poverty of grace,
That I shall think it a most plenteous crop
To glean the broken ears after the man
That the main harvest reaps: loose now and then
A scatter’d smile, and that I’ll live upon.
PHEBE
Know’st now the youth that spoke to me erewhile?
SILVIUS
Not very well, but I have met him oft;
And he hath bought the cottage and the bounds
That the old carlot once was master of.
PHEBE
Think not I love him, though I ask for him:
‘Tis but a peevish boy; yet he talks well;
But what care I for words? yet words do well
When he that speaks them pleases those that hear.
It is a pretty youth: not very pretty:
But, sure, he’s proud, and yet his pride becomes him:
He’ll make a proper man: the best thing in him
Is his complexion; and faster than his tongue
Did make offence his eye did heal it up.
He is not very tall; yet for his years he’s tall:
His leg is but so so; and yet ’tis well:
There was a pretty redness in his lip,
A little riper and more lusty red
Than that mix’d in his cheek; ’twas just the difference
Between the constant red and mingled damask.
There be some women, Silvius, had they mark’d him
In parcels as I did, would have gone near
To fall in love with him; but, for my part,
I love him not nor hate him not; and yet
I have more cause to hate him than to love him:
For what had he to do to chide at me?
He said mine eyes were black and my hair black:
And, now I am remember’d, scorn’d at me:
I marvel why I answer’d not again:
But that’s all one; omittance is no quittance.
I’ll write to him a very taunting letter,
And thou shalt bear it: wilt thou, Silvius?
SILVIUS
Phebe, with all my heart.
PHEBE
I’ll write it straight;
The matter’s in my head and in my heart:
I will be bitter with him and passing short.
Go with me, Silvius.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. The forest.
Enter ROSALIND, CELIA, and JAQUES
JAQUES
I prithee, pretty youth, let me be better acquainted
with thee.
ROSALIND
They say you are a melancholy fellow.
JAQUES
I am so; I do love it better than laughing.
ROSALIND
Those that are in extremity of either are abominable
fellows and betray themselves to every modern
censure worse than drunkards.
JAQUES
Why, ’tis good to be sad and say nothing.
ROSALIND
Why then, ’tis good to be a post.
JAQUES
I have neither the scholar’s melancholy, which is
emulation, nor the musician’s, which is fantastical,
nor the courtier’s, which is proud, nor the
soldier’s, which is ambitious, nor the lawyer’s,
which is politic, nor the lady’s, which is nice, nor
the lover’s, which is all these: but it is a
melancholy of mine own, compounded of many simples,
extracted from many objects, and indeed the sundry’s
contemplation of my travels, in which my often
rumination wraps me m a most humorous sadness.
ROSALIND
A traveller! By my faith, you have great reason to
be sad: I fear you have sold your own lands to see
other men’s; then, to have seen much and to have
nothing, is to have rich eyes and poor hands.
JAQUES
Yes, I have gained my experience.
ROSALIND
And your experience makes you sad: I had rather have
a fool to make me merry than experience to make me
sad; and to travel for it too!
Enter ORLANDO

ORLANDO
Good day and happiness, dear Rosalind!
JAQUES
Nay, then, God be wi’ you, an you talk in blank verse.
Exit

ROSALIND
Farewell, Monsieur Traveller: look you lisp and
wear strange suits, disable all the benefits of your
own country, be out of love with your nativity and
almost chide God for making you that countenance you
are, or I will scarce think you have swam in a
gondola. Why, how now, Orlando! where have you been
all this while? You a lover! An you serve me such
another trick, never come in my sight more.
ORLANDO
My fair Rosalind, I come within an hour of my promise.
ROSALIND
Break an hour’s promise in love! He that will
divide a minute into a thousand parts and break but
a part of the thousandth part of a minute in the
affairs of love, it may be said of him that Cupid
hath clapped him o’ the shoulder, but I’ll warrant
him heart-whole.
ORLANDO
Pardon me, dear Rosalind.
ROSALIND
Nay, an you be so tardy, come no more in my sight: I
had as lief be wooed of a snail.
ORLANDO
Of a snail?
ROSALIND
Ay, of a snail; for though he comes slowly, he
carries his house on his head; a better jointure,
I think, than you make a woman: besides he brings
his destiny with him.
ORLANDO
What’s that?
ROSALIND
Why, horns, which such as you are fain to be
beholding to your wives for: but he comes armed in
his fortune and prevents the slander of his wife.
ORLANDO
Virtue is no horn-maker; and my Rosalind is virtuous.
ROSALIND
And I am your Rosalind.
CELIA
It pleases him to call you so; but he hath a
Rosalind of a better leer than you.
ROSALIND
Come, woo me, woo me, for now I am in a holiday
humour and like enough to consent. What would you
say to me now, an I were your very very Rosalind?
ORLANDO
I would kiss before I spoke.
ROSALIND
Nay, you were better speak first, and when you were
gravelled for lack of matter, you might take
occasion to kiss. Very good orators, when they are
out, they will spit; and for lovers lacking–God
warn us!–matter, the cleanliest shift is to kiss.
ORLANDO
How if the kiss be denied?
ROSALIND
Then she puts you to entreaty, and there begins new matter.
ORLANDO
Who could be out, being before his beloved mistress?
ROSALIND
Marry, that should you, if I were your mistress, or
I should think my honesty ranker than my wit.
ORLANDO
What, of my suit?
ROSALIND
Not out of your apparel, and yet out of your suit.
Am not I your Rosalind?
ORLANDO
I take some joy to say you are, because I would be
talking of her.
ROSALIND
Well in her person I say I will not have you.
ORLANDO
Then in mine own person I die.
ROSALIND
No, faith, die by attorney. The poor world is
almost six thousand years old, and in all this time
there was not any man died in his own person,
videlicit, in a love-cause. Troilus had his brains
dashed out with a Grecian club; yet he did what he
could to die before, and he is one of the patterns
of love. Leander, he would have lived many a fair
year, though Hero had turned nun, if it had not been
for a hot midsummer night; for, good youth, he went
but forth to wash him in the Hellespont and being
taken with the cramp was drowned and the foolish
coroners of that age found it was ‘Hero of Sestos.’
But these are all lies: men have died from time to
time and worms have eaten them, but not for love.
ORLANDO
I would not have my right Rosalind of this mind,
for, I protest, her frown might kill me.
ROSALIND
By this hand, it will not kill a fly. But come, now
I will be your Rosalind in a more coming-on
disposition, and ask me what you will. I will grant
it.
ORLANDO
Then love me, Rosalind.
ROSALIND
Yes, faith, will I, Fridays and Saturdays and all.
ORLANDO
And wilt thou have me?
ROSALIND
Ay, and twenty such.
ORLANDO
What sayest thou?
ROSALIND
Are you not good?
ORLANDO
I hope so.
ROSALIND
Why then, can one desire too much of a good thing?
Come, sister, you shall be the priest and marry us.
Give me your hand, Orlando. What do you say, sister?
ORLANDO
Pray thee, marry us.
CELIA
I cannot say the words.
ROSALIND
You must begin, ‘Will you, Orlando–‘
CELIA
Go to. Will you, Orlando, have to wife this Rosalind?
ORLANDO
I will.
ROSALIND
Ay, but when?
ORLANDO
Why now; as fast as she can marry us.
ROSALIND
Then you must say ‘I take thee, Rosalind, for wife.’
ORLANDO
I take thee, Rosalind, for wife.
ROSALIND
I might ask you for your commission; but I do take
thee, Orlando, for my husband: there’s a girl goes
before the priest; and certainly a woman’s thought
runs before her actions.
ORLANDO
So do all thoughts; they are winged.
ROSALIND
Now tell me how long you would have her after you
have possessed her.
ORLANDO
For ever and a day.
ROSALIND
Say ‘a day,’ without the ‘ever.’ No, no, Orlando;
men are April when they woo, December when they wed:
maids are May when they are maids, but the sky
changes when they are wives. I will be more jealous
of thee than a Barbary cock-pigeon over his hen,
more clamorous than a parrot against rain, more
new-fangled than an ape, more giddy in my desires
than a monkey: I will weep for nothing, like Diana
in the fountain, and I will do that when you are
disposed to be merry; I will laugh like a hyen, and
that when thou art inclined to sleep.
ORLANDO
But will my Rosalind do so?
ROSALIND
By my life, she will do as I do.
ORLANDO
O, but she is wise.
ROSALIND
Or else she could not have the wit to do this: the
wiser, the waywarder: make the doors upon a woman’s
wit and it will out at the casement; shut that and
’twill out at the key-hole; stop that, ’twill fly
with the smoke out at the chimney.
ORLANDO
A man that had a wife with such a wit, he might say
‘Wit, whither wilt?’
ROSALIND
Nay, you might keep that cheque for it till you met
your wife’s wit going to your neighbour’s bed.
ORLANDO
And what wit could wit have to excuse that?
ROSALIND
Marry, to say she came to seek you there. You shall
never take her without her answer, unless you take
her without her tongue. O, that woman that cannot
make her fault her husband’s occasion, let her
never nurse her child herself, for she will breed
it like a fool!
ORLANDO
For these two hours, Rosalind, I will leave thee.
ROSALIND
Alas! dear love, I cannot lack thee two hours.
ORLANDO
I must attend the duke at dinner: by two o’clock I
will be with thee again.
ROSALIND
Ay, go your ways, go your ways; I knew what you
would prove: my friends told me as much, and I
thought no less: that flattering tongue of yours
won me: ’tis but one cast away, and so, come,
death! Two o’clock is your hour?
ORLANDO
Ay, sweet Rosalind.
ROSALIND
By my troth, and in good earnest, and so God mend
me, and by all pretty oaths that are not dangerous,
if you break one jot of your promise or come one
minute behind your hour, I will think you the most
pathetical break-promise and the most hollow lover
and the most unworthy of her you call Rosalind that
may be chosen out of the gross band of the
unfaithful: therefore beware my censure and keep
your promise.
ORLANDO
With no less religion than if thou wert indeed my
Rosalind: so adieu.
ROSALIND
Well, Time is the old justice that examines all such
offenders, and let Time try: adieu.
Exit ORLANDO

CELIA
You have simply misused our sex in your love-prate:
we must have your doublet and hose plucked over your
head, and show the world what the bird hath done to
her own nest.
ROSALIND
O coz, coz, coz, my pretty little coz, that thou
didst know how many fathom deep I am in love! But
it cannot be sounded: my affection hath an unknown
bottom, like the bay of Portugal.
CELIA
Or rather, bottomless, that as fast as you pour
affection in, it runs out.
ROSALIND
No, that same wicked bastard of Venus that was begot
of thought, conceived of spleen and born of madness,
that blind rascally boy that abuses every one’s eyes
because his own are out, let him be judge how deep I
am in love. I’ll tell thee, Aliena, I cannot be out
of the sight of Orlando: I’ll go find a shadow and
sigh till he come.
CELIA
And I’ll sleep.
Exeunt

SCENE II. The forest.
Enter JAQUES, Lords, and Foresters
JAQUES
Which is he that killed the deer?
A Lord
Sir, it was I.
JAQUES
Let’s present him to the duke, like a Roman
conqueror; and it would do well to set the deer’s
horns upon his head, for a branch of victory. Have
you no song, forester, for this purpose?
Forester
Yes, sir.
JAQUES
Sing it: ’tis no matter how it be in tune, so it
make noise enough.
SONG.
Forester
What shall he have that kill’d the deer?
His leather skin and horns to wear.
Then sing him home;
The rest shall bear this burden

Take thou no scorn to wear the horn;
It was a crest ere thou wast born:
Thy father’s father wore it,
And thy father bore it:
The horn, the horn, the lusty horn
Is not a thing to laugh to scorn.
Exeunt

SCENE III. The forest.
Enter ROSALIND and CELIA
ROSALIND
How say you now? Is it not past two o’clock? and
here much Orlando!
CELIA
I warrant you, with pure love and troubled brain, he
hath ta’en his bow and arrows and is gone forth to
sleep. Look, who comes here.
Enter SILVIUS

SILVIUS
My errand is to you, fair youth;
My gentle Phebe bid me give you this:
I know not the contents; but, as I guess
By the stern brow and waspish action
Which she did use as she was writing of it,
It bears an angry tenor: pardon me:
I am but as a guiltless messenger.
ROSALIND
Patience herself would startle at this letter
And play the swaggerer; bear this, bear all:
She says I am not fair, that I lack manners;
She calls me proud, and that she could not love me,
Were man as rare as phoenix. ‘Od’s my will!
Her love is not the hare that I do hunt:
Why writes she so to me? Well, shepherd, well,
This is a letter of your own device.
SILVIUS
No, I protest, I know not the contents:
Phebe did write it.
ROSALIND
Come, come, you are a fool
And turn’d into the extremity of love.
I saw her hand: she has a leathern hand.
A freestone-colour’d hand; I verily did think
That her old gloves were on, but ’twas her hands:
She has a huswife’s hand; but that’s no matter:
I say she never did invent this letter;
This is a man’s invention and his hand.
SILVIUS
Sure, it is hers.
ROSALIND
Why, ’tis a boisterous and a cruel style.
A style for-challengers; why, she defies me,
Like Turk to Christian: women’s gentle brain
Could not drop forth such giant-rude invention
Such Ethiope words, blacker in their effect
Than in their countenance. Will you hear the letter?
SILVIUS
So please you, for I never heard it yet;
Yet heard too much of Phebe’s cruelty.
ROSALIND
She Phebes me: mark how the tyrant writes.
Reads

Art thou god to shepherd turn’d,
That a maiden’s heart hath burn’d?
Can a woman rail thus?
SILVIUS
Call you this railing?
ROSALIND
[Reads]
Why, thy godhead laid apart,
Warr’st thou with a woman’s heart?
Did you ever hear such railing?
Whiles the eye of man did woo me,
That could do no vengeance to me.
Meaning me a beast.
If the scorn of your bright eyne
Have power to raise such love in mine,
Alack, in me what strange effect
Would they work in mild aspect!
Whiles you chid me, I did love;
How then might your prayers move!
He that brings this love to thee
Little knows this love in me:
And by him seal up thy mind;
Whether that thy youth and kind
Will the faithful offer take
Of me and all that I can make;
Or else by him my love deny,
And then I’ll study how to die.
SILVIUS
Call you this chiding?
CELIA
Alas, poor shepherd!
ROSALIND
Do you pity him? no, he deserves no pity. Wilt
thou love such a woman? What, to make thee an
instrument and play false strains upon thee! not to
be endured! Well, go your way to her, for I see
love hath made thee a tame snake, and say this to
her: that if she love me, I charge her to love
thee; if she will not, I will never have her unless
thou entreat for her. If you be a true lover,
hence, and not a word; for here comes more company.
Exit SILVIUS

Enter OLIVER

OLIVER
Good morrow, fair ones: pray you, if you know,
Where in the purlieus of this forest stands
A sheep-cote fenced about with olive trees?
CELIA
West of this place, down in the neighbour bottom:
The rank of osiers by the murmuring stream
Left on your right hand brings you to the place.
But at this hour the house doth keep itself;
There’s none within.
OLIVER
If that an eye may profit by a tongue,
Then should I know you by description;
Such garments and such years: ‘The boy is fair,
Of female favour, and bestows himself
Like a ripe sister: the woman low
And browner than her brother.’ Are not you
The owner of the house I did inquire for?
CELIA
It is no boast, being ask’d, to say we are.
OLIVER
Orlando doth commend him to you both,
And to that youth he calls his Rosalind
He sends this bloody napkin. Are you he?
ROSALIND
I am: what must we understand by this?
OLIVER
Some of my shame; if you will know of me
What man I am, and how, and why, and where
This handkercher was stain’d.
CELIA
I pray you, tell it.
OLIVER
When last the young Orlando parted from you
He left a promise to return again
Within an hour, and pacing through the forest,
Chewing the food of sweet and bitter fancy,
Lo, what befell! he threw his eye aside,
And mark what object did present itself:
Under an oak, whose boughs were moss’d with age
And high top bald with dry antiquity,
A wretched ragged man, o’ergrown with hair,
Lay sleeping on his back: about his neck
A green and gilded snake had wreathed itself,
Who with her head nimble in threats approach’d
The opening of his mouth; but suddenly,
Seeing Orlando, it unlink’d itself,
And with indented glides did slip away
Into a bush: under which bush’s shade
A lioness, with udders all drawn dry,
Lay couching, head on ground, with catlike watch,
When that the sleeping man should stir; for ’tis
The royal disposition of that beast
To prey on nothing that doth seem as dead:
This seen, Orlando did approach the man
And found it was his brother, his elder brother.
CELIA
O, I have heard him speak of that same brother;
And he did render him the most unnatural
That lived amongst men.
OLIVER
And well he might so do,
For well I know he was unnatural.
ROSALIND
But, to Orlando: did he leave him there,
Food to the suck’d and hungry lioness?
OLIVER
Twice did he turn his back and purposed so;
But kindness, nobler ever than revenge,
And nature, stronger than his just occasion,
Made him give battle to the lioness,
Who quickly fell before him: in which hurtling
From miserable slumber I awaked.
CELIA
Are you his brother?
ROSALIND
Wast you he rescued?
CELIA
Was’t you that did so oft contrive to kill him?
OLIVER
‘Twas I; but ’tis not I I do not shame
To tell you what I was, since my conversion
So sweetly tastes, being the thing I am.
ROSALIND
But, for the bloody napkin?
OLIVER
By and by.
When from the first to last betwixt us two
Tears our recountments had most kindly bathed,
As how I came into that desert place:–
In brief, he led me to the gentle duke,
Who gave me fresh array and entertainment,
Committing me unto my brother’s love;
Who led me instantly unto his cave,
There stripp’d himself, and here upon his arm
The lioness had torn some flesh away,
Which all this while had bled; and now he fainted
And cried, in fainting, upon Rosalind.
Brief, I recover’d him, bound up his wound;
And, after some small space, being strong at heart,
He sent me hither, stranger as I am,
To tell this story, that you might excuse
His broken promise, and to give this napkin
Dyed in his blood unto the shepherd youth
That he in sport doth call his Rosalind.
ROSALIND swoons

CELIA
Why, how now, Ganymede! sweet Ganymede!
OLIVER
Many will swoon when they do look on blood.
CELIA
There is more in it. Cousin Ganymede!
OLIVER
Look, he recovers.
ROSALIND
I would I were at home.
CELIA
We’ll lead you thither.
I pray you, will you take him by the arm?
OLIVER
Be of good cheer, youth: you a man! you lack a
man’s heart.
ROSALIND
I do so, I confess it. Ah, sirrah, a body would
think this was well counterfeited! I pray you, tell
your brother how well I counterfeited. Heigh-ho!
OLIVER
This was not counterfeit: there is too great
testimony in your complexion that it was a passion
of earnest.
ROSALIND
Counterfeit, I assure you.
OLIVER
Well then, take a good heart and counterfeit to be a man.
ROSALIND
So I do: but, i’ faith, I should have been a woman by right.
CELIA
Come, you look paler and paler: pray you, draw
homewards. Good sir, go with us.
OLIVER
That will I, for I must bear answer back
How you excuse my brother, Rosalind.
ROSALIND
I shall devise something: but, I pray you, commend
my counterfeiting to him. Will you go?
Exeunt

ACT V
SCENE I. The forest.
Enter TOUCHSTONE and AUDREY
TOUCHSTONE
We shall find a time, Audrey; patience, gentle Audrey.
AUDREY
Faith, the priest was good enough, for all the old
gentleman’s saying.
TOUCHSTONE
A most wicked Sir Oliver, Audrey, a most vile
Martext. But, Audrey, there is a youth here in the
forest lays claim to you.
AUDREY
Ay, I know who ’tis; he hath no interest in me in
the world: here comes the man you mean.
TOUCHSTONE
It is meat and drink to me to see a clown: by my
troth, we that have good wits have much to answer
for; we shall be flouting; we cannot hold.
Enter WILLIAM

WILLIAM
Good even, Audrey.
AUDREY
God ye good even, William.
WILLIAM
And good even to you, sir.
TOUCHSTONE
Good even, gentle friend. Cover thy head, cover thy
head; nay, prithee, be covered. How old are you, friend?
WILLIAM
Five and twenty, sir.
TOUCHSTONE
A ripe age. Is thy name William?
WILLIAM
William, sir.
TOUCHSTONE
A fair name. Wast born i’ the forest here?
WILLIAM
Ay, sir, I thank God.
TOUCHSTONE
‘Thank God;’ a good answer. Art rich?
WILLIAM
Faith, sir, so so.
TOUCHSTONE
‘So so’ is good, very good, very excellent good; and
yet it is not; it is but so so. Art thou wise?
WILLIAM
Ay, sir, I have a pretty wit.
TOUCHSTONE
Why, thou sayest well. I do now remember a saying,
‘The fool doth think he is wise, but the wise man
knows himself to be a fool.’ The heathen
philosopher, when he had a desire to eat a grape,
would open his lips when he put it into his mouth;
meaning thereby that grapes were made to eat and
lips to open. You do love this maid?
WILLIAM
I do, sir.
TOUCHSTONE
Give me your hand. Art thou learned?
WILLIAM
No, sir.
TOUCHSTONE
Then learn this of me: to have, is to have; for it
is a figure in rhetoric that drink, being poured out
of a cup into a glass, by filling the one doth empty
the other; for all your writers do consent that ipse
is he: now, you are not ipse, for I am he.
WILLIAM
Which he, sir?
TOUCHSTONE
He, sir, that must marry this woman. Therefore, you
clown, abandon,–which is in the vulgar leave,–the
society,–which in the boorish is company,–of this
female,–which in the common is woman; which
together is, abandon the society of this female, or,
clown, thou perishest; or, to thy better
understanding, diest; or, to wit I kill thee, make
thee away, translate thy life into death, thy
liberty into bondage: I will deal in poison with
thee, or in bastinado, or in steel; I will bandy
with thee in faction; I will o’errun thee with
policy; I will kill thee a hundred and fifty ways:
therefore tremble and depart.
AUDREY
Do, good William.
WILLIAM
God rest you merry, sir.
Exit

Enter CORIN

CORIN
Our master and mistress seeks you; come, away, away!
TOUCHSTONE
Trip, Audrey! trip, Audrey! I attend, I attend.
Exeunt

SCENE II. The forest.
Enter ORLANDO and OLIVER
ORLANDO
Is’t possible that on so little acquaintance you
should like her? that but seeing you should love
her? and loving woo? and, wooing, she should
grant? and will you persever to enjoy her?
OLIVER
Neither call the giddiness of it in question, the
poverty of her, the small acquaintance, my sudden
wooing, nor her sudden consenting; but say with me,
I love Aliena; say with her that she loves me;
consent with both that we may enjoy each other: it
shall be to your good; for my father’s house and all
the revenue that was old Sir Rowland’s will I
estate upon you, and here live and die a shepherd.
ORLANDO
You have my consent. Let your wedding be to-morrow:
thither will I invite the duke and all’s contented
followers. Go you and prepare Aliena; for look
you, here comes my Rosalind.
Enter ROSALIND

ROSALIND
God save you, brother.
OLIVER
And you, fair sister.
Exit

ROSALIND
O, my dear Orlando, how it grieves me to see thee
wear thy heart in a scarf!
ORLANDO
It is my arm.
ROSALIND
I thought thy heart had been wounded with the claws
of a lion.
ORLANDO
Wounded it is, but with the eyes of a lady.
ROSALIND
Did your brother tell you how I counterfeited to
swoon when he showed me your handkerchief?
ORLANDO
Ay, and greater wonders than that.
ROSALIND
O, I know where you are: nay, ’tis true: there was
never any thing so sudden but the fight of two rams
and Caesar’s thrasonical brag of ‘I came, saw, and
overcame:’ for your brother and my sister no sooner
met but they looked, no sooner looked but they
loved, no sooner loved but they sighed, no sooner
sighed but they asked one another the reason, no
sooner knew the reason but they sought the remedy;
and in these degrees have they made a pair of stairs
to marriage which they will climb incontinent, or
else be incontinent before marriage: they are in
the very wrath of love and they will together; clubs
cannot part them.
ORLANDO
They shall be married to-morrow, and I will bid the
duke to the nuptial. But, O, how bitter a thing it
is to look into happiness through another man’s
eyes! By so much the more shall I to-morrow be at
the height of heart-heaviness, by how much I shall
think my brother happy in having what he wishes for.
ROSALIND
Why then, to-morrow I cannot serve your turn for Rosalind?
ORLANDO
I can live no longer by thinking.
ROSALIND
I will weary you then no longer with idle talking.
Know of me then, for now I speak to some purpose,
that I know you are a gentleman of good conceit: I
speak not this that you should bear a good opinion
of my knowledge, insomuch I say I know you are;
neither do I labour for a greater esteem than may in
some little measure draw a belief from you, to do
yourself good and not to grace me. Believe then, if
you please, that I can do strange things: I have,
since I was three year old, conversed with a
magician, most profound in his art and yet not
damnable. If you do love Rosalind so near the heart
as your gesture cries it out, when your brother
marries Aliena, shall you marry her: I know into
what straits of fortune she is driven; and it is
not impossible to me, if it appear not inconvenient
to you, to set her before your eyes tomorrow human
as she is and without any danger.
ORLANDO
Speakest thou in sober meanings?
ROSALIND
By my life, I do; which I tender dearly, though I
say I am a magician. Therefore, put you in your
best array: bid your friends; for if you will be
married to-morrow, you shall, and to Rosalind, if you will.
Enter SILVIUS and PHEBE

Look, here comes a lover of mine and a lover of hers.
PHEBE
Youth, you have done me much ungentleness,
To show the letter that I writ to you.
ROSALIND
I care not if I have: it is my study
To seem despiteful and ungentle to you:
You are there followed by a faithful shepherd;
Look upon him, love him; he worships you.
PHEBE
Good shepherd, tell this youth what ’tis to love.
SILVIUS
It is to be all made of sighs and tears;
And so am I for Phebe.
PHEBE
And I for Ganymede.
ORLANDO
And I for Rosalind.
ROSALIND
And I for no woman.
SILVIUS
It is to be all made of faith and service;
And so am I for Phebe.
PHEBE
And I for Ganymede.
ORLANDO
And I for Rosalind.
ROSALIND
And I for no woman.
SILVIUS
It is to be all made of fantasy,
All made of passion and all made of wishes,
All adoration, duty, and observance,
All humbleness, all patience and impatience,
All purity, all trial, all observance;
And so am I for Phebe.
PHEBE
And so am I for Ganymede.
ORLANDO
And so am I for Rosalind.
ROSALIND
And so am I for no woman.
PHEBE
If this be so, why blame you me to love you?
SILVIUS
If this be so, why blame you me to love you?
ORLANDO
If this be so, why blame you me to love you?
ROSALIND
Who do you speak to, ‘Why blame you me to love you?’
ORLANDO
To her that is not here, nor doth not hear.
ROSALIND
Pray you, no more of this; ’tis like the howling
of Irish wolves against the moon.
To SILVIUS

I will help you, if I can:
To PHEBE

I would love you, if I could. To-morrow meet me all together.
To PHEBE

I will marry you, if ever I marry woman, and I’ll be
married to-morrow:
To ORLANDO

I will satisfy you, if ever I satisfied man, and you
shall be married to-morrow:
To SILVIUS

I will content you, if what pleases you contents
you, and you shall be married to-morrow.
To ORLANDO

As you love Rosalind, meet:
To SILVIUS

as you love Phebe, meet: and as I love no woman,
I’ll meet. So fare you well: I have left you commands.
SILVIUS
I’ll not fail, if I live.
PHEBE
Nor I.
ORLANDO
Nor I.
Exeunt

SCENE III. The forest.
Enter TOUCHSTONE and AUDREY
TOUCHSTONE
To-morrow is the joyful day, Audrey; to-morrow will
we be married.
AUDREY
I do desire it with all my heart; and I hope it is
no dishonest desire to desire to be a woman of the
world. Here comes two of the banished duke’s pages.
Enter two Pages

First Page
Well met, honest gentleman.
TOUCHSTONE
By my troth, well met. Come, sit, sit, and a song.
Second Page
We are for you: sit i’ the middle.
First Page
Shall we clap into’t roundly, without hawking or
spitting or saying we are hoarse, which are the only
prologues to a bad voice?
Second Page
I’faith, i’faith; and both in a tune, like two
gipsies on a horse.
SONG.
It was a lover and his lass,
With a hey, and a ho, and a hey nonino,
That o’er the green corn-field did pass
In the spring time, the only pretty ring time,
When birds do sing, hey ding a ding, ding:
Sweet lovers love the spring.
Between the acres of the rye,
With a hey, and a ho, and a hey nonino
These pretty country folks would lie,
In spring time, & c.
This carol they began that hour,
With a hey, and a ho, and a hey nonino,
How that a life was but a flower
In spring time, & c.
And therefore take the present time,
With a hey, and a ho, and a hey nonino;
For love is crowned with the prime
In spring time, & c.
TOUCHSTONE
Truly, young gentlemen, though there was no great
matter in the ditty, yet the note was very
untuneable.
First Page
You are deceived, sir: we kept time, we lost not our time.
TOUCHSTONE
By my troth, yes; I count it but time lost to hear
such a foolish song. God be wi’ you; and God mend
your voices! Come, Audrey.
Exeunt

SCENE IV. The forest.
Enter DUKE SENIOR, AMIENS, JAQUES, ORLANDO, OLIVER, and CELIA
DUKE SENIOR
Dost thou believe, Orlando, that the boy
Can do all this that he hath promised?
ORLANDO
I sometimes do believe, and sometimes do not;
As those that fear they hope, and know they fear.
Enter ROSALIND, SILVIUS, and PHEBE

ROSALIND
Patience once more, whiles our compact is urged:
You say, if I bring in your Rosalind,
You will bestow her on Orlando here?
DUKE SENIOR
That would I, had I kingdoms to give with her.
ROSALIND
And you say, you will have her, when I bring her?
ORLANDO
That would I, were I of all kingdoms king.
ROSALIND
You say, you’ll marry me, if I be willing?
PHEBE
That will I, should I die the hour after.
ROSALIND
But if you do refuse to marry me,
You’ll give yourself to this most faithful shepherd?
PHEBE
So is the bargain.
ROSALIND
You say, that you’ll have Phebe, if she will?
SILVIUS
Though to have her and death were both one thing.
ROSALIND
I have promised to make all this matter even.
Keep you your word, O duke, to give your daughter;
You yours, Orlando, to receive his daughter:
Keep your word, Phebe, that you’ll marry me,
Or else refusing me, to wed this shepherd:
Keep your word, Silvius, that you’ll marry her.
If she refuse me: and from hence I go,
To make these doubts all even.
Exeunt ROSALIND and CELIA

DUKE SENIOR
I do remember in this shepherd boy
Some lively touches of my daughter’s favour.
ORLANDO
My lord, the first time that I ever saw him
Methought he was a brother to your daughter:
But, my good lord, this boy is forest-born,
And hath been tutor’d in the rudiments
Of many desperate studies by his uncle,
Whom he reports to be a great magician,
Obscured in the circle of this forest.
Enter TOUCHSTONE and AUDREY

JAQUES
There is, sure, another flood toward, and these
couples are coming to the ark. Here comes a pair of
very strange beasts, which in all tongues are called fools.
TOUCHSTONE
Salutation and greeting to you all!
JAQUES
Good my lord, bid him welcome: this is the
motley-minded gentleman that I have so often met in
the forest: he hath been a courtier, he swears.
TOUCHSTONE
If any man doubt that, let him put me to my
purgation. I have trod a measure; I have flattered
a lady; I have been politic with my friend, smooth
with mine enemy; I have undone three tailors; I have
had four quarrels, and like to have fought one.
JAQUES
And how was that ta’en up?
TOUCHSTONE
Faith, we met, and found the quarrel was upon the
seventh cause.
JAQUES
How seventh cause? Good my lord, like this fellow.
DUKE SENIOR
I like him very well.
TOUCHSTONE
God ‘ild you, sir; I desire you of the like. I
press in here, sir, amongst the rest of the country
copulatives, to swear and to forswear: according as
marriage binds and blood breaks: a poor virgin,
sir, an ill-favoured thing, sir, but mine own; a poor
humour of mine, sir, to take that that no man else
will: rich honesty dwells like a miser, sir, in a
poor house; as your pearl in your foul oyster.
DUKE SENIOR
By my faith, he is very swift and sententious.
TOUCHSTONE
According to the fool’s bolt, sir, and such dulcet diseases.
JAQUES
But, for the seventh cause; how did you find the
quarrel on the seventh cause?
TOUCHSTONE
Upon a lie seven times removed:–bear your body more
seeming, Audrey:–as thus, sir. I did dislike the
cut of a certain courtier’s beard: he sent me word,
if I said his beard was not cut well, he was in the
mind it was: this is called the Retort Courteous.
If I sent him word again ‘it was not well cut,’ he
would send me word, he cut it to please himself:
this is called the Quip Modest. If again ‘it was
not well cut,’ he disabled my judgment: this is
called the Reply Churlish. If again ‘it was not
well cut,’ he would answer, I spake not true: this
is called the Reproof Valiant. If again ‘it was not
well cut,’ he would say I lied: this is called the
Counter-cheque Quarrelsome: and so to the Lie
Circumstantial and the Lie Direct.
JAQUES
And how oft did you say his beard was not well cut?
TOUCHSTONE
I durst go no further than the Lie Circumstantial,
nor he durst not give me the Lie Direct; and so we
measured swords and parted.
JAQUES
Can you nominate in order now the degrees of the lie?
TOUCHSTONE
O sir, we quarrel in print, by the book; as you have
books for good manners: I will name you the degrees.
The first, the Retort Courteous; the second, the
Quip Modest; the third, the Reply Churlish; the
fourth, the Reproof Valiant; the fifth, the
Countercheque Quarrelsome; the sixth, the Lie with
Circumstance; the seventh, the Lie Direct. All
these you may avoid but the Lie Direct; and you may
avoid that too, with an If. I knew when seven
justices could not take up a quarrel, but when the
parties were met themselves, one of them thought but
of an If, as, ‘If you said so, then I said so;’ and
they shook hands and swore brothers. Your If is the
only peacemaker; much virtue in If.
JAQUES
Is not this a rare fellow, my lord? he’s as good at
any thing and yet a fool.
DUKE SENIOR
He uses his folly like a stalking-horse and under
the presentation of that he shoots his wit.
Enter HYMEN, ROSALIND, and CELIA

Still Music

HYMEN
Then is there mirth in heaven,
When earthly things made even
Atone together.
Good duke, receive thy daughter
Hymen from heaven brought her,
Yea, brought her hither,
That thou mightst join her hand with his
Whose heart within his bosom is.
ROSALIND
[To DUKE SENIOR] To you I give myself, for I am yours.
To ORLANDO

To you I give myself, for I am yours.
DUKE SENIOR
If there be truth in sight, you are my daughter.
ORLANDO
If there be truth in sight, you are my Rosalind.
PHEBE
If sight and shape be true,
Why then, my love adieu!
ROSALIND
I’ll have no father, if you be not he:
I’ll have no husband, if you be not he:
Nor ne’er wed woman, if you be not she.
HYMEN
Peace, ho! I bar confusion:
‘Tis I must make conclusion
Of these most strange events:
Here’s eight that must take hands
To join in Hymen’s bands,
If truth holds true contents.
You and you no cross shall part:
You and you are heart in heart
You to his love must accord,
Or have a woman to your lord:
You and you are sure together,
As the winter to foul weather.
Whiles a wedlock-hymn we sing,
Feed yourselves with questioning;
That reason wonder may diminish,
How thus we met, and these things finish.
SONG.
Wedding is great Juno’s crown:
O blessed bond of board and bed!
‘Tis Hymen peoples every town;
High wedlock then be honoured:
Honour, high honour and renown,
To Hymen, god of every town!
DUKE SENIOR
O my dear niece, welcome thou art to me!
Even daughter, welcome, in no less degree.
PHEBE
I will not eat my word, now thou art mine;
Thy faith my fancy to thee doth combine.
Enter JAQUES DE BOYS

JAQUES DE BOYS
Let me have audience for a word or two:
I am the second son of old Sir Rowland,
That bring these tidings to this fair assembly.
Duke Frederick, hearing how that every day
Men of great worth resorted to this forest,
Address’d a mighty power; which were on foot,
In his own conduct, purposely to take
His brother here and put him to the sword:
And to the skirts of this wild wood he came;
Where meeting with an old religious man,
After some question with him, was converted
Both from his enterprise and from the world,
His crown bequeathing to his banish’d brother,
And all their lands restored to them again
That were with him exiled. This to be true,
I do engage my life.
DUKE SENIOR
Welcome, young man;
Thou offer’st fairly to thy brothers’ wedding:
To one his lands withheld, and to the other
A land itself at large, a potent dukedom.
First, in this forest, let us do those ends
That here were well begun and well begot:
And after, every of this happy number
That have endured shrewd days and nights with us
Shall share the good of our returned fortune,
According to the measure of their states.
Meantime, forget this new-fall’n dignity
And fall into our rustic revelry.
Play, music! And you, brides and bridegrooms all,
With measure heap’d in joy, to the measures fall.
JAQUES
Sir, by your patience. If I heard you rightly,
The duke hath put on a religious life
And thrown into neglect the pompous court?
JAQUES DE BOYS
He hath.
JAQUES
To him will I : out of these convertites
There is much matter to be heard and learn’d.
To DUKE SENIOR

You to your former honour I bequeath;
Your patience and your virtue well deserves it:
To ORLANDO

You to a love that your true faith doth merit:
To OLIVER

You to your land and love and great allies:
To SILVIUS

You to a long and well-deserved bed:
To TOUCHSTONE

And you to wrangling; for thy loving voyage
Is but for two months victuall’d. So, to your pleasures:
I am for other than for dancing measures.
DUKE SENIOR
Stay, Jaques, stay.
JAQUES
To see no pastime I what you would have
I’ll stay to know at your abandon’d cave.
Exit

DUKE SENIOR
Proceed, proceed: we will begin these rites,
As we do trust they’ll end, in true delights.
A dance

EPILOGUE
ROSALIND
It is not the fashion to see the lady the epilogue;
but it is no more unhandsome than to see the lord
the prologue. If it be true that good wine needs
no bush, ’tis true that a good play needs no
epilogue; yet to good wine they do use good bushes,
and good plays prove the better by the help of good
epilogues. What a case am I in then, that am
neither a good epilogue nor cannot insinuate with
you in the behalf of a good play! I am not
furnished like a beggar, therefore to beg will not
become me: my way is to conjure you; and I’ll begin
with the women. I charge you, O women, for the love
you bear to men, to like as much of this play as
please you: and I charge you, O men, for the love
you bear to women–as I perceive by your simpering,
none of you hates them–that between you and the
women the play may please. If I were a woman I
would kiss as many of you as had beards that pleased
me, complexions that liked me and breaths that I
defied not: and, I am sure, as many as have good
beards or good faces or sweet breaths will, for my
kind offer, when I make curtsy, bid me farewell.
Exeunt

rchard of Oliver’s house.

Much Ado About Nothing
Shakespeare homepage | Much Ado About Nothing | Entire play
ACT I
SCENE I. Before LEONATO’S house.
Enter LEONATO, HERO, and BEATRICE, with a Messenger
LEONATO
I learn in this letter that Don Peter of Arragon
comes this night to Messina.
Messenger
He is very near by this: he was not three leagues off
when I left him.
LEONATO
How many gentlemen have you lost in this action?
Messenger
But few of any sort, and none of name.
LEONATO
A victory is twice itself when the achiever brings
home full numbers. I find here that Don Peter hath
bestowed much honour on a young Florentine called Claudio.
Messenger
Much deserved on his part and equally remembered by
Don Pedro: he hath borne himself beyond the
promise of his age, doing, in the figure of a lamb,
the feats of a lion: he hath indeed better
bettered expectation than you must expect of me to
tell you how.
LEONATO
He hath an uncle here in Messina will be very much
glad of it.
Messenger
I have already delivered him letters, and there
appears much joy in him; even so much that joy could
not show itself modest enough without a badge of
bitterness.
LEONATO
Did he break out into tears?
Messenger
In great measure.
LEONATO
A kind overflow of kindness: there are no faces
truer than those that are so washed. How much
better is it to weep at joy than to joy at weeping!
BEATRICE
I pray you, is Signior Mountanto returned from the
wars or no?
Messenger
I know none of that name, lady: there was none such
in the army of any sort.
LEONATO
What is he that you ask for, niece?
HERO
My cousin means Signior Benedick of Padua.
Messenger
O, he’s returned; and as pleasant as ever he was.
BEATRICE
He set up his bills here in Messina and challenged
Cupid at the flight; and my uncle’s fool, reading
the challenge, subscribed for Cupid, and challenged
him at the bird-bolt. I pray you, how many hath he
killed and eaten in these wars? But how many hath
he killed? for indeed I promised to eat all of his killing.
LEONATO
Faith, niece, you tax Signior Benedick too much;
but he’ll be meet with you, I doubt it not.
Messenger
He hath done good service, lady, in these wars.
BEATRICE
You had musty victual, and he hath holp to eat it:
he is a very valiant trencherman; he hath an
excellent stomach.
Messenger
And a good soldier too, lady.
BEATRICE
And a good soldier to a lady: but what is he to a lord?
Messenger
A lord to a lord, a man to a man; stuffed with all
honourable virtues.
BEATRICE
It is so, indeed; he is no less than a stuffed man:
but for the stuffing,–well, we are all mortal.
LEONATO
You must not, sir, mistake my niece. There is a
kind of merry war betwixt Signior Benedick and her:
they never meet but there’s a skirmish of wit
between them.
BEATRICE
Alas! he gets nothing by that. In our last
conflict four of his five wits went halting off, and
now is the whole man governed with one: so that if
he have wit enough to keep himself warm, let him
bear it for a difference between himself and his
horse; for it is all the wealth that he hath left,
to be known a reasonable creature. Who is his
companion now? He hath every month a new sworn brother.
Messenger
Is’t possible?
BEATRICE
Very easily possible: he wears his faith but as
the fashion of his hat; it ever changes with the
next block.
Messenger
I see, lady, the gentleman is not in your books.
BEATRICE
No; an he were, I would burn my study. But, I pray
you, who is his companion? Is there no young
squarer now that will make a voyage with him to the devil?
Messenger
He is most in the company of the right noble Claudio.
BEATRICE
O Lord, he will hang upon him like a disease: he
is sooner caught than the pestilence, and the taker
runs presently mad. God help the noble Claudio! if
he have caught the Benedick, it will cost him a
thousand pound ere a’ be cured.
Messenger
I will hold friends with you, lady.
BEATRICE
Do, good friend.
LEONATO
You will never run mad, niece.
BEATRICE
No, not till a hot January.
Messenger
Don Pedro is approached.
Enter DON PEDRO, DON JOHN, CLAUDIO, BENEDICK, and BALTHASAR

DON PEDRO
Good Signior Leonato, you are come to meet your
trouble: the fashion of the world is to avoid
cost, and you encounter it.
LEONATO
Never came trouble to my house in the likeness of
your grace: for trouble being gone, comfort should
remain; but when you depart from me, sorrow abides
and happiness takes his leave.
DON PEDRO
You embrace your charge too willingly. I think this
is your daughter.
LEONATO
Her mother hath many times told me so.
BENEDICK
Were you in doubt, sir, that you asked her?
LEONATO
Signior Benedick, no; for then were you a child.
DON PEDRO
You have it full, Benedick: we may guess by this
what you are, being a man. Truly, the lady fathers
herself. Be happy, lady; for you are like an
honourable father.
BENEDICK
If Signior Leonato be her father, she would not
have his head on her shoulders for all Messina, as
like him as she is.
BEATRICE
I wonder that you will still be talking, Signior
Benedick: nobody marks you.
BENEDICK
What, my dear Lady Disdain! are you yet living?
BEATRICE
Is it possible disdain should die while she hath
such meet food to feed it as Signior Benedick?
Courtesy itself must convert to disdain, if you come
in her presence.
BENEDICK
Then is courtesy a turncoat. But it is certain I
am loved of all ladies, only you excepted: and I
would I could find in my heart that I had not a hard
heart; for, truly, I love none.
BEATRICE
A dear happiness to women: they would else have
been troubled with a pernicious suitor. I thank God
and my cold blood, I am of your humour for that: I
had rather hear my dog bark at a crow than a man
swear he loves me.
BENEDICK
God keep your ladyship still in that mind! so some
gentleman or other shall ‘scape a predestinate
scratched face.
BEATRICE
Scratching could not make it worse, an ’twere such
a face as yours were.
BENEDICK
Well, you are a rare parrot-teacher.
BEATRICE
A bird of my tongue is better than a beast of yours.
BENEDICK
I would my horse had the speed of your tongue, and
so good a continuer. But keep your way, i’ God’s
name; I have done.
BEATRICE
You always end with a jade’s trick: I know you of old.
DON PEDRO
That is the sum of all, Leonato. Signior Claudio
and Signior Benedick, my dear friend Leonato hath
invited you all. I tell him we shall stay here at
the least a month; and he heartily prays some
occasion may detain us longer. I dare swear he is no
hypocrite, but prays from his heart.
LEONATO
If you swear, my lord, you shall not be forsworn.
To DON JOHN

Let me bid you welcome, my lord: being reconciled to
the prince your brother, I owe you all duty.
DON JOHN
I thank you: I am not of many words, but I thank
you.
LEONATO
Please it your grace lead on?
DON PEDRO
Your hand, Leonato; we will go together.
Exeunt all except BENEDICK and CLAUDIO

CLAUDIO
Benedick, didst thou note the daughter of Signior Leonato?
BENEDICK
I noted her not; but I looked on her.
CLAUDIO
Is she not a modest young lady?
BENEDICK
Do you question me, as an honest man should do, for
my simple true judgment; or would you have me speak
after my custom, as being a professed tyrant to their sex?
CLAUDIO
No; I pray thee speak in sober judgment.
BENEDICK
Why, i’ faith, methinks she’s too low for a high
praise, too brown for a fair praise and too little
for a great praise: only this commendation I can
afford her, that were she other than she is, she
were unhandsome; and being no other but as she is, I
do not like her.
CLAUDIO
Thou thinkest I am in sport: I pray thee tell me
truly how thou likest her.
BENEDICK
Would you buy her, that you inquire after her?
CLAUDIO
Can the world buy such a jewel?
BENEDICK
Yea, and a case to put it into. But speak you this
with a sad brow? or do you play the flouting Jack,
to tell us Cupid is a good hare-finder and Vulcan a
rare carpenter? Come, in what key shall a man take
you, to go in the song?
CLAUDIO
In mine eye she is the sweetest lady that ever I
looked on.
BENEDICK
I can see yet without spectacles and I see no such
matter: there’s her cousin, an she were not
possessed with a fury, exceeds her as much in beauty
as the first of May doth the last of December. But I
hope you have no intent to turn husband, have you?
CLAUDIO
I would scarce trust myself, though I had sworn the
contrary, if Hero would be my wife.
BENEDICK
Is’t come to this? In faith, hath not the world
one man but he will wear his cap with suspicion?
Shall I never see a bachelor of three-score again?
Go to, i’ faith; an thou wilt needs thrust thy neck
into a yoke, wear the print of it and sigh away
Sundays. Look Don Pedro is returned to seek you.
Re-enter DON PEDRO

DON PEDRO
What secret hath held you here, that you followed
not to Leonato’s?
BENEDICK
I would your grace would constrain me to tell.
DON PEDRO
I charge thee on thy allegiance.
BENEDICK
You hear, Count Claudio: I can be secret as a dumb
man; I would have you think so; but, on my
allegiance, mark you this, on my allegiance. He is
in love. With who? now that is your grace’s part.
Mark how short his answer is;–With Hero, Leonato’s
short daughter.
CLAUDIO
If this were so, so were it uttered.
BENEDICK
Like the old tale, my lord: ‘it is not so, nor
’twas not so, but, indeed, God forbid it should be
so.’
CLAUDIO
If my passion change not shortly, God forbid it
should be otherwise.
DON PEDRO
Amen, if you love her; for the lady is very well worthy.
CLAUDIO
You speak this to fetch me in, my lord.
DON PEDRO
By my troth, I speak my thought.
CLAUDIO
And, in faith, my lord, I spoke mine.
BENEDICK
And, by my two faiths and troths, my lord, I spoke mine.
CLAUDIO
That I love her, I feel.
DON PEDRO
That she is worthy, I know.
BENEDICK
That I neither feel how she should be loved nor
know how she should be worthy, is the opinion that
fire cannot melt out of me: I will die in it at the stake.
DON PEDRO
Thou wast ever an obstinate heretic in the despite
of beauty.
CLAUDIO
And never could maintain his part but in the force
of his will.
BENEDICK
That a woman conceived me, I thank her; that she
brought me up, I likewise give her most humble
thanks: but that I will have a recheat winded in my
forehead, or hang my bugle in an invisible baldrick,
all women shall pardon me. Because I will not do
them the wrong to mistrust any, I will do myself the
right to trust none; and the fine is, for the which
I may go the finer, I will live a bachelor.
DON PEDRO
I shall see thee, ere I die, look pale with love.
BENEDICK
With anger, with sickness, or with hunger, my lord,
not with love: prove that ever I lose more blood
with love than I will get again with drinking, pick
out mine eyes with a ballad-maker’s pen and hang me
up at the door of a brothel-house for the sign of
blind Cupid.
DON PEDRO
Well, if ever thou dost fall from this faith, thou
wilt prove a notable argument.
BENEDICK
If I do, hang me in a bottle like a cat and shoot
at me; and he that hits me, let him be clapped on
the shoulder, and called Adam.
DON PEDRO
Well, as time shall try: ‘In time the savage bull
doth bear the yoke.’
BENEDICK
The savage bull may; but if ever the sensible
Benedick bear it, pluck off the bull’s horns and set
them in my forehead: and let me be vilely painted,
and in such great letters as they write ‘Here is
good horse to hire,’ let them signify under my sign
‘Here you may see Benedick the married man.’
CLAUDIO
If this should ever happen, thou wouldst be horn-mad.
DON PEDRO
Nay, if Cupid have not spent all his quiver in
Venice, thou wilt quake for this shortly.
BENEDICK
I look for an earthquake too, then.
DON PEDRO
Well, you temporize with the hours. In the
meantime, good Signior Benedick, repair to
Leonato’s: commend me to him and tell him I will
not fail him at supper; for indeed he hath made
great preparation.
BENEDICK
I have almost matter enough in me for such an
embassage; and so I commit you–
CLAUDIO
To the tuition of God: From my house, if I had it,–
DON PEDRO
The sixth of July: Your loving friend, Benedick.
BENEDICK
Nay, mock not, mock not. The body of your
discourse is sometime guarded with fragments, and
the guards are but slightly basted on neither: ere
you flout old ends any further, examine your
conscience: and so I leave you.
Exit

CLAUDIO
My liege, your highness now may do me good.
DON PEDRO
My love is thine to teach: teach it but how,
And thou shalt see how apt it is to learn
Any hard lesson that may do thee good.
CLAUDIO
Hath Leonato any son, my lord?
DON PEDRO
No child but Hero; she’s his only heir.
Dost thou affect her, Claudio?
CLAUDIO
O, my lord,
When you went onward on this ended action,
I look’d upon her with a soldier’s eye,
That liked, but had a rougher task in hand
Than to drive liking to the name of love:
But now I am return’d and that war-thoughts
Have left their places vacant, in their rooms
Come thronging soft and delicate desires,
All prompting me how fair young Hero is,
Saying, I liked her ere I went to wars.
DON PEDRO
Thou wilt be like a lover presently
And tire the hearer with a book of words.
If thou dost love fair Hero, cherish it,
And I will break with her and with her father,
And thou shalt have her. Was’t not to this end
That thou began’st to twist so fine a story?
CLAUDIO
How sweetly you do minister to love,
That know love’s grief by his complexion!
But lest my liking might too sudden seem,
I would have salved it with a longer treatise.
DON PEDRO
What need the bridge much broader than the flood?
The fairest grant is the necessity.
Look, what will serve is fit: ’tis once, thou lovest,
And I will fit thee with the remedy.
I know we shall have revelling to-night:
I will assume thy part in some disguise
And tell fair Hero I am Claudio,
And in her bosom I’ll unclasp my heart
And take her hearing prisoner with the force
And strong encounter of my amorous tale:
Then after to her father will I break;
And the conclusion is, she shall be thine.
In practise let us put it presently.
Exeunt

SCENE II. A room in LEONATO’s house.
Enter LEONATO and ANTONIO, meeting
LEONATO
How now, brother! Where is my cousin, your son?
hath he provided this music?
ANTONIO
He is very busy about it. But, brother, I can tell
you strange news that you yet dreamt not of.
LEONATO
Are they good?
ANTONIO
As the event stamps them: but they have a good
cover; they show well outward. The prince and Count
Claudio, walking in a thick-pleached alley in mine
orchard, were thus much overheard by a man of mine:
the prince discovered to Claudio that he loved my
niece your daughter and meant to acknowledge it
this night in a dance: and if he found her
accordant, he meant to take the present time by the
top and instantly break with you of it.
LEONATO
Hath the fellow any wit that told you this?
ANTONIO
A good sharp fellow: I will send for him; and
question him yourself.
LEONATO
No, no; we will hold it as a dream till it appear
itself: but I will acquaint my daughter withal,
that she may be the better prepared for an answer,
if peradventure this be true. Go you and tell her of it.
Enter Attendants

Cousins, you know what you have to do. O, I cry you
mercy, friend; go you with me, and I will use your
skill. Good cousin, have a care this busy time.
Exeunt

SCENE III. The same.
Enter DON JOHN and CONRADE
CONRADE
What the good-year, my lord! why are you thus out
of measure sad?
DON JOHN
There is no measure in the occasion that breeds;
therefore the sadness is without limit.
CONRADE
You should hear reason.
DON JOHN
And when I have heard it, what blessing brings it?
CONRADE
If not a present remedy, at least a patient
sufferance.
DON JOHN
I wonder that thou, being, as thou sayest thou art,
born under Saturn, goest about to apply a moral
medicine to a mortifying mischief. I cannot hide
what I am: I must be sad when I have cause and smile
at no man’s jests, eat when I have stomach and wait
for no man’s leisure, sleep when I am drowsy and
tend on no man’s business, laugh when I am merry and
claw no man in his humour.
CONRADE
Yea, but you must not make the full show of this
till you may do it without controlment. You have of
late stood out against your brother, and he hath
ta’en you newly into his grace; where it is
impossible you should take true root but by the
fair weather that you make yourself: it is needful
that you frame the season for your own harvest.
DON JOHN
I had rather be a canker in a hedge than a rose in
his grace, and it better fits my blood to be
disdained of all than to fashion a carriage to rob
love from any: in this, though I cannot be said to
be a flattering honest man, it must not be denied
but I am a plain-dealing villain. I am trusted with
a muzzle and enfranchised with a clog; therefore I
have decreed not to sing in my cage. If I had my
mouth, I would bite; if I had my liberty, I would do
my liking: in the meantime let me be that I am and
seek not to alter me.
CONRADE
Can you make no use of your discontent?
DON JOHN
I make all use of it, for I use it only.
Who comes here?
Enter BORACHIO

What news, Borachio?
BORACHIO
I came yonder from a great supper: the prince your
brother is royally entertained by Leonato: and I
can give you intelligence of an intended marriage.
DON JOHN
Will it serve for any model to build mischief on?
What is he for a fool that betroths himself to
unquietness?
BORACHIO
Marry, it is your brother’s right hand.
DON JOHN
Who? the most exquisite Claudio?
BORACHIO
Even he.
DON JOHN
A proper squire! And who, and who? which way looks
he?
BORACHIO
Marry, on Hero, the daughter and heir of Leonato.
DON JOHN
A very forward March-chick! How came you to this?
BORACHIO
Being entertained for a perfumer, as I was smoking a
musty room, comes me the prince and Claudio, hand
in hand in sad conference: I whipt me behind the
arras; and there heard it agreed upon that the
prince should woo Hero for himself, and having
obtained her, give her to Count Claudio.
DON JOHN
Come, come, let us thither: this may prove food to
my displeasure. That young start-up hath all the
glory of my overthrow: if I can cross him any way, I
bless myself every way. You are both sure, and will assist me?
CONRADE
To the death, my lord.
DON JOHN
Let us to the great supper: their cheer is the
greater that I am subdued. Would the cook were of
my mind! Shall we go prove what’s to be done?
BORACHIO
We’ll wait upon your lordship.
Exeunt

ACT II
SCENE I. A hall in LEONATO’S house.
Enter LEONATO, ANTONIO, HERO, BEATRICE, and others
LEONATO
Was not Count John here at supper?
ANTONIO
I saw him not.
BEATRICE
How tartly that gentleman looks! I never can see
him but I am heart-burned an hour after.
HERO
He is of a very melancholy disposition.
BEATRICE
He were an excellent man that were made just in the
midway between him and Benedick: the one is too
like an image and says nothing, and the other too
like my lady’s eldest son, evermore tattling.
LEONATO
Then half Signior Benedick’s tongue in Count John’s
mouth, and half Count John’s melancholy in Signior
Benedick’s face,–
BEATRICE
With a good leg and a good foot, uncle, and money
enough in his purse, such a man would win any woman
in the world, if a’ could get her good-will.
LEONATO
By my troth, niece, thou wilt never get thee a
husband, if thou be so shrewd of thy tongue.
ANTONIO
In faith, she’s too curst.
BEATRICE
Too curst is more than curst: I shall lessen God’s
sending that way; for it is said, ‘God sends a curst
cow short horns;’ but to a cow too curst he sends none.
LEONATO
So, by being too curst, God will send you no horns.
BEATRICE
Just, if he send me no husband; for the which
blessing I am at him upon my knees every morning and
evening. Lord, I could not endure a husband with a
beard on his face: I had rather lie in the woollen.
LEONATO
You may light on a husband that hath no beard.
BEATRICE
What should I do with him? dress him in my apparel
and make him my waiting-gentlewoman? He that hath a
beard is more than a youth, and he that hath no
beard is less than a man: and he that is more than
a youth is not for me, and he that is less than a
man, I am not for him: therefore, I will even take
sixpence in earnest of the bear-ward, and lead his
apes into hell.
LEONATO
Well, then, go you into hell?
BEATRICE
No, but to the gate; and there will the devil meet
me, like an old cuckold, with horns on his head, and
say ‘Get you to heaven, Beatrice, get you to
heaven; here’s no place for you maids:’ so deliver
I up my apes, and away to Saint Peter for the
heavens; he shows me where the bachelors sit, and
there live we as merry as the day is long.
ANTONIO
[To HERO] Well, niece, I trust you will be ruled
by your father.
BEATRICE
Yes, faith; it is my cousin’s duty to make curtsy
and say ‘Father, as it please you.’ But yet for all
that, cousin, let him be a handsome fellow, or else
make another curtsy and say ‘Father, as it please
me.’
LEONATO
Well, niece, I hope to see you one day fitted with a husband.
BEATRICE
Not till God make men of some other metal than
earth. Would it not grieve a woman to be
overmastered with a pierce of valiant dust? to make
an account of her life to a clod of wayward marl?
No, uncle, I’ll none: Adam’s sons are my brethren;
and, truly, I hold it a sin to match in my kindred.
LEONATO
Daughter, remember what I told you: if the prince
do solicit you in that kind, you know your answer.
BEATRICE
The fault will be in the music, cousin, if you be
not wooed in good time: if the prince be too
important, tell him there is measure in every thing
and so dance out the answer. For, hear me, Hero:
wooing, wedding, and repenting, is as a Scotch jig,
a measure, and a cinque pace: the first suit is hot
and hasty, like a Scotch jig, and full as
fantastical; the wedding, mannerly-modest, as a
measure, full of state and ancientry; and then comes
repentance and, with his bad legs, falls into the
cinque pace faster and faster, till he sink into his grave.
LEONATO
Cousin, you apprehend passing shrewdly.
BEATRICE
I have a good eye, uncle; I can see a church by daylight.
LEONATO
The revellers are entering, brother: make good room.
All put on their masks

Enter DON PEDRO, CLAUDIO, BENEDICK, BALTHASAR, DON JOHN, BORACHIO, MARGARET, URSULA and others, masked

DON PEDRO
Lady, will you walk about with your friend?
HERO
So you walk softly and look sweetly and say nothing,
I am yours for the walk; and especially when I walk away.
DON PEDRO
With me in your company?
HERO
I may say so, when I please.
DON PEDRO
And when please you to say so?
HERO
When I like your favour; for God defend the lute
should be like the case!
DON PEDRO
My visor is Philemon’s roof; within the house is Jove.
HERO
Why, then, your visor should be thatched.
DON PEDRO
Speak low, if you speak love.
Drawing her aside

BALTHASAR
Well, I would you did like me.
MARGARET
So would not I, for your own sake; for I have many
ill-qualities.
BALTHASAR
Which is one?
MARGARET
I say my prayers aloud.
BALTHASAR
I love you the better: the hearers may cry, Amen.
MARGARET
God match me with a good dancer!
BALTHASAR
Amen.
MARGARET
And God keep him out of my sight when the dance is
done! Answer, clerk.
BALTHASAR
No more words: the clerk is answered.
URSULA
I know you well enough; you are Signior Antonio.
ANTONIO
At a word, I am not.
URSULA
I know you by the waggling of your head.
ANTONIO
To tell you true, I counterfeit him.
URSULA
You could never do him so ill-well, unless you were
the very man. Here’s his dry hand up and down: you
are he, you are he.
ANTONIO
At a word, I am not.
URSULA
Come, come, do you think I do not know you by your
excellent wit? can virtue hide itself? Go to,
mum, you are he: graces will appear, and there’s an
end.
BEATRICE
Will you not tell me who told you so?
BENEDICK
No, you shall pardon me.
BEATRICE
Nor will you not tell me who you are?
BENEDICK
Not now.
BEATRICE
That I was disdainful, and that I had my good wit
out of the ‘Hundred Merry Tales:’–well this was
Signior Benedick that said so.
BENEDICK
What’s he?
BEATRICE
I am sure you know him well enough.
BENEDICK
Not I, believe me.
BEATRICE
Did he never make you laugh?
BENEDICK
I pray you, what is he?
BEATRICE
Why, he is the prince’s jester: a very dull fool;
only his gift is in devising impossible slanders:
none but libertines delight in him; and the
commendation is not in his wit, but in his villany;
for he both pleases men and angers them, and then
they laugh at him and beat him. I am sure he is in
the fleet: I would he had boarded me.
BENEDICK
When I know the gentleman, I’ll tell him what you say.
BEATRICE
Do, do: he’ll but break a comparison or two on me;
which, peradventure not marked or not laughed at,
strikes him into melancholy; and then there’s a
partridge wing saved, for the fool will eat no
supper that night.
Music

We must follow the leaders.
BENEDICK
In every good thing.
BEATRICE
Nay, if they lead to any ill, I will leave them at
the next turning.
Dance. Then exeunt all except DON JOHN, BORACHIO, and CLAUDIO

DON JOHN
Sure my brother is amorous on Hero and hath
withdrawn her father to break with him about it.
The ladies follow her and but one visor remains.
BORACHIO
And that is Claudio: I know him by his bearing.
DON JOHN
Are not you Signior Benedick?
CLAUDIO
You know me well; I am he.
DON JOHN
Signior, you are very near my brother in his love:
he is enamoured on Hero; I pray you, dissuade him
from her: she is no equal for his birth: you may
do the part of an honest man in it.
CLAUDIO
How know you he loves her?
DON JOHN
I heard him swear his affection.
BORACHIO
So did I too; and he swore he would marry her to-night.
DON JOHN
Come, let us to the banquet.
Exeunt DON JOHN and BORACHIO

CLAUDIO
Thus answer I in the name of Benedick,
But hear these ill news with the ears of Claudio.
‘Tis certain so; the prince wooes for himself.
Friendship is constant in all other things
Save in the office and affairs of love:
Therefore, all hearts in love use their own tongues;
Let every eye negotiate for itself
And trust no agent; for beauty is a witch
Against whose charms faith melteth into blood.
This is an accident of hourly proof,
Which I mistrusted not. Farewell, therefore, Hero!
Re-enter BENEDICK

BENEDICK
Count Claudio?
CLAUDIO
Yea, the same.
BENEDICK
Come, will you go with me?
CLAUDIO
Whither?
BENEDICK
Even to the next willow, about your own business,
county. What fashion will you wear the garland of?
about your neck, like an usurer’s chain? or under
your arm, like a lieutenant’s scarf? You must wear
it one way, for the prince hath got your Hero.
CLAUDIO
I wish him joy of her.
BENEDICK
Why, that’s spoken like an honest drovier: so they
sell bullocks. But did you think the prince would
have served you thus?
CLAUDIO
I pray you, leave me.
BENEDICK
Ho! now you strike like the blind man: ’twas the
boy that stole your meat, and you’ll beat the post.
CLAUDIO
If it will not be, I’ll leave you.
Exit

BENEDICK
Alas, poor hurt fowl! now will he creep into sedges.
But that my Lady Beatrice should know me, and not
know me! The prince’s fool! Ha? It may be I go
under that title because I am merry. Yea, but so I
am apt to do myself wrong; I am not so reputed: it
is the base, though bitter, disposition of Beatrice
that puts the world into her person and so gives me
out. Well, I’ll be revenged as I may.
Re-enter DON PEDRO

DON PEDRO
Now, signior, where’s the count? did you see him?
BENEDICK
Troth, my lord, I have played the part of Lady Fame.
I found him here as melancholy as a lodge in a
warren: I told him, and I think I told him true,
that your grace had got the good will of this young
lady; and I offered him my company to a willow-tree,
either to make him a garland, as being forsaken, or
to bind him up a rod, as being worthy to be whipped.
DON PEDRO
To be whipped! What’s his fault?
BENEDICK
The flat transgression of a schoolboy, who, being
overjoyed with finding a birds’ nest, shows it his
companion, and he steals it.
DON PEDRO
Wilt thou make a trust a transgression? The
transgression is in the stealer.
BENEDICK
Yet it had not been amiss the rod had been made,
and the garland too; for the garland he might have
worn himself, and the rod he might have bestowed on
you, who, as I take it, have stolen his birds’ nest.
DON PEDRO
I will but teach them to sing, and restore them to
the owner.
BENEDICK
If their singing answer your saying, by my faith,
you say honestly.
DON PEDRO
The Lady Beatrice hath a quarrel to you: the
gentleman that danced with her told her she is much
wronged by you.
BENEDICK
O, she misused me past the endurance of a block!
an oak but with one green leaf on it would have
answered her; my very visor began to assume life and
scold with her. She told me, not thinking I had been
myself, that I was the prince’s jester, that I was
duller than a great thaw; huddling jest upon jest
with such impossible conveyance upon me that I stood
like a man at a mark, with a whole army shooting at
me. She speaks poniards, and every word stabs:
if her breath were as terrible as her terminations,
there were no living near her; she would infect to
the north star. I would not marry her, though she
were endowed with all that Adam bad left him before
he transgressed: she would have made Hercules have
turned spit, yea, and have cleft his club to make
the fire too. Come, talk not of her: you shall find
her the infernal Ate in good apparel. I would to God
some scholar would conjure her; for certainly, while
she is here, a man may live as quiet in hell as in a
sanctuary; and people sin upon purpose, because they
would go thither; so, indeed, all disquiet, horror
and perturbation follows her.
DON PEDRO
Look, here she comes.
Enter CLAUDIO, BEATRICE, HERO, and LEONATO

BENEDICK
Will your grace command me any service to the
world’s end? I will go on the slightest errand now
to the Antipodes that you can devise to send me on;
I will fetch you a tooth-picker now from the
furthest inch of Asia, bring you the length of
Prester John’s foot, fetch you a hair off the great
Cham’s beard, do you any embassage to the Pigmies,
rather than hold three words’ conference with this
harpy. You have no employment for me?
DON PEDRO
None, but to desire your good company.
BENEDICK
O God, sir, here’s a dish I love not: I cannot
endure my Lady Tongue.
Exit

DON PEDRO
Come, lady, come; you have lost the heart of
Signior Benedick.
BEATRICE
Indeed, my lord, he lent it me awhile; and I gave
him use for it, a double heart for his single one:
marry, once before he won it of me with false dice,
therefore your grace may well say I have lost it.
DON PEDRO
You have put him down, lady, you have put him down.
BEATRICE
So I would not he should do me, my lord, lest I
should prove the mother of fools. I have brought
Count Claudio, whom you sent me to seek.
DON PEDRO
Why, how now, count! wherefore are you sad?
CLAUDIO
Not sad, my lord.
DON PEDRO
How then? sick?
CLAUDIO
Neither, my lord.
BEATRICE
The count is neither sad, nor sick, nor merry, nor
well; but civil count, civil as an orange, and
something of that jealous complexion.
DON PEDRO
I’ faith, lady, I think your blazon to be true;
though, I’ll be sworn, if he be so, his conceit is
false. Here, Claudio, I have wooed in thy name, and
fair Hero is won: I have broke with her father,
and his good will obtained: name the day of
marriage, and God give thee joy!
LEONATO
Count, take of me my daughter, and with her my
fortunes: his grace hath made the match, and an
grace say Amen to it.
BEATRICE
Speak, count, ’tis your cue.
CLAUDIO
Silence is the perfectest herald of joy: I were
but little happy, if I could say how much. Lady, as
you are mine, I am yours: I give away myself for
you and dote upon the exchange.
BEATRICE
Speak, cousin; or, if you cannot, stop his mouth
with a kiss, and let not him speak neither.
DON PEDRO
In faith, lady, you have a merry heart.
BEATRICE
Yea, my lord; I thank it, poor fool, it keeps on
the windy side of care. My cousin tells him in his
ear that he is in her heart.
CLAUDIO
And so she doth, cousin.
BEATRICE
Good Lord, for alliance! Thus goes every one to the
world but I, and I am sunburnt; I may sit in a
corner and cry heigh-ho for a husband!
DON PEDRO
Lady Beatrice, I will get you one.
BEATRICE
I would rather have one of your father’s getting.
Hath your grace ne’er a brother like you? Your
father got excellent husbands, if a maid could come by them.
DON PEDRO
Will you have me, lady?
BEATRICE
No, my lord, unless I might have another for
working-days: your grace is too costly to wear
every day. But, I beseech your grace, pardon me: I
was born to speak all mirth and no matter.
DON PEDRO
Your silence most offends me, and to be merry best
becomes you; for, out of question, you were born in
a merry hour.
BEATRICE
No, sure, my lord, my mother cried; but then there
was a star danced, and under that was I born.
Cousins, God give you joy!
LEONATO
Niece, will you look to those things I told you of?
BEATRICE
I cry you mercy, uncle. By your grace’s pardon.
Exit

DON PEDRO
By my troth, a pleasant-spirited lady.
LEONATO
There’s little of the melancholy element in her, my
lord: she is never sad but when she sleeps, and
not ever sad then; for I have heard my daughter say,
she hath often dreamed of unhappiness and waked
herself with laughing.
DON PEDRO
She cannot endure to hear tell of a husband.
LEONATO
O, by no means: she mocks all her wooers out of suit.
DON PEDRO
She were an excellent wife for Benedict.
LEONATO
O Lord, my lord, if they were but a week married,
they would talk themselves mad.
DON PEDRO
County Claudio, when mean you to go to church?
CLAUDIO
To-morrow, my lord: time goes on crutches till love
have all his rites.
LEONATO
Not till Monday, my dear son, which is hence a just
seven-night; and a time too brief, too, to have all
things answer my mind.
DON PEDRO
Come, you shake the head at so long a breathing:
but, I warrant thee, Claudio, the time shall not go
dully by us. I will in the interim undertake one of
Hercules’ labours; which is, to bring Signior
Benedick and the Lady Beatrice into a mountain of
affection the one with the other. I would fain have
it a match, and I doubt not but to fashion it, if
you three will but minister such assistance as I
shall give you direction.
LEONATO
My lord, I am for you, though it cost me ten
nights’ watchings.
CLAUDIO
And I, my lord.
DON PEDRO
And you too, gentle Hero?
HERO
I will do any modest office, my lord, to help my
cousin to a good husband.
DON PEDRO
And Benedick is not the unhopefullest husband that
I know. Thus far can I praise him; he is of a noble
strain, of approved valour and confirmed honesty. I
will teach you how to humour your cousin, that she
shall fall in love with Benedick; and I, with your
two helps, will so practise on Benedick that, in
despite of his quick wit and his queasy stomach, he
shall fall in love with Beatrice. If we can do this,
Cupid is no longer an archer: hi s glory shall be
ours, for we are the only love-gods. Go in with me,
and I will tell you my drift.
Exeunt

SCENE II. The same.
Enter DON JOHN and BORACHIO
DON JOHN
It is so; the Count Claudio shall marry the
daughter of Leonato.
BORACHIO
Yea, my lord; but I can cross it.
DON JOHN
Any bar, any cross, any impediment will be
medicinable to me: I am sick in displeasure to him,
and whatsoever comes athwart his affection ranges
evenly with mine. How canst thou cross this marriage?
BORACHIO
Not honestly, my lord; but so covertly that no
dishonesty shall appear in me.
DON JOHN
Show me briefly how.
BORACHIO
I think I told your lordship a year since, how much
I am in the favour of Margaret, the waiting
gentlewoman to Hero.
DON JOHN
I remember.
BORACHIO
I can, at any unseasonable instant of the night,
appoint her to look out at her lady’s chamber window.
DON JOHN
What life is in that, to be the death of this marriage?
BORACHIO
The poison of that lies in you to temper. Go you to
the prince your brother; spare not to tell him that
he hath wronged his honour in marrying the renowned
Claudio–whose estimation do you mightily hold
up–to a contaminated stale, such a one as Hero.
DON JOHN
What proof shall I make of that?
BORACHIO
Proof enough to misuse the prince, to vex Claudio,
to undo Hero and kill Leonato. Look you for any
other issue?
DON JOHN
Only to despite them, I will endeavour any thing.
BORACHIO
Go, then; find me a meet hour to draw Don Pedro and
the Count Claudio alone: tell them that you know
that Hero loves me; intend a kind of zeal both to the
prince and Claudio, as,–in love of your brother’s
honour, who hath made this match, and his friend’s
reputation, who is thus like to be cozened with the
semblance of a maid,–that you have discovered
thus. They will scarcely believe this without trial:
offer them instances; which shall bear no less
likelihood than to see me at her chamber-window,
hear me call Margaret Hero, hear Margaret term me
Claudio; and bring them to see this the very night
before the intended wedding,–for in the meantime I
will so fashion the matter that Hero shall be
absent,–and there shall appear such seeming truth
of Hero’s disloyalty that jealousy shall be called
assurance and all the preparation overthrown.
DON JOHN
Grow this to what adverse issue it can, I will put
it in practise. Be cunning in the working this, and
thy fee is a thousand ducats.
BORACHIO
Be you constant in the accusation, and my cunning
shall not shame me.
DON JOHN
I will presently go learn their day of marriage.
Exeunt

SCENE III. LEONATO’S orchard.
Enter BENEDICK
BENEDICK
Boy!
Enter Boy

Boy
Signior?
BENEDICK
In my chamber-window lies a book: bring it hither
to me in the orchard.
Boy
I am here already, sir.
BENEDICK
I know that; but I would have thee hence, and here again.
Exit Boy

I do much wonder that one man, seeing how much
another man is a fool when he dedicates his
behaviors to love, will, after he hath laughed at
such shallow follies in others, become the argument
of his own scorn by failing in love: and such a man
is Claudio. I have known when there was no music
with him but the drum and the fife; and now had he
rather hear the tabour and the pipe: I have known
when he would have walked ten mile a-foot to see a
good armour; and now will he lie ten nights awake,
carving the fashion of a new doublet. He was wont to
speak plain and to the purpose, like an honest man
and a soldier; and now is he turned orthography; his
words are a very fantastical banquet, just so many
strange dishes. May I be so converted and see with
these eyes? I cannot tell; I think not: I will not
be sworn, but love may transform me to an oyster; but
I’ll take my oath on it, till he have made an oyster
of me, he shall never make me such a fool. One woman
is fair, yet I am well; another is wise, yet I am
well; another virtuous, yet I am well; but till all
graces be in one woman, one woman shall not come in
my grace. Rich she shall be, that’s certain; wise,
or I’ll none; virtuous, or I’ll never cheapen her;
fair, or I’ll never look on her; mild, or come not
near me; noble, or not I for an angel; of good
discourse, an excellent musician, and her hair shall
be of what colour it please God. Ha! the prince and
Monsieur Love! I will hide me in the arbour.
Withdraws

Enter DON PEDRO, CLAUDIO, and LEONATO

DON PEDRO
Come, shall we hear this music?
CLAUDIO
Yea, my good lord. How still the evening is,
As hush’d on purpose to grace harmony!
DON PEDRO
See you where Benedick hath hid himself?
CLAUDIO
O, very well, my lord: the music ended,
We’ll fit the kid-fox with a pennyworth.
Enter BALTHASAR with Music

DON PEDRO
Come, Balthasar, we’ll hear that song again.
BALTHASAR
O, good my lord, tax not so bad a voice
To slander music any more than once.
DON PEDRO
It is the witness still of excellency
To put a strange face on his own perfection.
I pray thee, sing, and let me woo no more.
BALTHASAR
Because you talk of wooing, I will sing;
Since many a wooer doth commence his suit
To her he thinks not worthy, yet he wooes,
Yet will he swear he loves.
DON PEDRO
Now, pray thee, come;
Or, if thou wilt hold longer argument,
Do it in notes.
BALTHASAR
Note this before my notes;
There’s not a note of mine that’s worth the noting.
DON PEDRO
Why, these are very crotchets that he speaks;
Note, notes, forsooth, and nothing.
Air

BENEDICK
Now, divine air! now is his soul ravished! Is it
not strange that sheeps’ guts should hale souls out
of men’s bodies? Well, a horn for my money, when
all’s done.
The Song

BALTHASAR
Sigh no more, ladies, sigh no more,
Men were deceivers ever,
One foot in sea and one on shore,
To one thing constant never:
Then sigh not so, but let them go,
And be you blithe and bonny,
Converting all your sounds of woe
Into Hey nonny, nonny.
Sing no more ditties, sing no moe,
Of dumps so dull and heavy;
The fraud of men was ever so,
Since summer first was leafy:
Then sigh not so, & c.
DON PEDRO
By my troth, a good song.
BALTHASAR
And an ill singer, my lord.
DON PEDRO
Ha, no, no, faith; thou singest well enough for a shift.
BENEDICK
An he had been a dog that should have howled thus,
they would have hanged him: and I pray God his bad
voice bode no mischief. I had as lief have heard the
night-raven, come what plague could have come after
it.
DON PEDRO
Yea, marry, dost thou hear, Balthasar? I pray thee,
get us some excellent music; for to-morrow night we
would have it at the Lady Hero’s chamber-window.
BALTHASAR
The best I can, my lord.
DON PEDRO
Do so: farewell.
Exit BALTHASAR

Come hither, Leonato. What was it you told me of
to-day, that your niece Beatrice was in love with
Signior Benedick?
CLAUDIO
O, ay: stalk on. stalk on; the fowl sits. I did
never think that lady would have loved any man.
LEONATO
No, nor I neither; but most wonderful that she
should so dote on Signior Benedick, whom she hath in
all outward behaviors seemed ever to abhor.
BENEDICK
Is’t possible? Sits the wind in that corner?
LEONATO
By my troth, my lord, I cannot tell what to think
of it but that she loves him with an enraged
affection: it is past the infinite of thought.
DON PEDRO
May be she doth but counterfeit.
CLAUDIO
Faith, like enough.
LEONATO
O God, counterfeit! There was never counterfeit of
passion came so near the life of passion as she
discovers it.
DON PEDRO
Why, what effects of passion shows she?
CLAUDIO
Bait the hook well; this fish will bite.
LEONATO
What effects, my lord? She will sit you, you heard
my daughter tell you how.
CLAUDIO
She did, indeed.
DON PEDRO
How, how, pray you? You amaze me: I would have I
thought her spirit had been invincible against all
assaults of affection.
LEONATO
I would have sworn it had, my lord; especially
against Benedick.
BENEDICK
I should think this a gull, but that the
white-bearded fellow speaks it: knavery cannot,
sure, hide himself in such reverence.
CLAUDIO
He hath ta’en the infection: hold it up.
DON PEDRO
Hath she made her affection known to Benedick?
LEONATO
No; and swears she never will: that’s her torment.
CLAUDIO
‘Tis true, indeed; so your daughter says: ‘Shall
I,’ says she, ‘that have so oft encountered him
with scorn, write to him that I love him?’
LEONATO
This says she now when she is beginning to write to
him; for she’ll be up twenty times a night, and
there will she sit in her smock till she have writ a
sheet of paper: my daughter tells us all.
CLAUDIO
Now you talk of a sheet of paper, I remember a
pretty jest your daughter told us of.
LEONATO
O, when she had writ it and was reading it over, she
found Benedick and Beatrice between the sheet?
CLAUDIO
That.
LEONATO
O, she tore the letter into a thousand halfpence;
railed at herself, that she should be so immodest
to write to one that she knew would flout her; ‘I
measure him,’ says she, ‘by my own spirit; for I
should flout him, if he writ to me; yea, though I
love him, I should.’
CLAUDIO
Then down upon her knees she falls, weeps, sobs,
beats her heart, tears her hair, prays, curses; ‘O
sweet Benedick! God give me patience!’
LEONATO
She doth indeed; my daughter says so: and the
ecstasy hath so much overborne her that my daughter
is sometime afeared she will do a desperate outrage
to herself: it is very true.
DON PEDRO
It were good that Benedick knew of it by some
other, if she will not discover it.
CLAUDIO
To what end? He would make but a sport of it and
torment the poor lady worse.
DON PEDRO
An he should, it were an alms to hang him. She’s an
excellent sweet lady; and, out of all suspicion,
she is virtuous.
CLAUDIO
And she is exceeding wise.
DON PEDRO
In every thing but in loving Benedick.
LEONATO
O, my lord, wisdom and blood combating in so tender
a body, we have ten proofs to one that blood hath
the victory. I am sorry for her, as I have just
cause, being her uncle and her guardian.
DON PEDRO
I would she had bestowed this dotage on me: I would
have daffed all other respects and made her half
myself. I pray you, tell Benedick of it, and hear
what a’ will say.
LEONATO
Were it good, think you?
CLAUDIO
Hero thinks surely she will die; for she says she
will die, if he love her not, and she will die, ere
she make her love known, and she will die, if he woo
her, rather than she will bate one breath of her
accustomed crossness.
DON PEDRO
She doth well: if she should make tender of her
love, ’tis very possible he’ll scorn it; for the
man, as you know all, hath a contemptible spirit.
CLAUDIO
He is a very proper man.
DON PEDRO
He hath indeed a good outward happiness.
CLAUDIO
Before God! and, in my mind, very wise.
DON PEDRO
He doth indeed show some sparks that are like wit.
CLAUDIO
And I take him to be valiant.
DON PEDRO
As Hector, I assure you: and in the managing of
quarrels you may say he is wise; for either he
avoids them with great discretion, or undertakes
them with a most Christian-like fear.
LEONATO
If he do fear God, a’ must necessarily keep peace:
if he break the peace, he ought to enter into a
quarrel with fear and trembling.
DON PEDRO
And so will he do; for the man doth fear God,
howsoever it seems not in him by some large jests
he will make. Well I am sorry for your niece. Shall
we go seek Benedick, and tell him of her love?
CLAUDIO
Never tell him, my lord: let her wear it out with
good counsel.
LEONATO
Nay, that’s impossible: she may wear her heart out first.
DON PEDRO
Well, we will hear further of it by your daughter:
let it cool the while. I love Benedick well; and I
could wish he would modestly examine himself, to see
how much he is unworthy so good a lady.
LEONATO
My lord, will you walk? dinner is ready.
CLAUDIO
If he do not dote on her upon this, I will never
trust my expectation.
DON PEDRO
Let there be the same net spread for her; and that
must your daughter and her gentlewomen carry. The
sport will be, when they hold one an opinion of
another’s dotage, and no such matter: that’s the
scene that I would see, which will be merely a
dumb-show. Let us send her to call him in to dinner.
Exeunt DON PEDRO, CLAUDIO, and LEONATO

BENEDICK
[Coming forward] This can be no trick: the
conference was sadly borne. They have the truth of
this from Hero. They seem to pity the lady: it
seems her affections have their full bent. Love me!
why, it must be requited. I hear how I am censured:
they say I will bear myself proudly, if I perceive
the love come from her; they say too that she will
rather die than give any sign of affection. I did
never think to marry: I must not seem proud: happy
are they that hear their detractions and can put
them to mending. They say the lady is fair; ’tis a
truth, I can bear them witness; and virtuous; ’tis
so, I cannot reprove it; and wise, but for loving
me; by my troth, it is no addition to her wit, nor
no great argument of her folly, for I will be
horribly in love with her. I may chance have some
odd quirks and remnants of wit broken on me,
because I have railed so long against marriage: but
doth not the appetite alter? a man loves the meat
in his youth that he cannot endure in his age.
Shall quips and sentences and these paper bullets of
the brain awe a man from the career of his humour?
No, the world must be peopled. When I said I would
die a bachelor, I did not think I should live till I
were married. Here comes Beatrice. By this day!
she’s a fair lady: I do spy some marks of love in
her.
Enter BEATRICE

BEATRICE
Against my will I am sent to bid you come in to dinner.
BENEDICK
Fair Beatrice, I thank you for your pains.
BEATRICE
I took no more pains for those thanks than you take
pains to thank me: if it had been painful, I would
not have come.
BENEDICK
You take pleasure then in the message?
BEATRICE
Yea, just so much as you may take upon a knife’s
point and choke a daw withal. You have no stomach,
signior: fare you well.
Exit

BENEDICK
Ha! ‘Against my will I am sent to bid you come in
to dinner;’ there’s a double meaning in that ‘I took
no more pains for those thanks than you took pains
to thank me.’ that’s as much as to say, Any pains
that I take for you is as easy as thanks. If I do
not take pity of her, I am a villain; if I do not
love her, I am a Jew. I will go get her picture.
Exit

ACT III
SCENE I. LEONATO’S garden.
Enter HERO, MARGARET, and URSULA
HERO
Good Margaret, run thee to the parlor;
There shalt thou find my cousin Beatrice
Proposing with the prince and Claudio:
Whisper her ear and tell her, I and Ursula
Walk in the orchard and our whole discourse
Is all of her; say that thou overheard’st us;
And bid her steal into the pleached bower,
Where honeysuckles, ripen’d by the sun,
Forbid the sun to enter, like favourites,
Made proud by princes, that advance their pride
Against that power that bred it: there will she hide her,
To listen our purpose. This is thy office;
Bear thee well in it and leave us alone.
MARGARET
I’ll make her come, I warrant you, presently.
Exit

HERO
Now, Ursula, when Beatrice doth come,
As we do trace this alley up and down,
Our talk must only be of Benedick.
When I do name him, let it be thy part
To praise him more than ever man did merit:
My talk to thee must be how Benedick
Is sick in love with Beatrice. Of this matter
Is little Cupid’s crafty arrow made,
That only wounds by hearsay.
Enter BEATRICE, behind

Now begin;
For look where Beatrice, like a lapwing, runs
Close by the ground, to hear our conference.
URSULA
The pleasant’st angling is to see the fish
Cut with her golden oars the silver stream,
And greedily devour the treacherous bait:
So angle we for Beatrice; who even now
Is couched in the woodbine coverture.
Fear you not my part of the dialogue.
HERO
Then go we near her, that her ear lose nothing
Of the false sweet bait that we lay for it.
Approaching the bower

No, truly, Ursula, she is too disdainful;
I know her spirits are as coy and wild
As haggerds of the rock.
URSULA
But are you sure
That Benedick loves Beatrice so entirely?
HERO
So says the prince and my new-trothed lord.
URSULA
And did they bid you tell her of it, madam?
HERO
They did entreat me to acquaint her of it;
But I persuaded them, if they loved Benedick,
To wish him wrestle with affection,
And never to let Beatrice know of it.
URSULA
Why did you so? Doth not the gentleman
Deserve as full as fortunate a bed
As ever Beatrice shall couch upon?
HERO
O god of love! I know he doth deserve
As much as may be yielded to a man:
But Nature never framed a woman’s heart
Of prouder stuff than that of Beatrice;
Disdain and scorn ride sparkling in her eyes,
Misprising what they look on, and her wit
Values itself so highly that to her
All matter else seems weak: she cannot love,
Nor take no shape nor project of affection,
She is so self-endeared.
URSULA
Sure, I think so;
And therefore certainly it were not good
She knew his love, lest she make sport at it.
HERO
Why, you speak truth. I never yet saw man,
How wise, how noble, young, how rarely featured,
But she would spell him backward: if fair-faced,
She would swear the gentleman should be her sister;
If black, why, Nature, drawing of an antique,
Made a foul blot; if tall, a lance ill-headed;
If low, an agate very vilely cut;
If speaking, why, a vane blown with all winds;
If silent, why, a block moved with none.
So turns she every man the wrong side out
And never gives to truth and virtue that
Which simpleness and merit purchaseth.
URSULA
Sure, sure, such carping is not commendable.
HERO
No, not to be so odd and from all fashions
As Beatrice is, cannot be commendable:
But who dare tell her so? If I should speak,
She would mock me into air; O, she would laugh me
Out of myself, press me to death with wit.
Therefore let Benedick, like cover’d fire,
Consume away in sighs, waste inwardly:
It were a better death than die with mocks,
Which is as bad as die with tickling.
URSULA
Yet tell her of it: hear what she will say.
HERO
No; rather I will go to Benedick
And counsel him to fight against his passion.
And, truly, I’ll devise some honest slanders
To stain my cousin with: one doth not know
How much an ill word may empoison liking.
URSULA
O, do not do your cousin such a wrong.
She cannot be so much without true judgment–
Having so swift and excellent a wit
As she is prized to have–as to refuse
So rare a gentleman as Signior Benedick.
HERO
He is the only man of Italy.
Always excepted my dear Claudio.
URSULA
I pray you, be not angry with me, madam,
Speaking my fancy: Signior Benedick,
For shape, for bearing, argument and valour,
Goes foremost in report through Italy.
HERO
Indeed, he hath an excellent good name.
URSULA
His excellence did earn it, ere he had it.
When are you married, madam?
HERO
Why, every day, to-morrow. Come, go in:
I’ll show thee some attires, and have thy counsel
Which is the best to furnish me to-morrow.
URSULA
She’s limed, I warrant you: we have caught her, madam.
HERO
If it proves so, then loving goes by haps:
Some Cupid kills with arrows, some with traps.
Exeunt HERO and URSULA

BEATRICE
[Coming forward]
What fire is in mine ears? Can this be true?
Stand I condemn’d for pride and scorn so much?
Contempt, farewell! and maiden pride, adieu!
No glory lives behind the back of such.
And, Benedick, love on; I will requite thee,
Taming my wild heart to thy loving hand:
If thou dost love, my kindness shall incite thee
To bind our loves up in a holy band;
For others say thou dost deserve, and I
Believe it better than reportingly.
Exit

SCENE II. A room in LEONATO’S house
Enter DON PEDRO, CLAUDIO, BENEDICK, and LEONATO
DON PEDRO
I do but stay till your marriage be consummate, and
then go I toward Arragon.
CLAUDIO
I’ll bring you thither, my lord, if you’ll
vouchsafe me.
DON PEDRO
Nay, that would be as great a soil in the new gloss
of your marriage as to show a child his new coat
and forbid him to wear it. I will only be bold
with Benedick for his company; for, from the crown
of his head to the sole of his foot, he is all
mirth: he hath twice or thrice cut Cupid’s
bow-string and the little hangman dare not shoot at
him; he hath a heart as sound as a bell and his
tongue is the clapper, for what his heart thinks his
tongue speaks.
BENEDICK
Gallants, I am not as I have been.
LEONATO
So say I methinks you are sadder.
CLAUDIO
I hope he be in love.
DON PEDRO
Hang him, truant! there’s no true drop of blood in
him, to be truly touched with love: if he be sad,
he wants money.
BENEDICK
I have the toothache.
DON PEDRO
Draw it.
BENEDICK
Hang it!
CLAUDIO
You must hang it first, and draw it afterwards.
DON PEDRO
What! sigh for the toothache?
LEONATO
Where is but a humour or a worm.
BENEDICK
Well, every one can master a grief but he that has
it.
CLAUDIO
Yet say I, he is in love.
DON PEDRO
There is no appearance of fancy in him, unless it be
a fancy that he hath to strange disguises; as, to be
a Dutchman today, a Frenchman to-morrow, or in the
shape of two countries at once, as, a German from
the waist downward, all slops, and a Spaniard from
the hip upward, no doublet. Unless he have a fancy
to this foolery, as it appears he hath, he is no
fool for fancy, as you would have it appear he is.
CLAUDIO
If he be not in love with some woman, there is no
believing old signs: a’ brushes his hat o’
mornings; what should that bode?
DON PEDRO
Hath any man seen him at the barber’s?
CLAUDIO
No, but the barber’s man hath been seen with him,
and the old ornament of his cheek hath already
stuffed tennis-balls.
LEONATO
Indeed, he looks younger than he did, by the loss of a beard.
DON PEDRO
Nay, a’ rubs himself with civet: can you smell him
out by that?
CLAUDIO
That’s as much as to say, the sweet youth’s in love.
DON PEDRO
The greatest note of it is his melancholy.
CLAUDIO
And when was he wont to wash his face?
DON PEDRO
Yea, or to paint himself? for the which, I hear
what they say of him.
CLAUDIO
Nay, but his jesting spirit; which is now crept into
a lute-string and now governed by stops.
DON PEDRO
Indeed, that tells a heavy tale for him: conclude,
conclude he is in love.
CLAUDIO
Nay, but I know who loves him.
DON PEDRO
That would I know too: I warrant, one that knows him not.
CLAUDIO
Yes, and his ill conditions; and, in despite of
all, dies for him.
DON PEDRO
She shall be buried with her face upwards.
BENEDICK
Yet is this no charm for the toothache. Old
signior, walk aside with me: I have studied eight
or nine wise words to speak to you, which these
hobby-horses must not hear.
Exeunt BENEDICK and LEONATO

DON PEDRO
For my life, to break with him about Beatrice.
CLAUDIO
‘Tis even so. Hero and Margaret have by this
played their parts with Beatrice; and then the two
bears will not bite one another when they meet.
Enter DON JOHN

DON JOHN
My lord and brother, God save you!
DON PEDRO
Good den, brother.
DON JOHN
If your leisure served, I would speak with you.
DON PEDRO
In private?
DON JOHN
If it please you: yet Count Claudio may hear; for
what I would speak of concerns him.
DON PEDRO
What’s the matter?
DON JOHN
[To CLAUDIO] Means your lordship to be married
to-morrow?
DON PEDRO
You know he does.
DON JOHN
I know not that, when he knows what I know.
CLAUDIO
If there be any impediment, I pray you discover it.
DON JOHN
You may think I love you not: let that appear
hereafter, and aim better at me by that I now will
manifest. For my brother, I think he holds you
well, and in dearness of heart hath holp to effect
your ensuing marriage;–surely suit ill spent and
labour ill bestowed.
DON PEDRO
Why, what’s the matter?
DON JOHN
I came hither to tell you; and, circumstances
shortened, for she has been too long a talking of,
the lady is disloyal.
CLAUDIO
Who, Hero?
DON PEDRO
Even she; Leonato’s Hero, your Hero, every man’s Hero:
CLAUDIO
Disloyal?
DON JOHN
The word is too good to paint out her wickedness; I
could say she were worse: think you of a worse
title, and I will fit her to it. Wonder not till
further warrant: go but with me to-night, you shall
see her chamber-window entered, even the night
before her wedding-day: if you love her then,
to-morrow wed her; but it would better fit your honour
to change your mind.
CLAUDIO
May this be so?
DON PEDRO
I will not think it.
DON JOHN
If you dare not trust that you see, confess not
that you know: if you will follow me, I will show
you enough; and when you have seen more and heard
more, proceed accordingly.
CLAUDIO
If I see any thing to-night why I should not marry
her to-morrow in the congregation, where I should
wed, there will I shame her.
DON PEDRO
And, as I wooed for thee to obtain her, I will join
with thee to disgrace her.
DON JOHN
I will disparage her no farther till you are my
witnesses: bear it coldly but till midnight, and
let the issue show itself.
DON PEDRO
O day untowardly turned!
CLAUDIO
O mischief strangely thwarting!
DON JOHN
O plague right well prevented! so will you say when
you have seen the sequel.
Exeunt

SCENE III. A street.
Enter DOGBERRY and VERGES with the Watch
DOGBERRY
Are you good men and true?
VERGES
Yea, or else it were pity but they should suffer
salvation, body and soul.
DOGBERRY
Nay, that were a punishment too good for them, if
they should have any allegiance in them, being
chosen for the prince’s watch.
VERGES
Well, give them their charge, neighbour Dogberry.
DOGBERRY
First, who think you the most desertless man to be
constable?
First Watchman
Hugh Otecake, sir, or George Seacole; for they can
write and read.
DOGBERRY
Come hither, neighbour Seacole. God hath blessed
you with a good name: to be a well-favoured man is
the gift of fortune; but to write and read comes by nature.
Second Watchman
Both which, master constable,–
DOGBERRY
You have: I knew it would be your answer. Well,
for your favour, sir, why, give God thanks, and make
no boast of it; and for your writing and reading,
let that appear when there is no need of such
vanity. You are thought here to be the most
senseless and fit man for the constable of the
watch; therefore bear you the lantern. This is your
charge: you shall comprehend all vagrom men; you are
to bid any man stand, in the prince’s name.
Second Watchman
How if a’ will not stand?
DOGBERRY
Why, then, take no note of him, but let him go; and
presently call the rest of the watch together and
thank God you are rid of a knave.
VERGES
If he will not stand when he is bidden, he is none
of the prince’s subjects.
DOGBERRY
True, and they are to meddle with none but the
prince’s subjects. You shall also make no noise in
the streets; for, for the watch to babble and to
talk is most tolerable and not to be endured.
Watchman
We will rather sleep than talk: we know what
belongs to a watch.
DOGBERRY
Why, you speak like an ancient and most quiet
watchman; for I cannot see how sleeping should
offend: only, have a care that your bills be not
stolen. Well, you are to call at all the
ale-houses, and bid those that are drunk get them to bed.
Watchman
How if they will not?
DOGBERRY
Why, then, let them alone till they are sober: if
they make you not then the better answer, you may
say they are not the men you took them for.
Watchman
Well, sir.
DOGBERRY
If you meet a thief, you may suspect him, by virtue
of your office, to be no true man; and, for such
kind of men, the less you meddle or make with them,
why the more is for your honesty.
Watchman
If we know him to be a thief, shall we not lay
hands on him?
DOGBERRY
Truly, by your office, you may; but I think they
that touch pitch will be defiled: the most peaceable
way for you, if you do take a thief, is to let him
show himself what he is and steal out of your company.
VERGES
You have been always called a merciful man, partner.
DOGBERRY
Truly, I would not hang a dog by my will, much more
a man who hath any honesty in him.
VERGES
If you hear a child cry in the night, you must call
to the nurse and bid her still it.
Watchman
How if the nurse be asleep and will not hear us?
DOGBERRY
Why, then, depart in peace, and let the child wake
her with crying; for the ewe that will not hear her
lamb when it baes will never answer a calf when he bleats.
VERGES
‘Tis very true.
DOGBERRY
This is the end of the charge:–you, constable, are
to present the prince’s own person: if you meet the
prince in the night, you may stay him.
VERGES
Nay, by’r our lady, that I think a’ cannot.
DOGBERRY
Five shillings to one on’t, with any man that knows
the statutes, he may stay him: marry, not without
the prince be willing; for, indeed, the watch ought
to offend no man; and it is an offence to stay a
man against his will.
VERGES
By’r lady, I think it be so.
DOGBERRY
Ha, ha, ha! Well, masters, good night: an there be
any matter of weight chances, call up me: keep your
fellows’ counsels and your own; and good night.
Come, neighbour.
Watchman
Well, masters, we hear our charge: let us go sit here
upon the church-bench till two, and then all to bed.
DOGBERRY
One word more, honest neighbours. I pray you watch
about Signior Leonato’s door; for the wedding being
there to-morrow, there is a great coil to-night.
Adieu: be vigitant, I beseech you.
Exeunt DOGBERRY and VERGES

Enter BORACHIO and CONRADE

BORACHIO
What Conrade!
Watchman
[Aside] Peace! stir not.
BORACHIO
Conrade, I say!
CONRADE
Here, man; I am at thy elbow.
BORACHIO
Mass, and my elbow itched; I thought there would a
scab follow.
CONRADE
I will owe thee an answer for that: and now forward
with thy tale.
BORACHIO
Stand thee close, then, under this pent-house, for
it drizzles rain; and I will, like a true drunkard,
utter all to thee.
Watchman
[Aside] Some treason, masters: yet stand close.
BORACHIO
Therefore know I have earned of Don John a thousand ducats.
CONRADE
Is it possible that any villany should be so dear?
BORACHIO
Thou shouldst rather ask if it were possible any
villany should be so rich; for when rich villains
have need of poor ones, poor ones may make what
price they will.
CONRADE
I wonder at it.
BORACHIO
That shows thou art unconfirmed. Thou knowest that
the fashion of a doublet, or a hat, or a cloak, is
nothing to a man.
CONRADE
Yes, it is apparel.
BORACHIO
I mean, the fashion.
CONRADE
Yes, the fashion is the fashion.
BORACHIO
Tush! I may as well say the fool’s the fool. But
seest thou not what a deformed thief this fashion
is?
Watchman
[Aside] I know that Deformed; a’ has been a vile
thief this seven year; a’ goes up and down like a
gentleman: I remember his name.
BORACHIO
Didst thou not hear somebody?
CONRADE
No; ’twas the vane on the house.
BORACHIO
Seest thou not, I say, what a deformed thief this
fashion is? how giddily a’ turns about all the hot
bloods between fourteen and five-and-thirty?
sometimes fashioning them like Pharaoh’s soldiers
in the reeky painting, sometime like god Bel’s
priests in the old church-window, sometime like the
shaven Hercules in the smirched worm-eaten tapestry,
where his codpiece seems as massy as his club?
CONRADE
All this I see; and I see that the fashion wears
out more apparel than the man. But art not thou
thyself giddy with the fashion too, that thou hast
shifted out of thy tale into telling me of the fashion?
BORACHIO
Not so, neither: but know that I have to-night
wooed Margaret, the Lady Hero’s gentlewoman, by the
name of Hero: she leans me out at her mistress’
chamber-window, bids me a thousand times good
night,–I tell this tale vilely:–I should first
tell thee how the prince, Claudio and my master,
planted and placed and possessed by my master Don
John, saw afar off in the orchard this amiable encounter.
CONRADE
And thought they Margaret was Hero?
BORACHIO
Two of them did, the prince and Claudio; but the
devil my master knew she was Margaret; and partly
by his oaths, which first possessed them, partly by
the dark night, which did deceive them, but chiefly
by my villany, which did confirm any slander that
Don John had made, away went Claudio enraged; swore
he would meet her, as he was appointed, next morning
at the temple, and there, before the whole
congregation, shame her with what he saw o’er night
and send her home again without a husband.
First Watchman
We charge you, in the prince’s name, stand!
Second Watchman
Call up the right master constable. We have here
recovered the most dangerous piece of lechery that
ever was known in the commonwealth.
First Watchman
And one Deformed is one of them: I know him; a’
wears a lock.
CONRADE
Masters, masters,–
Second Watchman
You’ll be made bring Deformed forth, I warrant you.
CONRADE
Masters,–
First Watchman
Never speak: we charge you let us obey you to go with us.
BORACHIO
We are like to prove a goodly commodity, being taken
up of these men’s bills.
CONRADE
A commodity in question, I warrant you. Come, we’ll obey you.
Exeunt

SCENE IV. HERO’s apartment.
Enter HERO, MARGARET, and URSULA
HERO
Good Ursula, wake my cousin Beatrice, and desire
her to rise.
URSULA
I will, lady.
HERO
And bid her come hither.
URSULA
Well.
Exit

MARGARET
Troth, I think your other rabato were better.
HERO
No, pray thee, good Meg, I’ll wear this.
MARGARET
By my troth, ‘s not so good; and I warrant your
cousin will say so.
HERO
My cousin’s a fool, and thou art another: I’ll wear
none but this.
MARGARET
I like the new tire within excellently, if the hair
were a thought browner; and your gown’s a most rare
fashion, i’ faith. I saw the Duchess of Milan’s
gown that they praise so.
HERO
O, that exceeds, they say.
MARGARET
By my troth, ‘s but a night-gown in respect of
yours: cloth o’ gold, and cuts, and laced with
silver, set with pearls, down sleeves, side sleeves,
and skirts, round underborne with a bluish tinsel:
but for a fine, quaint, graceful and excellent
fashion, yours is worth ten on ‘t.
HERO
God give me joy to wear it! for my heart is
exceeding heavy.
MARGARET
‘Twill be heavier soon by the weight of a man.
HERO
Fie upon thee! art not ashamed?
MARGARET
Of what, lady? of speaking honourably? Is not
marriage honourable in a beggar? Is not your lord
honourable without marriage? I think you would have
me say, ‘saving your reverence, a husband:’ and bad
thinking do not wrest true speaking, I’ll offend
nobody: is there any harm in ‘the heavier for a
husband’? None, I think, and it be the right husband
and the right wife; otherwise ’tis light, and not
heavy: ask my Lady Beatrice else; here she comes.
Enter BEATRICE

HERO
Good morrow, coz.
BEATRICE
Good morrow, sweet Hero.
HERO
Why how now? do you speak in the sick tune?
BEATRICE
I am out of all other tune, methinks.
MARGARET
Clap’s into ‘Light o’ love;’ that goes without a
burden: do you sing it, and I’ll dance it.
BEATRICE
Ye light o’ love, with your heels! then, if your
husband have stables enough, you’ll see he shall
lack no barns.
MARGARET
O illegitimate construction! I scorn that with my heels.
BEATRICE
‘Tis almost five o’clock, cousin; tis time you were
ready. By my troth, I am exceeding ill: heigh-ho!
MARGARET
For a hawk, a horse, or a husband?
BEATRICE
For the letter that begins them all, H.
MARGARET
Well, and you be not turned Turk, there’s no more
sailing by the star.
BEATRICE
What means the fool, trow?
MARGARET
Nothing I; but God send every one their heart’s desire!
HERO
These gloves the count sent me; they are an
excellent perfume.
BEATRICE
I am stuffed, cousin; I cannot smell.
MARGARET
A maid, and stuffed! there’s goodly catching of cold.
BEATRICE
O, God help me! God help me! how long have you
professed apprehension?
MARGARET
Even since you left it. Doth not my wit become me rarely?
BEATRICE
It is not seen enough, you should wear it in your
cap. By my troth, I am sick.
MARGARET
Get you some of this distilled Carduus Benedictus,
and lay it to your heart: it is the only thing for a qualm.
HERO
There thou prickest her with a thistle.
BEATRICE
Benedictus! why Benedictus? you have some moral in
this Benedictus.
MARGARET
Moral! no, by my troth, I have no moral meaning; I
meant, plain holy-thistle. You may think perchance
that I think you are in love: nay, by’r lady, I am
not such a fool to think what I list, nor I list
not to think what I can, nor indeed I cannot think,
if I would think my heart out of thinking, that you
are in love or that you will be in love or that you
can be in love. Yet Benedick was such another, and
now is he become a man: he swore he would never
marry, and yet now, in despite of his heart, he eats
his meat without grudging: and how you may be
converted I know not, but methinks you look with
your eyes as other women do.
BEATRICE
What pace is this that thy tongue keeps?
MARGARET
Not a false gallop.
Re-enter URSULA

URSULA
Madam, withdraw: the prince, the count, Signior
Benedick, Don John, and all the gallants of the
town, are come to fetch you to church.
HERO
Help to dress me, good coz, good Meg, good Ursula.
Exeunt

SCENE V. Another room in LEONATO’S house.
Enter LEONATO, with DOGBERRY and VERGES
LEONATO
What would you with me, honest neighbour?
DOGBERRY
Marry, sir, I would have some confidence with you
that decerns you nearly.
LEONATO
Brief, I pray you; for you see it is a busy time with me.
DOGBERRY
Marry, this it is, sir.
VERGES
Yes, in truth it is, sir.
LEONATO
What is it, my good friends?
DOGBERRY
Goodman Verges, sir, speaks a little off the
matter: an old man, sir, and his wits are not so
blunt as, God help, I would desire they were; but,
in faith, honest as the skin between his brows.
VERGES
Yes, I thank God I am as honest as any man living
that is an old man and no honester than I.
DOGBERRY
Comparisons are odorous: palabras, neighbour Verges.
LEONATO
Neighbours, you are tedious.
DOGBERRY
It pleases your worship to say so, but we are the
poor duke’s officers; but truly, for mine own part,
if I were as tedious as a king, I could find it in
my heart to bestow it all of your worship.
LEONATO
All thy tediousness on me, ah?
DOGBERRY
Yea, an ’twere a thousand pound more than ’tis; for
I hear as good exclamation on your worship as of any
man in the city; and though I be but a poor man, I
am glad to hear it.
VERGES
And so am I.
LEONATO
I would fain know what you have to say.
VERGES
Marry, sir, our watch to-night, excepting your
worship’s presence, ha’ ta’en a couple of as arrant
knaves as any in Messina.
DOGBERRY
A good old man, sir; he will be talking: as they
say, when the age is in, the wit is out: God help
us! it is a world to see. Well said, i’ faith,
neighbour Verges: well, God’s a good man; an two men
ride of a horse, one must ride behind. An honest
soul, i’ faith, sir; by my troth he is, as ever
broke bread; but God is to be worshipped; all men
are not alike; alas, good neighbour!
LEONATO
Indeed, neighbour, he comes too short of you.
DOGBERRY
Gifts that God gives.
LEONATO
I must leave you.
DOGBERRY
One word, sir: our watch, sir, have indeed
comprehended two aspicious persons, and we would
have them this morning examined before your worship.
LEONATO
Take their examination yourself and bring it me: I
am now in great haste, as it may appear unto you.
DOGBERRY
It shall be suffigance.
LEONATO
Drink some wine ere you go: fare you well.
Enter a Messenger

Messenger
My lord, they stay for you to give your daughter to
her husband.
LEONATO
I’ll wait upon them: I am ready.
Exeunt LEONATO and Messenger

DOGBERRY
Go, good partner, go, get you to Francis Seacole;
bid him bring his pen and inkhorn to the gaol: we
are now to examination these men.
VERGES
And we must do it wisely.
DOGBERRY
We will spare for no wit, I warrant you; here’s
that shall drive some of them to a non-come: only
get the learned writer to set down our
excommunication and meet me at the gaol.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. A church.
Enter DON PEDRO, DON JOHN, LEONATO, FRIAR FRANCIS, CLAUDIO, BENEDICK, HERO, BEATRICE, and Attendants
LEONATO
Come, Friar Francis, be brief; only to the plain
form of marriage, and you shall recount their
particular duties afterwards.
FRIAR FRANCIS
You come hither, my lord, to marry this lady.
CLAUDIO
No.
LEONATO
To be married to her: friar, you come to marry her.
FRIAR FRANCIS
Lady, you come hither to be married to this count.
HERO
I do.
FRIAR FRANCIS
If either of you know any inward impediment why you
should not be conjoined, charge you, on your souls,
to utter it.
CLAUDIO
Know you any, Hero?
HERO
None, my lord.
FRIAR FRANCIS
Know you any, count?
LEONATO
I dare make his answer, none.
CLAUDIO
O, what men dare do! what men may do! what men daily
do, not knowing what they do!
BENEDICK
How now! interjections? Why, then, some be of
laughing, as, ah, ha, he!
CLAUDIO
Stand thee by, friar. Father, by your leave:
Will you with free and unconstrained soul
Give me this maid, your daughter?
LEONATO
As freely, son, as God did give her me.
CLAUDIO
And what have I to give you back, whose worth
May counterpoise this rich and precious gift?
DON PEDRO
Nothing, unless you render her again.
CLAUDIO
Sweet prince, you learn me noble thankfulness.
There, Leonato, take her back again:
Give not this rotten orange to your friend;
She’s but the sign and semblance of her honour.
Behold how like a maid she blushes here!
O, what authority and show of truth
Can cunning sin cover itself withal!
Comes not that blood as modest evidence
To witness simple virtue? Would you not swear,
All you that see her, that she were a maid,
By these exterior shows? But she is none:
She knows the heat of a luxurious bed;
Her blush is guiltiness, not modesty.
LEONATO
What do you mean, my lord?
CLAUDIO
Not to be married,
Not to knit my soul to an approved wanton.
LEONATO
Dear my lord, if you, in your own proof,
Have vanquish’d the resistance of her youth,
And made defeat of her virginity,–
CLAUDIO
I know what you would say: if I have known her,
You will say she did embrace me as a husband,
And so extenuate the ‘forehand sin:
No, Leonato,
I never tempted her with word too large;
But, as a brother to his sister, show’d
Bashful sincerity and comely love.
HERO
And seem’d I ever otherwise to you?
CLAUDIO
Out on thee! Seeming! I will write against it:
You seem to me as Dian in her orb,
As chaste as is the bud ere it be blown;
But you are more intemperate in your blood
Than Venus, or those pamper’d animals
That rage in savage sensuality.
HERO
Is my lord well, that he doth speak so wide?
LEONATO
Sweet prince, why speak not you?
DON PEDRO
What should I speak?
I stand dishonour’d, that have gone about
To link my dear friend to a common stale.
LEONATO
Are these things spoken, or do I but dream?
DON JOHN
Sir, they are spoken, and these things are true.
BENEDICK
This looks not like a nuptial.
HERO
True! O God!
CLAUDIO
Leonato, stand I here?
Is this the prince? is this the prince’s brother?
Is this face Hero’s? are our eyes our own?
LEONATO
All this is so: but what of this, my lord?
CLAUDIO
Let me but move one question to your daughter;
And, by that fatherly and kindly power
That you have in her, bid her answer truly.
LEONATO
I charge thee do so, as thou art my child.
HERO
O, God defend me! how am I beset!
What kind of catechising call you this?
CLAUDIO
To make you answer truly to your name.
HERO
Is it not Hero? Who can blot that name
With any just reproach?
CLAUDIO
Marry, that can Hero;
Hero itself can blot out Hero’s virtue.
What man was he talk’d with you yesternight
Out at your window betwixt twelve and one?
Now, if you are a maid, answer to this.
HERO
I talk’d with no man at that hour, my lord.
DON PEDRO
Why, then are you no maiden. Leonato,
I am sorry you must hear: upon mine honour,
Myself, my brother and this grieved count
Did see her, hear her, at that hour last night
Talk with a ruffian at her chamber-window
Who hath indeed, most like a liberal villain,
Confess’d the vile encounters they have had
A thousand times in secret.
DON JOHN
Fie, fie! they are not to be named, my lord,
Not to be spoke of;
There is not chastity enough in language
Without offence to utter them. Thus, pretty lady,
I am sorry for thy much misgovernment.
CLAUDIO
O Hero, what a Hero hadst thou been,
If half thy outward graces had been placed
About thy thoughts and counsels of thy heart!
But fare thee well, most foul, most fair! farewell,
Thou pure impiety and impious purity!
For thee I’ll lock up all the gates of love,
And on my eyelids shall conjecture hang,
To turn all beauty into thoughts of harm,
And never shall it more be gracious.
LEONATO
Hath no man’s dagger here a point for me?
HERO swoons

BEATRICE
Why, how now, cousin! wherefore sink you down?
DON JOHN
Come, let us go. These things, come thus to light,
Smother her spirits up.
Exeunt DON PEDRO, DON JOHN, and CLAUDIO

BENEDICK
How doth the lady?
BEATRICE
Dead, I think. Help, uncle!
Hero! why, Hero! Uncle! Signior Benedick! Friar!
LEONATO
O Fate! take not away thy heavy hand.
Death is the fairest cover for her shame
That may be wish’d for.
BEATRICE
How now, cousin Hero!
FRIAR FRANCIS
Have comfort, lady.
LEONATO
Dost thou look up?
FRIAR FRANCIS
Yea, wherefore should she not?
LEONATO
Wherefore! Why, doth not every earthly thing
Cry shame upon her? Could she here deny
The story that is printed in her blood?
Do not live, Hero; do not ope thine eyes:
For, did I think thou wouldst not quickly die,
Thought I thy spirits were stronger than thy shames,
Myself would, on the rearward of reproaches,
Strike at thy life. Grieved I, I had but one?
Chid I for that at frugal nature’s frame?
O, one too much by thee! Why had I one?
Why ever wast thou lovely in my eyes?
Why had I not with charitable hand
Took up a beggar’s issue at my gates,
Who smirch’d thus and mired with infamy,
I might have said ‘No part of it is mine;
This shame derives itself from unknown loins’?
But mine and mine I loved and mine I praised
And mine that I was proud on, mine so much
That I myself was to myself not mine,
Valuing of her,–why, she, O, she is fallen
Into a pit of ink, that the wide sea
Hath drops too few to wash her clean again
And salt too little which may season give
To her foul-tainted flesh!
BENEDICK
Sir, sir, be patient.
For my part, I am so attired in wonder,
I know not what to say.
BEATRICE
O, on my soul, my cousin is belied!
BENEDICK
Lady, were you her bedfellow last night?
BEATRICE
No, truly not; although, until last night,
I have this twelvemonth been her bedfellow.
LEONATO
Confirm’d, confirm’d! O, that is stronger made
Which was before barr’d up with ribs of iron!
Would the two princes lie, and Claudio lie,
Who loved her so, that, speaking of her foulness,
Wash’d it with tears? Hence from her! let her die.
FRIAR FRANCIS
Hear me a little;
For I have only been silent so long
And given way unto this course of fortune.

By noting of the lady I have mark’d
A thousand blushing apparitions
To start into her face, a thousand innocent shames
In angel whiteness beat away those blushes;
And in her eye there hath appear’d a fire,
To burn the errors that these princes hold
Against her maiden truth. Call me a fool;
Trust not my reading nor my observations,
Which with experimental seal doth warrant
The tenor of my book; trust not my age,
My reverence, calling, nor divinity,
If this sweet lady lie not guiltless here
Under some biting error.
LEONATO
Friar, it cannot be.
Thou seest that all the grace that she hath left
Is that she will not add to her damnation
A sin of perjury; she not denies it:
Why seek’st thou then to cover with excuse
That which appears in proper nakedness?
FRIAR FRANCIS
Lady, what man is he you are accused of?
HERO
They know that do accuse me; I know none:
If I know more of any man alive
Than that which maiden modesty doth warrant,
Let all my sins lack mercy! O my father,
Prove you that any man with me conversed
At hours unmeet, or that I yesternight
Maintain’d the change of words with any creature,
Refuse me, hate me, torture me to death!
FRIAR FRANCIS
There is some strange misprision in the princes.
BENEDICK
Two of them have the very bent of honour;
And if their wisdoms be misled in this,
The practise of it lives in John the bastard,
Whose spirits toil in frame of villanies.
LEONATO
I know not. If they speak but truth of her,
These hands shall tear her; if they wrong her honour,
The proudest of them shall well hear of it.
Time hath not yet so dried this blood of mine,
Nor age so eat up my invention,
Nor fortune made such havoc of my means,
Nor my bad life reft me so much of friends,
But they shall find, awaked in such a kind,
Both strength of limb and policy of mind,
Ability in means and choice of friends,
To quit me of them throughly.
FRIAR FRANCIS
Pause awhile,
And let my counsel sway you in this case.
Your daughter here the princes left for dead:
Let her awhile be secretly kept in,
And publish it that she is dead indeed;
Maintain a mourning ostentation
And on your family’s old monument
Hang mournful epitaphs and do all rites
That appertain unto a burial.
LEONATO
What shall become of this? what will this do?
FRIAR FRANCIS
Marry, this well carried shall on her behalf
Change slander to remorse; that is some good:
But not for that dream I on this strange course,
But on this travail look for greater birth.
She dying, as it must so be maintain’d,
Upon the instant that she was accused,
Shall be lamented, pitied and excused
Of every hearer: for it so falls out
That what we have we prize not to the worth
Whiles we enjoy it, but being lack’d and lost,
Why, then we rack the value, then we find
The virtue that possession would not show us
Whiles it was ours. So will it fare with Claudio:
When he shall hear she died upon his words,
The idea of her life shall sweetly creep
Into his study of imagination,
And every lovely organ of her life
Shall come apparell’d in more precious habit,
More moving-delicate and full of life,
Into the eye and prospect of his soul,
Than when she lived indeed; then shall he mourn,
If ever love had interest in his liver,
And wish he had not so accused her,
No, though he thought his accusation true.
Let this be so, and doubt not but success
Will fashion the event in better shape
Than I can lay it down in likelihood.
But if all aim but this be levell’d false,
The supposition of the lady’s death
Will quench the wonder of her infamy:
And if it sort not well, you may conceal her,
As best befits her wounded reputation,
In some reclusive and religious life,
Out of all eyes, tongues, minds and injuries.
BENEDICK
Signior Leonato, let the friar advise you:
And though you know my inwardness and love
Is very much unto the prince and Claudio,
Yet, by mine honour, I will deal in this
As secretly and justly as your soul
Should with your body.
LEONATO
Being that I flow in grief,
The smallest twine may lead me.
FRIAR FRANCIS
‘Tis well consented: presently away;
For to strange sores strangely they strain the cure.
Come, lady, die to live: this wedding-day
Perhaps is but prolong’d: have patience and endure.
Exeunt all but BENEDICK and BEATRICE

BENEDICK
Lady Beatrice, have you wept all this while?
BEATRICE
Yea, and I will weep a while longer.
BENEDICK
I will not desire that.
BEATRICE
You have no reason; I do it freely.
BENEDICK
Surely I do believe your fair cousin is wronged.
BEATRICE
Ah, how much might the man deserve of me that would right her!
BENEDICK
Is there any way to show such friendship?
BEATRICE
A very even way, but no such friend.
BENEDICK
May a man do it?
BEATRICE
It is a man’s office, but not yours.
BENEDICK
I do love nothing in the world so well as you: is
not that strange?
BEATRICE
As strange as the thing I know not. It were as
possible for me to say I loved nothing so well as
you: but believe me not; and yet I lie not; I
confess nothing, nor I deny nothing. I am sorry for my cousin.
BENEDICK
By my sword, Beatrice, thou lovest me.
BEATRICE
Do not swear, and eat it.
BENEDICK
I will swear by it that you love me; and I will make
him eat it that says I love not you.
BEATRICE
Will you not eat your word?
BENEDICK
With no sauce that can be devised to it. I protest
I love thee.
BEATRICE
Why, then, God forgive me!
BENEDICK
What offence, sweet Beatrice?
BEATRICE
You have stayed me in a happy hour: I was about to
protest I loved you.
BENEDICK
And do it with all thy heart.
BEATRICE
I love you with so much of my heart that none is
left to protest.
BENEDICK
Come, bid me do any thing for thee.
BEATRICE
Kill Claudio.
BENEDICK
Ha! not for the wide world.
BEATRICE
You kill me to deny it. Farewell.
BENEDICK
Tarry, sweet Beatrice.
BEATRICE
I am gone, though I am here: there is no love in
you: nay, I pray you, let me go.
BENEDICK
Beatrice,–
BEATRICE
In faith, I will go.
BENEDICK
We’ll be friends first.
BEATRICE
You dare easier be friends with me than fight with mine enemy.
BENEDICK
Is Claudio thine enemy?
BEATRICE
Is he not approved in the height a villain, that
hath slandered, scorned, dishonoured my kinswoman? O
that I were a man! What, bear her in hand until they
come to take hands; and then, with public
accusation, uncovered slander, unmitigated rancour,
–O God, that I were a man! I would eat his heart
in the market-place.
BENEDICK
Hear me, Beatrice,–
BEATRICE
Talk with a man out at a window! A proper saying!
BENEDICK
Nay, but, Beatrice,–
BEATRICE
Sweet Hero! She is wronged, she is slandered, she is undone.
BENEDICK
Beat–
BEATRICE
Princes and counties! Surely, a princely testimony,
a goodly count, Count Comfect; a sweet gallant,
surely! O that I were a man for his sake! or that I
had any friend would be a man for my sake! But
manhood is melted into courtesies, valour into
compliment, and men are only turned into tongue, and
trim ones too: he is now as valiant as Hercules
that only tells a lie and swears it. I cannot be a
man with wishing, therefore I will die a woman with grieving.
BENEDICK
Tarry, good Beatrice. By this hand, I love thee.
BEATRICE
Use it for my love some other way than swearing by it.
BENEDICK
Think you in your soul the Count Claudio hath wronged Hero?
BEATRICE
Yea, as sure as I have a thought or a soul.
BENEDICK
Enough, I am engaged; I will challenge him. I will
kiss your hand, and so I leave you. By this hand,
Claudio shall render me a dear account. As you
hear of me, so think of me. Go, comfort your
cousin: I must say she is dead: and so, farewell.
Exeunt

SCENE II. A prison.
Enter DOGBERRY, VERGES, and Sexton, in gowns; and the Watch, with CONRADE and BORACHIO
DOGBERRY
Is our whole dissembly appeared?
VERGES
O, a stool and a cushion for the sexton.
Sexton
Which be the malefactors?
DOGBERRY
Marry, that am I and my partner.
VERGES
Nay, that’s certain; we have the exhibition to examine.
Sexton
But which are the offenders that are to be
examined? let them come before master constable.
DOGBERRY
Yea, marry, let them come before me. What is your
name, friend?
BORACHIO
Borachio.
DOGBERRY
Pray, write down, Borachio. Yours, sirrah?
CONRADE
I am a gentleman, sir, and my name is Conrade.
DOGBERRY
Write down, master gentleman Conrade. Masters, do
you serve God?
CONRADE BORACHIO
Yea, sir, we hope.
DOGBERRY
Write down, that they hope they serve God: and
write God first; for God defend but God should go
before such villains! Masters, it is proved already
that you are little better than false knaves; and it
will go near to be thought so shortly. How answer
you for yourselves?
CONRADE
Marry, sir, we say we are none.
DOGBERRY
A marvellous witty fellow, I assure you: but I
will go about with him. Come you hither, sirrah; a
word in your ear: sir, I say to you, it is thought
you are false knaves.
BORACHIO
Sir, I say to you we are none.
DOGBERRY
Well, stand aside. ‘Fore God, they are both in a
tale. Have you writ down, that they are none?
Sexton
Master constable, you go not the way to examine:
you must call forth the watch that are their accusers.
DOGBERRY
Yea, marry, that’s the eftest way. Let the watch
come forth. Masters, I charge you, in the prince’s
name, accuse these men.
First Watchman
This man said, sir, that Don John, the prince’s
brother, was a villain.
DOGBERRY
Write down Prince John a villain. Why, this is flat
perjury, to call a prince’s brother villain.
BORACHIO
Master constable,–
DOGBERRY
Pray thee, fellow, peace: I do not like thy look,
I promise thee.
Sexton
What heard you him say else?
Second Watchman
Marry, that he had received a thousand ducats of
Don John for accusing the Lady Hero wrongfully.
DOGBERRY
Flat burglary as ever was committed.
VERGES
Yea, by mass, that it is.
Sexton
What else, fellow?
First Watchman
And that Count Claudio did mean, upon his words, to
disgrace Hero before the whole assembly. and not marry her.
DOGBERRY
O villain! thou wilt be condemned into everlasting
redemption for this.
Sexton
What else?
Watchman
This is all.
Sexton
And this is more, masters, than you can deny.
Prince John is this morning secretly stolen away;
Hero was in this manner accused, in this very manner
refused, and upon the grief of this suddenly died.
Master constable, let these men be bound, and
brought to Leonato’s: I will go before and show
him their examination.
Exit

DOGBERRY
Come, let them be opinioned.
VERGES
Let them be in the hands–
CONRADE
Off, coxcomb!
DOGBERRY
God’s my life, where’s the sexton? let him write
down the prince’s officer coxcomb. Come, bind them.
Thou naughty varlet!
CONRADE
Away! you are an ass, you are an ass.
DOGBERRY
Dost thou not suspect my place? dost thou not
suspect my years? O that he were here to write me
down an ass! But, masters, remember that I am an
ass; though it be not written down, yet forget not
that I am an ass. No, thou villain, thou art full of
piety, as shall be proved upon thee by good witness.
I am a wise fellow, and, which is more, an officer,
and, which is more, a householder, and, which is
more, as pretty a piece of flesh as any is in
Messina, and one that knows the law, go to; and a
rich fellow enough, go to; and a fellow that hath
had losses, and one that hath two gowns and every
thing handsome about him. Bring him away. O that
I had been writ down an ass!
Exeunt

ACT V
SCENE I. Before LEONATO’S house.
Enter LEONATO and ANTONIO
ANTONIO
If you go on thus, you will kill yourself:
And ’tis not wisdom thus to second grief
Against yourself.
LEONATO
I pray thee, cease thy counsel,
Which falls into mine ears as profitless
As water in a sieve: give not me counsel;
Nor let no comforter delight mine ear
But such a one whose wrongs do suit with mine.
Bring me a father that so loved his child,
Whose joy of her is overwhelm’d like mine,
And bid him speak of patience;
Measure his woe the length and breadth of mine
And let it answer every strain for strain,
As thus for thus and such a grief for such,
In every lineament, branch, shape, and form:
If such a one will smile and stroke his beard,
Bid sorrow wag, cry ‘hem!’ when he should groan,
Patch grief with proverbs, make misfortune drunk
With candle-wasters; bring him yet to me,
And I of him will gather patience.
But there is no such man: for, brother, men
Can counsel and speak comfort to that grief
Which they themselves not feel; but, tasting it,
Their counsel turns to passion, which before
Would give preceptial medicine to rage,
Fetter strong madness in a silken thread,
Charm ache with air and agony with words:
No, no; ’tis all men’s office to speak patience
To those that wring under the load of sorrow,
But no man’s virtue nor sufficiency
To be so moral when he shall endure
The like himself. Therefore give me no counsel:
My griefs cry louder than advertisement.
ANTONIO
Therein do men from children nothing differ.
LEONATO
I pray thee, peace. I will be flesh and blood;
For there was never yet philosopher
That could endure the toothache patiently,
However they have writ the style of gods
And made a push at chance and sufferance.
ANTONIO
Yet bend not all the harm upon yourself;
Make those that do offend you suffer too.
LEONATO
There thou speak’st reason: nay, I will do so.
My soul doth tell me Hero is belied;
And that shall Claudio know; so shall the prince
And all of them that thus dishonour her.
ANTONIO
Here comes the prince and Claudio hastily.
Enter DON PEDRO and CLAUDIO

DON PEDRO
Good den, good den.
CLAUDIO
Good day to both of you.
LEONATO
Hear you. my lords,–
DON PEDRO
We have some haste, Leonato.
LEONATO
Some haste, my lord! well, fare you well, my lord:
Are you so hasty now? well, all is one.
DON PEDRO
Nay, do not quarrel with us, good old man.
ANTONIO
If he could right himself with quarreling,
Some of us would lie low.
CLAUDIO
Who wrongs him?
LEONATO
Marry, thou dost wrong me; thou dissembler, thou:–
Nay, never lay thy hand upon thy sword;
I fear thee not.
CLAUDIO
Marry, beshrew my hand,
If it should give your age such cause of fear:
In faith, my hand meant nothing to my sword.
LEONATO
Tush, tush, man; never fleer and jest at me:
I speak not like a dotard nor a fool,
As under privilege of age to brag
What I have done being young, or what would do
Were I not old. Know, Claudio, to thy head,
Thou hast so wrong’d mine innocent child and me
That I am forced to lay my reverence by
And, with grey hairs and bruise of many days,
Do challenge thee to trial of a man.
I say thou hast belied mine innocent child;
Thy slander hath gone through and through her heart,
And she lies buried with her ancestors;
O, in a tomb where never scandal slept,
Save this of hers, framed by thy villany!
CLAUDIO
My villany?
LEONATO
Thine, Claudio; thine, I say.
DON PEDRO
You say not right, old man.
LEONATO
My lord, my lord,
I’ll prove it on his body, if he dare,
Despite his nice fence and his active practise,
His May of youth and bloom of lustihood.
CLAUDIO
Away! I will not have to do with you.
LEONATO
Canst thou so daff me? Thou hast kill’d my child:
If thou kill’st me, boy, thou shalt kill a man.
ANTONIO
He shall kill two of us, and men indeed:
But that’s no matter; let him kill one first;
Win me and wear me; let him answer me.
Come, follow me, boy; come, sir boy, come, follow me:
Sir boy, I’ll whip you from your foining fence;
Nay, as I am a gentleman, I will.
LEONATO
Brother,–
ANTONIO
Content yourself. God knows I loved my niece;
And she is dead, slander’d to death by villains,
That dare as well answer a man indeed
As I dare take a serpent by the tongue:
Boys, apes, braggarts, Jacks, milksops!
LEONATO
Brother Antony,–
ANTONIO
Hold you content. What, man! I know them, yea,
And what they weigh, even to the utmost scruple,–
Scrambling, out-facing, fashion-monging boys,
That lie and cog and flout, deprave and slander,
Go anticly, show outward hideousness,
And speak off half a dozen dangerous words,
How they might hurt their enemies, if they durst;
And this is all.
LEONATO
But, brother Antony,–
ANTONIO
Come, ’tis no matter:
Do not you meddle; let me deal in this.
DON PEDRO
Gentlemen both, we will not wake your patience.
My heart is sorry for your daughter’s death:
But, on my honour, she was charged with nothing
But what was true and very full of proof.
LEONATO
My lord, my lord,–
DON PEDRO
I will not hear you.
LEONATO
No? Come, brother; away! I will be heard.
ANTONIO
And shall, or some of us will smart for it.
Exeunt LEONATO and ANTONIO

DON PEDRO
See, see; here comes the man we went to seek.
Enter BENEDICK

CLAUDIO
Now, signior, what news?
BENEDICK
Good day, my lord.
DON PEDRO
Welcome, signior: you are almost come to part
almost a fray.
CLAUDIO
We had like to have had our two noses snapped off
with two old men without teeth.
DON PEDRO
Leonato and his brother. What thinkest thou? Had
we fought, I doubt we should have been too young for them.
BENEDICK
In a false quarrel there is no true valour. I came
to seek you both.
CLAUDIO
We have been up and down to seek thee; for we are
high-proof melancholy and would fain have it beaten
away. Wilt thou use thy wit?
BENEDICK
It is in my scabbard: shall I draw it?
DON PEDRO
Dost thou wear thy wit by thy side?
CLAUDIO
Never any did so, though very many have been beside
their wit. I will bid thee draw, as we do the
minstrels; draw, to pleasure us.
DON PEDRO
As I am an honest man, he looks pale. Art thou
sick, or angry?
CLAUDIO
What, courage, man! What though care killed a cat,
thou hast mettle enough in thee to kill care.
BENEDICK
Sir, I shall meet your wit in the career, and you
charge it against me. I pray you choose another subject.
CLAUDIO
Nay, then, give him another staff: this last was
broke cross.
DON PEDRO
By this light, he changes more and more: I think
he be angry indeed.
CLAUDIO
If he be, he knows how to turn his girdle.
BENEDICK
Shall I speak a word in your ear?
CLAUDIO
God bless me from a challenge!
BENEDICK
[Aside to CLAUDIO] You are a villain; I jest not:
I will make it good how you dare, with what you
dare, and when you dare. Do me right, or I will
protest your cowardice. You have killed a sweet
lady, and her death shall fall heavy on you. Let me
hear from you.
CLAUDIO
Well, I will meet you, so I may have good cheer.
DON PEDRO
What, a feast, a feast?
CLAUDIO
I’ faith, I thank him; he hath bid me to a calf’s
head and a capon; the which if I do not carve most
curiously, say my knife’s naught. Shall I not find
a woodcock too?
BENEDICK
Sir, your wit ambles well; it goes easily.
DON PEDRO
I’ll tell thee how Beatrice praised thy wit the
other day. I said, thou hadst a fine wit: ‘True,’
said she, ‘a fine little one.’ ‘No,’ said I, ‘a
great wit:’ ‘Right,’ says she, ‘a great gross one.’
‘Nay,’ said I, ‘a good wit:’ ‘Just,’ said she, ‘it
hurts nobody.’ ‘Nay,’ said I, ‘the gentleman
is wise:’ ‘Certain,’ said she, ‘a wise gentleman.’
‘Nay,’ said I, ‘he hath the tongues:’ ‘That I
believe,’ said she, ‘for he swore a thing to me on
Monday night, which he forswore on Tuesday morning;
there’s a double tongue; there’s two tongues.’ Thus
did she, an hour together, transshape thy particular
virtues: yet at last she concluded with a sigh, thou
wast the properest man in Italy.
CLAUDIO
For the which she wept heartily and said she cared
not.
DON PEDRO
Yea, that she did: but yet, for all that, an if she
did not hate him deadly, she would love him dearly:
the old man’s daughter told us all.
CLAUDIO
All, all; and, moreover, God saw him when he was
hid in the garden.
DON PEDRO
But when shall we set the savage bull’s horns on
the sensible Benedick’s head?
CLAUDIO
Yea, and text underneath, ‘Here dwells Benedick the
married man’?
BENEDICK
Fare you well, boy: you know my mind. I will leave
you now to your gossip-like humour: you break jests
as braggarts do their blades, which God be thanked,
hurt not. My lord, for your many courtesies I thank
you: I must discontinue your company: your brother
the bastard is fled from Messina: you have among
you killed a sweet and innocent lady. For my Lord
Lackbeard there, he and I shall meet: and, till
then, peace be with him.
Exit

DON PEDRO
He is in earnest.
CLAUDIO
In most profound earnest; and, I’ll warrant you, for
the love of Beatrice.
DON PEDRO
And hath challenged thee.
CLAUDIO
Most sincerely.
DON PEDRO
What a pretty thing man is when he goes in his
doublet and hose and leaves off his wit!
CLAUDIO
He is then a giant to an ape; but then is an ape a
doctor to such a man.
DON PEDRO
But, soft you, let me be: pluck up, my heart, and
be sad. Did he not say, my brother was fled?
Enter DOGBERRY, VERGES, and the Watch, with CONRADE and BORACHIO

DOGBERRY
Come you, sir: if justice cannot tame you, she
shall ne’er weigh more reasons in her balance: nay,
an you be a cursing hypocrite once, you must be looked to.
DON PEDRO
How now? two of my brother’s men bound! Borachio
one!
CLAUDIO
Hearken after their offence, my lord.
DON PEDRO
Officers, what offence have these men done?
DOGBERRY
Marry, sir, they have committed false report;
moreover, they have spoken untruths; secondarily,
they are slanders; sixth and lastly, they have
belied a lady; thirdly, they have verified unjust
things; and, to conclude, they are lying knaves.
DON PEDRO
First, I ask thee what they have done; thirdly, I
ask thee what’s their offence; sixth and lastly, why
they are committed; and, to conclude, what you lay
to their charge.
CLAUDIO
Rightly reasoned, and in his own division: and, by
my troth, there’s one meaning well suited.
DON PEDRO
Who have you offended, masters, that you are thus
bound to your answer? this learned constable is
too cunning to be understood: what’s your offence?
BORACHIO
Sweet prince, let me go no farther to mine answer:
do you hear me, and let this count kill me. I have
deceived even your very eyes: what your wisdoms
could not discover, these shallow fools have brought
to light: who in the night overheard me confessing
to this man how Don John your brother incensed me
to slander the Lady Hero, how you were brought into
the orchard and saw me court Margaret in Hero’s
garments, how you disgraced her, when you should
marry her: my villany they have upon record; which
I had rather seal with my death than repeat over
to my shame. The lady is dead upon mine and my
master’s false accusation; and, briefly, I desire
nothing but the reward of a villain.
DON PEDRO
Runs not this speech like iron through your blood?
CLAUDIO
I have drunk poison whiles he utter’d it.
DON PEDRO
But did my brother set thee on to this?
BORACHIO
Yea, and paid me richly for the practise of it.
DON PEDRO
He is composed and framed of treachery:
And fled he is upon this villany.
CLAUDIO
Sweet Hero! now thy image doth appear
In the rare semblance that I loved it first.
DOGBERRY
Come, bring away the plaintiffs: by this time our
sexton hath reformed Signior Leonato of the matter:
and, masters, do not forget to specify, when time
and place shall serve, that I am an ass.
VERGES
Here, here comes master Signior Leonato, and the
Sexton too.
Re-enter LEONATO and ANTONIO, with the Sexton

LEONATO
Which is the villain? let me see his eyes,
That, when I note another man like him,
I may avoid him: which of these is he?
BORACHIO
If you would know your wronger, look on me.
LEONATO
Art thou the slave that with thy breath hast kill’d
Mine innocent child?
BORACHIO
Yea, even I alone.
LEONATO
No, not so, villain; thou beliest thyself:
Here stand a pair of honourable men;
A third is fled, that had a hand in it.
I thank you, princes, for my daughter’s death:
Record it with your high and worthy deeds:
‘Twas bravely done, if you bethink you of it.
CLAUDIO
I know not how to pray your patience;
Yet I must speak. Choose your revenge yourself;
Impose me to what penance your invention
Can lay upon my sin: yet sinn’d I not
But in mistaking.
DON PEDRO
By my soul, nor I:
And yet, to satisfy this good old man,
I would bend under any heavy weight
That he’ll enjoin me to.
LEONATO
I cannot bid you bid my daughter live;
That were impossible: but, I pray you both,
Possess the people in Messina here
How innocent she died; and if your love
Can labour ought in sad invention,
Hang her an epitaph upon her tomb
And sing it to her bones, sing it to-night:
To-morrow morning come you to my house,
And since you could not be my son-in-law,
Be yet my nephew: my brother hath a daughter,
Almost the copy of my child that’s dead,
And she alone is heir to both of us:
Give her the right you should have given her cousin,
And so dies my revenge.
CLAUDIO
O noble sir,
Your over-kindness doth wring tears from me!
I do embrace your offer; and dispose
For henceforth of poor Claudio.
LEONATO
To-morrow then I will expect your coming;
To-night I take my leave. This naughty man
Shall face to face be brought to Margaret,
Who I believe was pack’d in all this wrong,
Hired to it by your brother.
BORACHIO
No, by my soul, she was not,
Nor knew not what she did when she spoke to me,
But always hath been just and virtuous
In any thing that I do know by her.
DOGBERRY
Moreover, sir, which indeed is not under white and
black, this plaintiff here, the offender, did call
me ass: I beseech you, let it be remembered in his
punishment. And also, the watch heard them talk of
one Deformed: they say be wears a key in his ear and
a lock hanging by it, and borrows money in God’s
name, the which he hath used so long and never paid
that now men grow hard-hearted and will lend nothing
for God’s sake: pray you, examine him upon that point.
LEONATO
I thank thee for thy care and honest pains.
DOGBERRY
Your worship speaks like a most thankful and
reverend youth; and I praise God for you.
LEONATO
There’s for thy pains.
DOGBERRY
God save the foundation!
LEONATO
Go, I discharge thee of thy prisoner, and I thank thee.
DOGBERRY
I leave an arrant knave with your worship; which I
beseech your worship to correct yourself, for the
example of others. God keep your worship! I wish
your worship well; God restore you to health! I
humbly give you leave to depart; and if a merry
meeting may be wished, God prohibit it! Come, neighbour.
Exeunt DOGBERRY and VERGES

LEONATO
Until to-morrow morning, lords, farewell.
ANTONIO
Farewell, my lords: we look for you to-morrow.
DON PEDRO
We will not fail.
CLAUDIO
To-night I’ll mourn with Hero.
LEONATO
[To the Watch] Bring you these fellows on. We’ll
talk with Margaret,
How her acquaintance grew with this lewd fellow.
Exeunt, severally

SCENE II. LEONATO’S garden.
Enter BENEDICK and MARGARET, meeting
BENEDICK
Pray thee, sweet Mistress Margaret, deserve well at
my hands by helping me to the speech of Beatrice.
MARGARET
Will you then write me a sonnet in praise of my beauty?
BENEDICK
In so high a style, Margaret, that no man living
shall come over it; for, in most comely truth, thou
deservest it.
MARGARET
To have no man come over me! why, shall I always
keep below stairs?
BENEDICK
Thy wit is as quick as the greyhound’s mouth; it catches.
MARGARET
And yours as blunt as the fencer’s foils, which hit,
but hurt not.
BENEDICK
A most manly wit, Margaret; it will not hurt a
woman: and so, I pray thee, call Beatrice: I give
thee the bucklers.
MARGARET
Give us the swords; we have bucklers of our own.
BENEDICK
If you use them, Margaret, you must put in the
pikes with a vice; and they are dangerous weapons for maids.
MARGARET
Well, I will call Beatrice to you, who I think hath legs.
BENEDICK
And therefore will come.
Exit MARGARET

Sings

The god of love,
That sits above,
And knows me, and knows me,
How pitiful I deserve,–
I mean in singing; but in loving, Leander the good
swimmer, Troilus the first employer of panders, and
a whole bookful of these quondam carpet-mangers,
whose names yet run smoothly in the even road of a
blank verse, why, they were never so truly turned
over and over as my poor self in love. Marry, I
cannot show it in rhyme; I have tried: I can find
out no rhyme to ‘lady’ but ‘baby,’ an innocent
rhyme; for ‘scorn,’ ‘horn,’ a hard rhyme; for,
‘school,’ ‘fool,’ a babbling rhyme; very ominous
endings: no, I was not born under a rhyming planet,
nor I cannot woo in festival terms.
Enter BEATRICE

Sweet Beatrice, wouldst thou come when I called thee?
BEATRICE
Yea, signior, and depart when you bid me.
BENEDICK
O, stay but till then!
BEATRICE
‘Then’ is spoken; fare you well now: and yet, ere
I go, let me go with that I came; which is, with
knowing what hath passed between you and Claudio.
BENEDICK
Only foul words; and thereupon I will kiss thee.
BEATRICE
Foul words is but foul wind, and foul wind is but
foul breath, and foul breath is noisome; therefore I
will depart unkissed.
BENEDICK
Thou hast frighted the word out of his right sense,
so forcible is thy wit. But I must tell thee
plainly, Claudio undergoes my challenge; and either
I must shortly hear from him, or I will subscribe
him a coward. And, I pray thee now, tell me for
which of my bad parts didst thou first fall in love with me?
BEATRICE
For them all together; which maintained so politic
a state of evil that they will not admit any good
part to intermingle with them. But for which of my
good parts did you first suffer love for me?
BENEDICK
Suffer love! a good epithet! I do suffer love
indeed, for I love thee against my will.
BEATRICE
In spite of your heart, I think; alas, poor heart!
If you spite it for my sake, I will spite it for
yours; for I will never love that which my friend hates.
BENEDICK
Thou and I are too wise to woo peaceably.
BEATRICE
It appears not in this confession: there’s not one
wise man among twenty that will praise himself.
BENEDICK
An old, an old instance, Beatrice, that lived in
the lime of good neighbours. If a man do not erect
in this age his own tomb ere he dies, he shall live
no longer in monument than the bell rings and the
widow weeps.
BEATRICE
And how long is that, think you?
BENEDICK
Question: why, an hour in clamour and a quarter in
rheum: therefore is it most expedient for the
wise, if Don Worm, his conscience, find no
impediment to the contrary, to be the trumpet of his
own virtues, as I am to myself. So much for
praising myself, who, I myself will bear witness, is
praiseworthy: and now tell me, how doth your cousin?
BEATRICE
Very ill.
BENEDICK
And how do you?
BEATRICE
Very ill too.
BENEDICK
Serve God, love me and mend. There will I leave
you too, for here comes one in haste.
Enter URSULA

URSULA
Madam, you must come to your uncle. Yonder’s old
coil at home: it is proved my Lady Hero hath been
falsely accused, the prince and Claudio mightily
abused; and Don John is the author of all, who is
fed and gone. Will you come presently?
BEATRICE
Will you go hear this news, signior?
BENEDICK
I will live in thy heart, die in thy lap, and be
buried in thy eyes; and moreover I will go with
thee to thy uncle’s.
Exeunt

SCENE III. A church.
Enter DON PEDRO, CLAUDIO, and three or four with tapers
CLAUDIO
Is this the monument of Leonato?
Lord
It is, my lord.
CLAUDIO
[Reading out of a scroll]
Done to death by slanderous tongues
Was the Hero that here lies:
Death, in guerdon of her wrongs,
Gives her fame which never dies.
So the life that died with shame
Lives in death with glorious fame.
Hang thou there upon the tomb,
Praising her when I am dumb.
Now, music, sound, and sing your solemn hymn.
SONG.
Pardon, goddess of the night,
Those that slew thy virgin knight;
For the which, with songs of woe,
Round about her tomb they go.
Midnight, assist our moan;
Help us to sigh and groan,
Heavily, heavily:
Graves, yawn and yield your dead,
Till death be uttered,
Heavily, heavily.
CLAUDIO
Now, unto thy bones good night!
Yearly will I do this rite.
DON PEDRO
Good morrow, masters; put your torches out:
The wolves have prey’d; and look, the gentle day,
Before the wheels of Phoebus, round about
Dapples the drowsy east with spots of grey.
Thanks to you all, and leave us: fare you well.
CLAUDIO
Good morrow, masters: each his several way.
DON PEDRO
Come, let us hence, and put on other weeds;
And then to Leonato’s we will go.
CLAUDIO
And Hymen now with luckier issue speed’s
Than this for whom we render’d up this woe.
Exeunt

SCENE IV. A room in LEONATO’S house.
Enter LEONATO, ANTONIO, BENEDICK, BEATRICE, MARGARET, URSULA, FRIAR FRANCIS, and HERO
FRIAR FRANCIS
Did I not tell you she was innocent?
LEONATO
So are the prince and Claudio, who accused her
Upon the error that you heard debated:
But Margaret was in some fault for this,
Although against her will, as it appears
In the true course of all the question.
ANTONIO
Well, I am glad that all things sort so well.
BENEDICK
And so am I, being else by faith enforced
To call young Claudio to a reckoning for it.
LEONATO
Well, daughter, and you gentle-women all,
Withdraw into a chamber by yourselves,
And when I send for you, come hither mask’d.
Exeunt Ladies

The prince and Claudio promised by this hour
To visit me. You know your office, brother:
You must be father to your brother’s daughter
And give her to young Claudio.
ANTONIO
Which I will do with confirm’d countenance.
BENEDICK
Friar, I must entreat your pains, I think.
FRIAR FRANCIS
To do what, signior?
BENEDICK
To bind me, or undo me; one of them.
Signior Leonato, truth it is, good signior,
Your niece regards me with an eye of favour.
LEONATO
That eye my daughter lent her: ’tis most true.
BENEDICK
And I do with an eye of love requite her.
LEONATO
The sight whereof I think you had from me,
From Claudio and the prince: but what’s your will?
BENEDICK
Your answer, sir, is enigmatical:
But, for my will, my will is your good will
May stand with ours, this day to be conjoin’d
In the state of honourable marriage:
In which, good friar, I shall desire your help.
LEONATO
My heart is with your liking.
FRIAR FRANCIS
And my help.
Here comes the prince and Claudio.
Enter DON PEDRO and CLAUDIO, and two or three others

DON PEDRO
Good morrow to this fair assembly.
LEONATO
Good morrow, prince; good morrow, Claudio:
We here attend you. Are you yet determined
To-day to marry with my brother’s daughter?
CLAUDIO
I’ll hold my mind, were she an Ethiope.
LEONATO
Call her forth, brother; here’s the friar ready.
Exit ANTONIO

DON PEDRO
Good morrow, Benedick. Why, what’s the matter,
That you have such a February face,
So full of frost, of storm and cloudiness?
CLAUDIO
I think he thinks upon the savage bull.
Tush, fear not, man; we’ll tip thy horns with gold
And all Europa shall rejoice at thee,
As once Europa did at lusty Jove,
When he would play the noble beast in love.
BENEDICK
Bull Jove, sir, had an amiable low;
And some such strange bull leap’d your father’s cow,
And got a calf in that same noble feat
Much like to you, for you have just his bleat.
CLAUDIO
For this I owe you: here comes other reckonings.
Re-enter ANTONIO, with the Ladies masked

Which is the lady I must seize upon?
ANTONIO
This same is she, and I do give you her.
CLAUDIO
Why, then she’s mine. Sweet, let me see your face.
LEONATO
No, that you shall not, till you take her hand
Before this friar and swear to marry her.
CLAUDIO
Give me your hand: before this holy friar,
I am your husband, if you like of me.
HERO
And when I lived, I was your other wife:
Unmasking

And when you loved, you were my other husband.
CLAUDIO
Another Hero!
HERO
Nothing certainer:
One Hero died defiled, but I do live,
And surely as I live, I am a maid.
DON PEDRO
The former Hero! Hero that is dead!
LEONATO
She died, my lord, but whiles her slander lived.
FRIAR FRANCIS
All this amazement can I qualify:
When after that the holy rites are ended,
I’ll tell you largely of fair Hero’s death:
Meantime let wonder seem familiar,
And to the chapel let us presently.
BENEDICK
Soft and fair, friar. Which is Beatrice?
BEATRICE
[Unmasking] I answer to that name. What is your will?
BENEDICK
Do not you love me?
BEATRICE
Why, no; no more than reason.
BENEDICK
Why, then your uncle and the prince and Claudio
Have been deceived; they swore you did.
BEATRICE
Do not you love me?
BENEDICK
Troth, no; no more than reason.
BEATRICE
Why, then my cousin Margaret and Ursula
Are much deceived; for they did swear you did.
BENEDICK
They swore that you were almost sick for me.
BEATRICE
They swore that you were well-nigh dead for me.
BENEDICK
‘Tis no such matter. Then you do not love me?
BEATRICE
No, truly, but in friendly recompense.
LEONATO
Come, cousin, I am sure you love the gentleman.
CLAUDIO
And I’ll be sworn upon’t that he loves her;
For here’s a paper written in his hand,
A halting sonnet of his own pure brain,
Fashion’d to Beatrice.
HERO
And here’s another
Writ in my cousin’s hand, stolen from her pocket,
Containing her affection unto Benedick.
BENEDICK
A miracle! here’s our own hands against our hearts.
Come, I will have thee; but, by this light, I take
thee for pity.
BEATRICE
I would not deny you; but, by this good day, I yield
upon great persuasion; and partly to save your life,
for I was told you were in a consumption.
BENEDICK
Peace! I will stop your mouth.
Kissing her

DON PEDRO
How dost thou, Benedick, the married man?
BENEDICK
I’ll tell thee what, prince; a college of
wit-crackers cannot flout me out of my humour. Dost
thou think I care for a satire or an epigram? No:
if a man will be beaten with brains, a’ shall wear
nothing handsome about him. In brief, since I do
purpose to marry, I will think nothing to any
purpose that the world can say against it; and
therefore never flout at me for what I have said
against it; for man is a giddy thing, and this is my
conclusion. For thy part, Claudio, I did think to
have beaten thee, but in that thou art like to be my
kinsman, live unbruised and love my cousin.
CLAUDIO
I had well hoped thou wouldst have denied Beatrice,
that I might have cudgelled thee out of thy single
life, to make thee a double-dealer; which, out of
question, thou wilt be, if my cousin do not look
exceedingly narrowly to thee.
BENEDICK
Come, come, we are friends: let’s have a dance ere
we are married, that we may lighten our own hearts
and our wives’ heels.
LEONATO
We’ll have dancing afterward.
BENEDICK
First, of my word; therefore play, music. Prince,
thou art sad; get thee a wife, get thee a wife:
there is no staff more reverend than one tipped with horn.
Enter a Messenger

Messenger
My lord, your brother John is ta’en in flight,
And brought with armed men back to Messina.
BENEDICK
Think not on him till to-morrow:
I’ll devise thee brave punishments for him.
Strike up, pipers.
Dance

Exeunt

The Merchant of Venice
Shakespeare homepage | Merchant of Venice | Entire play
ACT I
SCENE I. Venice. A street.
Enter ANTONIO, SALARINO, and SALANIO
ANTONIO
In sooth, I know not why I am so sad:
It wearies me; you say it wearies you;
But how I caught it, found it, or came by it,
What stuff ’tis made of, whereof it is born,
I am to learn;
And such a want-wit sadness makes of me,
That I have much ado to know myself.
SALARINO
Your mind is tossing on the ocean;
There, where your argosies with portly sail,
Like signiors and rich burghers on the flood,
Or, as it were, the pageants of the sea,
Do overpeer the petty traffickers,
That curtsy to them, do them reverence,
As they fly by them with their woven wings.
SALANIO
Believe me, sir, had I such venture forth,
The better part of my affections would
Be with my hopes abroad. I should be still
Plucking the grass, to know where sits the wind,
Peering in maps for ports and piers and roads;
And every object that might make me fear
Misfortune to my ventures, out of doubt
Would make me sad.
SALARINO
My wind cooling my broth
Would blow me to an ague, when I thought
What harm a wind too great at sea might do.
I should not see the sandy hour-glass run,
But I should think of shallows and of flats,
And see my wealthy Andrew dock’d in sand,
Vailing her high-top lower than her ribs
To kiss her burial. Should I go to church
And see the holy edifice of stone,
And not bethink me straight of dangerous rocks,
Which touching but my gentle vessel’s side,
Would scatter all her spices on the stream,
Enrobe the roaring waters with my silks,
And, in a word, but even now worth this,
And now worth nothing? Shall I have the thought
To think on this, and shall I lack the thought
That such a thing bechanced would make me sad?
But tell not me; I know, Antonio
Is sad to think upon his merchandise.
ANTONIO
Believe me, no: I thank my fortune for it,
My ventures are not in one bottom trusted,
Nor to one place; nor is my whole estate
Upon the fortune of this present year:
Therefore my merchandise makes me not sad.
SALARINO
Why, then you are in love.
ANTONIO
Fie, fie!
SALARINO
Not in love neither? Then let us say you are sad,
Because you are not merry: and ’twere as easy
For you to laugh and leap and say you are merry,
Because you are not sad. Now, by two-headed Janus,
Nature hath framed strange fellows in her time:
Some that will evermore peep through their eyes
And laugh like parrots at a bag-piper,
And other of such vinegar aspect
That they’ll not show their teeth in way of smile,
Though Nestor swear the jest be laughable.
Enter BASSANIO, LORENZO, and GRATIANO

SALANIO
Here comes Bassanio, your most noble kinsman,
Gratiano and Lorenzo. Fare ye well:
We leave you now with better company.
SALARINO
I would have stay’d till I had made you merry,
If worthier friends had not prevented me.
ANTONIO
Your worth is very dear in my regard.
I take it, your own business calls on you
And you embrace the occasion to depart.
SALARINO
Good morrow, my good lords.
BASSANIO
Good signiors both, when shall we laugh? say, when?
You grow exceeding strange: must it be so?
SALARINO
We’ll make our leisures to attend on yours.
Exeunt Salarino and Salanio

LORENZO
My Lord Bassanio, since you have found Antonio,
We two will leave you: but at dinner-time,
I pray you, have in mind where we must meet.
BASSANIO
I will not fail you.
GRATIANO
You look not well, Signior Antonio;
You have too much respect upon the world:
They lose it that do buy it with much care:
Believe me, you are marvellously changed.
ANTONIO
I hold the world but as the world, Gratiano;
A stage where every man must play a part,
And mine a sad one.
GRATIANO
Let me play the fool:
With mirth and laughter let old wrinkles come,
And let my liver rather heat with wine
Than my heart cool with mortifying groans.
Why should a man, whose blood is warm within,
Sit like his grandsire cut in alabaster?
Sleep when he wakes and creep into the jaundice
By being peevish? I tell thee what, Antonio–
I love thee, and it is my love that speaks–
There are a sort of men whose visages
Do cream and mantle like a standing pond,
And do a wilful stillness entertain,
With purpose to be dress’d in an opinion
Of wisdom, gravity, profound conceit,
As who should say ‘I am Sir Oracle,
And when I ope my lips let no dog bark!’
O my Antonio, I do know of these
That therefore only are reputed wise
For saying nothing; when, I am very sure,
If they should speak, would almost damn those ears,
Which, hearing them, would call their brothers fools.
I’ll tell thee more of this another time:
But fish not, with this melancholy bait,
For this fool gudgeon, this opinion.
Come, good Lorenzo. Fare ye well awhile:
I’ll end my exhortation after dinner.
LORENZO
Well, we will leave you then till dinner-time:
I must be one of these same dumb wise men,
For Gratiano never lets me speak.
GRATIANO
Well, keep me company but two years moe,
Thou shalt not know the sound of thine own tongue.
ANTONIO
Farewell: I’ll grow a talker for this gear.
GRATIANO
Thanks, i’ faith, for silence is only commendable
In a neat’s tongue dried and a maid not vendible.
Exeunt GRATIANO and LORENZO

ANTONIO
Is that any thing now?
BASSANIO
Gratiano speaks an infinite deal of nothing, more
than any man in all Venice. His reasons are as two
grains of wheat hid in two bushels of chaff: you
shall seek all day ere you find them, and when you
have them, they are not worth the search.
ANTONIO
Well, tell me now what lady is the same
To whom you swore a secret pilgrimage,
That you to-day promised to tell me of?
BASSANIO
‘Tis not unknown to you, Antonio,
How much I have disabled mine estate,
By something showing a more swelling port
Than my faint means would grant continuance:
Nor do I now make moan to be abridged
From such a noble rate; but my chief care
Is to come fairly off from the great debts
Wherein my time something too prodigal
Hath left me gaged. To you, Antonio,
I owe the most, in money and in love,
And from your love I have a warranty
To unburden all my plots and purposes
How to get clear of all the debts I owe.
ANTONIO
I pray you, good Bassanio, let me know it;
And if it stand, as you yourself still do,
Within the eye of honour, be assured,
My purse, my person, my extremest means,
Lie all unlock’d to your occasions.
BASSANIO
In my school-days, when I had lost one shaft,
I shot his fellow of the self-same flight
The self-same way with more advised watch,
To find the other forth, and by adventuring both
I oft found both: I urge this childhood proof,
Because what follows is pure innocence.
I owe you much, and, like a wilful youth,
That which I owe is lost; but if you please
To shoot another arrow that self way
Which you did shoot the first, I do not doubt,
As I will watch the aim, or to find both
Or bring your latter hazard back again
And thankfully rest debtor for the first.
ANTONIO
You know me well, and herein spend but time
To wind about my love with circumstance;
And out of doubt you do me now more wrong
In making question of my uttermost
Than if you had made waste of all I have:
Then do but say to me what I should do
That in your knowledge may by me be done,
And I am prest unto it: therefore, speak.
BASSANIO
In Belmont is a lady richly left;
And she is fair, and, fairer than that word,
Of wondrous virtues: sometimes from her eyes
I did receive fair speechless messages:
Her name is Portia, nothing undervalued
To Cato’s daughter, Brutus’ Portia:
Nor is the wide world ignorant of her worth,
For the four winds blow in from every coast
Renowned suitors, and her sunny locks
Hang on her temples like a golden fleece;
Which makes her seat of Belmont Colchos’ strand,
And many Jasons come in quest of her.
O my Antonio, had I but the means
To hold a rival place with one of them,
I have a mind presages me such thrift,
That I should questionless be fortunate!
ANTONIO
Thou know’st that all my fortunes are at sea;
Neither have I money nor commodity
To raise a present sum: therefore go forth;
Try what my credit can in Venice do:
That shall be rack’d, even to the uttermost,
To furnish thee to Belmont, to fair Portia.
Go, presently inquire, and so will I,
Where money is, and I no question make
To have it of my trust or for my sake.
Exeunt

SCENE II: Belmont. A room in PORTIA’S house.
Enter PORTIA and NERISSA

PORTIA
By my troth, Nerissa, my little body is aweary of
this great world.
NERISSA
You would be, sweet madam, if your miseries were in
the same abundance as your good fortunes are: and
yet, for aught I see, they are as sick that surfeit
with too much as they that starve with nothing. It
is no mean happiness therefore, to be seated in the
mean: superfluity comes sooner by white hairs, but
competency lives longer.
PORTIA
Good sentences and well pronounced.
NERISSA
They would be better, if well followed.
PORTIA
If to do were as easy as to know what were good to
do, chapels had been churches and poor men’s
cottages princes’ palaces. It is a good divine that
follows his own instructions: I can easier teach
twenty what were good to be done, than be one of the
twenty to follow mine own teaching. The brain may
devise laws for the blood, but a hot temper leaps
o’er a cold decree: such a hare is madness the
youth, to skip o’er the meshes of good counsel the
cripple. But this reasoning is not in the fashion to
choose me a husband. O me, the word ‘choose!’ I may
neither choose whom I would nor refuse whom I
dislike; so is the will of a living daughter curbed
by the will of a dead father. Is it not hard,
Nerissa, that I cannot choose one nor refuse none?
NERISSA
Your father was ever virtuous; and holy men at their
death have good inspirations: therefore the lottery,
that he hath devised in these three chests of gold,
silver and lead, whereof who chooses his meaning
chooses you, will, no doubt, never be chosen by any
rightly but one who shall rightly love. But what
warmth is there in your affection towards any of
these princely suitors that are already come?
PORTIA
I pray thee, over-name them; and as thou namest
them, I will describe them; and, according to my
description, level at my affection.
NERISSA
First, there is the Neapolitan prince.
PORTIA
Ay, that’s a colt indeed, for he doth nothing but
talk of his horse; and he makes it a great
appropriation to his own good parts, that he can
shoe him himself. I am much afeard my lady his
mother played false with a smith.
NERISSA
Then there is the County Palatine.
PORTIA
He doth nothing but frown, as who should say ‘If you
will not have me, choose:’ he hears merry tales and
smiles not: I fear he will prove the weeping
philosopher when he grows old, being so full of
unmannerly sadness in his youth. I had rather be
married to a death’s-head with a bone in his mouth
than to either of these. God defend me from these
two!
NERISSA
How say you by the French lord, Monsieur Le Bon?
PORTIA
God made him, and therefore let him pass for a man.
In truth, I know it is a sin to be a mocker: but,
he! why, he hath a horse better than the
Neapolitan’s, a better bad habit of frowning than
the Count Palatine; he is every man in no man; if a
throstle sing, he falls straight a capering: he will
fence with his own shadow: if I should marry him, I
should marry twenty husbands. If he would despise me
I would forgive him, for if he love me to madness, I
shall never requite him.
NERISSA
What say you, then, to Falconbridge, the young baron
of England?
PORTIA
You know I say nothing to him, for he understands
not me, nor I him: he hath neither Latin, French,
nor Italian, and you will come into the court and
swear that I have a poor pennyworth in the English.
He is a proper man’s picture, but, alas, who can
converse with a dumb-show? How oddly he is suited!
I think he bought his doublet in Italy, his round
hose in France, his bonnet in Germany and his
behavior every where.
NERISSA
What think you of the Scottish lord, his neighbour?
PORTIA
That he hath a neighbourly charity in him, for he
borrowed a box of the ear of the Englishman and
swore he would pay him again when he was able: I
think the Frenchman became his surety and sealed
under for another.
NERISSA
How like you the young German, the Duke of Saxony’s nephew?
PORTIA
Very vilely in the morning, when he is sober, and
most vilely in the afternoon, when he is drunk: when
he is best, he is a little worse than a man, and
when he is worst, he is little better than a beast:
and the worst fall that ever fell, I hope I shall
make shift to go without him.
NERISSA
If he should offer to choose, and choose the right
casket, you should refuse to perform your father’s
will, if you should refuse to accept him.
PORTIA
Therefore, for fear of the worst, I pray thee, set a
deep glass of rhenish wine on the contrary casket,
for if the devil be within and that temptation
without, I know he will choose it. I will do any
thing, Nerissa, ere I’ll be married to a sponge.
NERISSA
You need not fear, lady, the having any of these
lords: they have acquainted me with their
determinations; which is, indeed, to return to their
home and to trouble you with no more suit, unless
you may be won by some other sort than your father’s
imposition depending on the caskets.
PORTIA
If I live to be as old as Sibylla, I will die as
chaste as Diana, unless I be obtained by the manner
of my father’s will. I am glad this parcel of wooers
are so reasonable, for there is not one among them
but I dote on his very absence, and I pray God grant
them a fair departure.
NERISSA
Do you not remember, lady, in your father’s time, a
Venetian, a scholar and a soldier, that came hither
in company of the Marquis of Montferrat?
PORTIA
Yes, yes, it was Bassanio; as I think, he was so called.
NERISSA
True, madam: he, of all the men that ever my foolish
eyes looked upon, was the best deserving a fair lady.
PORTIA
I remember him well, and I remember him worthy of
thy praise.
Enter a Serving-man

How now! what news?
Servant
The four strangers seek for you, madam, to take
their leave: and there is a forerunner come from a
fifth, the Prince of Morocco, who brings word the
prince his master will be here to-night.
PORTIA
If I could bid the fifth welcome with so good a
heart as I can bid the other four farewell, I should
be glad of his approach: if he have the condition
of a saint and the complexion of a devil, I had
rather he should shrive me than wive me. Come,
Nerissa. Sirrah, go before.
Whiles we shut the gates
upon one wooer, another knocks at the door.
Exeunt

SCENE III. Venice. A public place.
Enter BASSANIO and SHYLOCK
SHYLOCK
Three thousand ducats; well.
BASSANIO
Ay, sir, for three months.
SHYLOCK
For three months; well.
BASSANIO
For the which, as I told you, Antonio shall be bound.
SHYLOCK
Antonio shall become bound; well.
BASSANIO
May you stead me? will you pleasure me? shall I
know your answer?
SHYLOCK
Three thousand ducats for three months and Antonio bound.
BASSANIO
Your answer to that.
SHYLOCK
Antonio is a good man.
BASSANIO
Have you heard any imputation to the contrary?
SHYLOCK
Oh, no, no, no, no: my meaning in saying he is a
good man is to have you understand me that he is
sufficient. Yet his means are in supposition: he
hath an argosy bound to Tripolis, another to the
Indies; I understand moreover, upon the Rialto, he
hath a third at Mexico, a fourth for England, and
other ventures he hath, squandered abroad. But ships
are but boards, sailors but men: there be land-rats
and water-rats, water-thieves and land-thieves, I
mean pirates, and then there is the peril of waters,
winds and rocks. The man is, notwithstanding,
sufficient. Three thousand ducats; I think I may
take his bond.
BASSANIO
Be assured you may.
SHYLOCK
I will be assured I may; and, that I may be assured,
I will bethink me. May I speak with Antonio?
BASSANIO
If it please you to dine with us.
SHYLOCK
Yes, to smell pork; to eat of the habitation which
your prophet the Nazarite conjured the devil into. I
will buy with you, sell with you, talk with you,
walk with you, and so following, but I will not eat
with you, drink with you, nor pray with you. What
news on the Rialto? Who is he comes here?
Enter ANTONIO

BASSANIO
This is Signior Antonio.
SHYLOCK
[Aside] How like a fawning publican he looks!
I hate him for he is a Christian,
But more for that in low simplicity
He lends out money gratis and brings down
The rate of usance here with us in Venice.
If I can catch him once upon the hip,
I will feed fat the ancient grudge I bear him.
He hates our sacred nation, and he rails,
Even there where merchants most do congregate,
On me, my bargains and my well-won thrift,
Which he calls interest. Cursed be my tribe,
If I forgive him!
BASSANIO
Shylock, do you hear?
SHYLOCK
I am debating of my present store,
And, by the near guess of my memory,
I cannot instantly raise up the gross
Of full three thousand ducats. What of that?
Tubal, a wealthy Hebrew of my tribe,
Will furnish me. But soft! how many months
Do you desire?
To ANTONIO

Rest you fair, good signior;
Your worship was the last man in our mouths.
ANTONIO
Shylock, although I neither lend nor borrow
By taking nor by giving of excess,
Yet, to supply the ripe wants of my friend,
I’ll break a custom. Is he yet possess’d
How much ye would?
SHYLOCK
Ay, ay, three thousand ducats.
ANTONIO
And for three months.
SHYLOCK
I had forgot; three months; you told me so.
Well then, your bond; and let me see; but hear you;
Methought you said you neither lend nor borrow
Upon advantage.
ANTONIO
I do never use it.
SHYLOCK
When Jacob grazed his uncle Laban’s sheep–
This Jacob from our holy Abram was,
As his wise mother wrought in his behalf,
The third possessor; ay, he was the third–
ANTONIO
And what of him? did he take interest?
SHYLOCK
No, not take interest, not, as you would say,
Directly interest: mark what Jacob did.
When Laban and himself were compromised
That all the eanlings which were streak’d and pied
Should fall as Jacob’s hire, the ewes, being rank,
In the end of autumn turned to the rams,
And, when the work of generation was
Between these woolly breeders in the act,
The skilful shepherd peel’d me certain wands,
And, in the doing of the deed of kind,
He stuck them up before the fulsome ewes,
Who then conceiving did in eaning time
Fall parti-colour’d lambs, and those were Jacob’s.
This was a way to thrive, and he was blest:
And thrift is blessing, if men steal it not.
ANTONIO
This was a venture, sir, that Jacob served for;
A thing not in his power to bring to pass,
But sway’d and fashion’d by the hand of heaven.
Was this inserted to make interest good?
Or is your gold and silver ewes and rams?
SHYLOCK
I cannot tell; I make it breed as fast:
But note me, signior.
ANTONIO
Mark you this, Bassanio,
The devil can cite Scripture for his purpose.
An evil soul producing holy witness
Is like a villain with a smiling cheek,
A goodly apple rotten at the heart:
O, what a goodly outside falsehood hath!
SHYLOCK
Three thousand ducats; ’tis a good round sum.
Three months from twelve; then, let me see; the rate–
ANTONIO
Well, Shylock, shall we be beholding to you?
SHYLOCK
Signior Antonio, many a time and oft
In the Rialto you have rated me
About my moneys and my usances:
Still have I borne it with a patient shrug,
For sufferance is the badge of all our tribe.
You call me misbeliever, cut-throat dog,
And spit upon my Jewish gaberdine,
And all for use of that which is mine own.
Well then, it now appears you need my help:
Go to, then; you come to me, and you say
‘Shylock, we would have moneys:’ you say so;
You, that did void your rheum upon my beard
And foot me as you spurn a stranger cur
Over your threshold: moneys is your suit
What should I say to you? Should I not say
‘Hath a dog money? is it possible
A cur can lend three thousand ducats?’ Or
Shall I bend low and in a bondman’s key,
With bated breath and whispering humbleness, Say this;
‘Fair sir, you spit on me on Wednesday last;
You spurn’d me such a day; another time
You call’d me dog; and for these courtesies
I’ll lend you thus much moneys’?
ANTONIO
I am as like to call thee so again,
To spit on thee again, to spurn thee too.
If thou wilt lend this money, lend it not
As to thy friends; for when did friendship take
A breed for barren metal of his friend?
But lend it rather to thine enemy,
Who, if he break, thou mayst with better face
Exact the penalty.
SHYLOCK
Why, look you, how you storm!
I would be friends with you and have your love,
Forget the shames that you have stain’d me with,
Supply your present wants and take no doit
Of usance for my moneys, and you’ll not hear me:
This is kind I offer.
BASSANIO
This were kindness.
SHYLOCK
This kindness will I show.
Go with me to a notary, seal me there
Your single bond; and, in a merry sport,
If you repay me not on such a day,
In such a place, such sum or sums as are
Express’d in the condition, let the forfeit
Be nominated for an equal pound
Of your fair flesh, to be cut off and taken
In what part of your body pleaseth me.
ANTONIO
Content, i’ faith: I’ll seal to such a bond
And say there is much kindness in the Jew.
BASSANIO
You shall not seal to such a bond for me:
I’ll rather dwell in my necessity.
ANTONIO
Why, fear not, man; I will not forfeit it:
Within these two months, that’s a month before
This bond expires, I do expect return
Of thrice three times the value of this bond.
SHYLOCK
O father Abram, what these Christians are,
Whose own hard dealings teaches them suspect
The thoughts of others! Pray you, tell me this;
If he should break his day, what should I gain
By the exaction of the forfeiture?
A pound of man’s flesh taken from a man
Is not so estimable, profitable neither,
As flesh of muttons, beefs, or goats. I say,
To buy his favour, I extend this friendship:
If he will take it, so; if not, adieu;
And, for my love, I pray you wrong me not.
ANTONIO
Yes Shylock, I will seal unto this bond.
SHYLOCK
Then meet me forthwith at the notary’s;
Give him direction for this merry bond,
And I will go and purse the ducats straight,
See to my house, left in the fearful guard
Of an unthrifty knave, and presently
I will be with you.
ANTONIO
Hie thee, gentle Jew.
Exit Shylock

The Hebrew will turn Christian: he grows kind.
BASSANIO
I like not fair terms and a villain’s mind.
ANTONIO
Come on: in this there can be no dismay;
My ships come home a month before the day.
Exeunt

ACT II
SCENE I. Belmont. A room in PORTIA’S house.
Flourish of cornets. Enter the PRINCE OF MOROCCO and his train; PORTIA, NERISSA, and others attending
MOROCCO
Mislike me not for my complexion,
The shadow’d livery of the burnish’d sun,
To whom I am a neighbour and near bred.
Bring me the fairest creature northward born,
Where Phoebus’ fire scarce thaws the icicles,
And let us make incision for your love,
To prove whose blood is reddest, his or mine.
I tell thee, lady, this aspect of mine
Hath fear’d the valiant: by my love I swear
The best-regarded virgins of our clime
Have loved it too: I would not change this hue,
Except to steal your thoughts, my gentle queen.
PORTIA
In terms of choice I am not solely led
By nice direction of a maiden’s eyes;
Besides, the lottery of my destiny
Bars me the right of voluntary choosing:
But if my father had not scanted me
And hedged me by his wit, to yield myself
His wife who wins me by that means I told you,
Yourself, renowned prince, then stood as fair
As any comer I have look’d on yet
For my affection.
MOROCCO
Even for that I thank you:
Therefore, I pray you, lead me to the caskets
To try my fortune. By this scimitar
That slew the Sophy and a Persian prince
That won three fields of Sultan Solyman,
I would outstare the sternest eyes that look,
Outbrave the heart most daring on the earth,
Pluck the young sucking cubs from the she-bear,
Yea, mock the lion when he roars for prey,
To win thee, lady. But, alas the while!
If Hercules and Lichas play at dice
Which is the better man, the greater throw
May turn by fortune from the weaker hand:
So is Alcides beaten by his page;
And so may I, blind fortune leading me,
Miss that which one unworthier may attain,
And die with grieving.
PORTIA
You must take your chance,
And either not attempt to choose at all
Or swear before you choose, if you choose wrong
Never to speak to lady afterward
In way of marriage: therefore be advised.
MOROCCO
Nor will not. Come, bring me unto my chance.
PORTIA
First, forward to the temple: after dinner
Your hazard shall be made.
MOROCCO
Good fortune then!
To make me blest or cursed’st among men.
Cornets, and exeunt

SCENE II. Venice. A street.
Enter LAUNCELOT
LAUNCELOT
Certainly my conscience will serve me to run from
this Jew my master. The fiend is at mine elbow and
tempts me saying to me ‘Gobbo, Launcelot Gobbo, good
Launcelot,’ or ‘good Gobbo,’ or good Launcelot
Gobbo, use your legs, take the start, run away. My
conscience says ‘No; take heed,’ honest Launcelot;
take heed, honest Gobbo, or, as aforesaid, ‘honest
Launcelot Gobbo; do not run; scorn running with thy
heels.’ Well, the most courageous fiend bids me
pack: ‘Via!’ says the fiend; ‘away!’ says the
fiend; ‘for the heavens, rouse up a brave mind,’
says the fiend, ‘and run.’ Well, my conscience,
hanging about the neck of my heart, says very wisely
to me ‘My honest friend Launcelot, being an honest
man’s son,’ or rather an honest woman’s son; for,
indeed, my father did something smack, something
grow to, he had a kind of taste; well, my conscience
says ‘Launcelot, budge not.’ ‘Budge,’ says the
fiend. ‘Budge not,’ says my conscience.
‘Conscience,’ say I, ‘you counsel well;’ ‘ Fiend,’
say I, ‘you counsel well:’ to be ruled by my
conscience, I should stay with the Jew my master,
who, God bless the mark, is a kind of devil; and, to
run away from the Jew, I should be ruled by the
fiend, who, saving your reverence, is the devil
himself. Certainly the Jew is the very devil
incarnal; and, in my conscience, my conscience is
but a kind of hard conscience, to offer to counsel
me to stay with the Jew. The fiend gives the more
friendly counsel: I will run, fiend; my heels are
at your command; I will run.
Enter Old GOBBO, with a basket

GOBBO
Master young man, you, I pray you, which is the way
to master Jew’s?
LAUNCELOT
[Aside] O heavens, this is my true-begotten father!
who, being more than sand-blind, high-gravel blind,
knows me not: I will try confusions with him.
GOBBO
Master young gentleman, I pray you, which is the way
to master Jew’s?
LAUNCELOT
Turn up on your right hand at the next turning, but,
at the next turning of all, on your left; marry, at
the very next turning, turn of no hand, but turn
down indirectly to the Jew’s house.
GOBBO
By God’s sonties, ’twill be a hard way to hit. Can
you tell me whether one Launcelot,
that dwells with him, dwell with him or no?
LAUNCELOT
Talk you of young Master Launcelot?
Aside

Mark me now; now will I raise the waters. Talk you
of young Master Launcelot?
GOBBO
No master, sir, but a poor man’s son: his father,
though I say it, is an honest exceeding poor man
and, God be thanked, well to live.
LAUNCELOT
Well, let his father be what a’ will, we talk of
young Master Launcelot.
GOBBO
Your worship’s friend and Launcelot, sir.
LAUNCELOT
But I pray you, ergo, old man, ergo, I beseech you,
talk you of young Master Launcelot?
GOBBO
Of Launcelot, an’t please your mastership.
LAUNCELOT
Ergo, Master Launcelot. Talk not of Master
Launcelot, father; for the young gentleman,
according to Fates and Destinies and such odd
sayings, the Sisters Three and such branches of
learning, is indeed deceased, or, as you would say
in plain terms, gone to heaven.
GOBBO
Marry, God forbid! the boy was the very staff of my
age, my very prop.
LAUNCELOT
Do I look like a cudgel or a hovel-post, a staff or
a prop? Do you know me, father?
GOBBO
Alack the day, I know you not, young gentleman:
but, I pray you, tell me, is my boy, God rest his
soul, alive or dead?
LAUNCELOT
Do you not know me, father?
GOBBO
Alack, sir, I am sand-blind; I know you not.
LAUNCELOT
Nay, indeed, if you had your eyes, you might fail of
the knowing me: it is a wise father that knows his
own child. Well, old man, I will tell you news of
your son: give me your blessing: truth will come
to light; murder cannot be hid long; a man’s son
may, but at the length truth will out.
GOBBO
Pray you, sir, stand up: I am sure you are not
Launcelot, my boy.
LAUNCELOT
Pray you, let’s have no more fooling about it, but
give me your blessing: I am Launcelot, your boy
that was, your son that is, your child that shall
be.
GOBBO
I cannot think you are my son.
LAUNCELOT
I know not what I shall think of that: but I am
Launcelot, the Jew’s man, and I am sure Margery your
wife is my mother.
GOBBO
Her name is Margery, indeed: I’ll be sworn, if thou
be Launcelot, thou art mine own flesh and blood.
Lord worshipped might he be! what a beard hast thou
got! thou hast got more hair on thy chin than
Dobbin my fill-horse has on his tail.
LAUNCELOT
It should seem, then, that Dobbin’s tail grows
backward: I am sure he had more hair of his tail
than I have of my face when I last saw him.
GOBBO
Lord, how art thou changed! How dost thou and thy
master agree? I have brought him a present. How
‘gree you now?
LAUNCELOT
Well, well: but, for mine own part, as I have set
up my rest to run away, so I will not rest till I
have run some ground. My master’s a very Jew: give
him a present! give him a halter: I am famished in
his service; you may tell every finger I have with
my ribs. Father, I am glad you are come: give me
your present to one Master Bassanio, who, indeed,
gives rare new liveries: if I serve not him, I
will run as far as God has any ground. O rare
fortune! here comes the man: to him, father; for I
am a Jew, if I serve the Jew any longer.
Enter BASSANIO, with LEONARDO and other followers

BASSANIO
You may do so; but let it be so hasted that supper
be ready at the farthest by five of the clock. See
these letters delivered; put the liveries to making,
and desire Gratiano to come anon to my lodging.
Exit a Servant

LAUNCELOT
To him, father.
GOBBO
God bless your worship!
BASSANIO
Gramercy! wouldst thou aught with me?
GOBBO
Here’s my son, sir, a poor boy,–
LAUNCELOT
Not a poor boy, sir, but the rich Jew’s man; that
would, sir, as my father shall specify–
GOBBO
He hath a great infection, sir, as one would say, to serve–
LAUNCELOT
Indeed, the short and the long is, I serve the Jew,
and have a desire, as my father shall specify–
GOBBO
His master and he, saving your worship’s reverence,
are scarce cater-cousins–
LAUNCELOT
To be brief, the very truth is that the Jew, having
done me wrong, doth cause me, as my father, being, I
hope, an old man, shall frutify unto you–
GOBBO
I have here a dish of doves that I would bestow upon
your worship, and my suit is–
LAUNCELOT
In very brief, the suit is impertinent to myself, as
your worship shall know by this honest old man; and,
though I say it, though old man, yet poor man, my father.
BASSANIO
One speak for both. What would you?
LAUNCELOT
Serve you, sir.
GOBBO
That is the very defect of the matter, sir.
BASSANIO
I know thee well; thou hast obtain’d thy suit:
Shylock thy master spoke with me this day,
And hath preferr’d thee, if it be preferment
To leave a rich Jew’s service, to become
The follower of so poor a gentleman.
LAUNCELOT
The old proverb is very well parted between my
master Shylock and you, sir: you have the grace of
God, sir, and he hath enough.
BASSANIO
Thou speak’st it well. Go, father, with thy son.
Take leave of thy old master and inquire
My lodging out. Give him a livery
More guarded than his fellows’: see it done.
LAUNCELOT
Father, in. I cannot get a service, no; I have
ne’er a tongue in my head. Well, if any man in
Italy have a fairer table which doth offer to swear
upon a book, I shall have good fortune. Go to,
here’s a simple line of life: here’s a small trifle
of wives: alas, fifteen wives is nothing! eleven
widows and nine maids is a simple coming-in for one
man: and then to ‘scape drowning thrice, and to be
in peril of my life with the edge of a feather-bed;
here are simple scapes. Well, if Fortune be a
woman, she’s a good wench for this gear. Father,
come; I’ll take my leave of the Jew in the twinkling of an eye.
Exeunt Launcelot and Old Gobbo

BASSANIO
I pray thee, good Leonardo, think on this:
These things being bought and orderly bestow’d,
Return in haste, for I do feast to-night
My best-esteem’d acquaintance: hie thee, go.
LEONARDO
My best endeavours shall be done herein.
Enter GRATIANO

GRATIANO
Where is your master?
LEONARDO
Yonder, sir, he walks.
Exit

GRATIANO
Signior Bassanio!
BASSANIO
Gratiano!
GRATIANO
I have a suit to you.
BASSANIO
You have obtain’d it.
GRATIANO
You must not deny me: I must go with you to Belmont.
BASSANIO
Why then you must. But hear thee, Gratiano;
Thou art too wild, too rude and bold of voice;
Parts that become thee happily enough
And in such eyes as ours appear not faults;
But where thou art not known, why, there they show
Something too liberal. Pray thee, take pain
To allay with some cold drops of modesty
Thy skipping spirit, lest through thy wild behavior
I be misconstrued in the place I go to,
And lose my hopes.
GRATIANO
Signior Bassanio, hear me:
If I do not put on a sober habit,
Talk with respect and swear but now and then,
Wear prayer-books in my pocket, look demurely,
Nay more, while grace is saying, hood mine eyes
Thus with my hat, and sigh and say ‘amen,’
Use all the observance of civility,
Like one well studied in a sad ostent
To please his grandam, never trust me more.
BASSANIO
Well, we shall see your bearing.
GRATIANO
Nay, but I bar to-night: you shall not gauge me
By what we do to-night.
BASSANIO
No, that were pity:
I would entreat you rather to put on
Your boldest suit of mirth, for we have friends
That purpose merriment. But fare you well:
I have some business.
GRATIANO
And I must to Lorenzo and the rest:
But we will visit you at supper-time.
Exeunt

SCENE III. The same. A room in SHYLOCK’S house.
Enter JESSICA and LAUNCELOT
JESSICA
I am sorry thou wilt leave my father so:
Our house is hell, and thou, a merry devil,
Didst rob it of some taste of tediousness.
But fare thee well, there is a ducat for thee:
And, Launcelot, soon at supper shalt thou see
Lorenzo, who is thy new master’s guest:
Give him this letter; do it secretly;
And so farewell: I would not have my father
See me in talk with thee.
LAUNCELOT
Adieu! tears exhibit my tongue. Most beautiful
pagan, most sweet Jew! if a Christian did not play
the knave and get thee, I am much deceived. But,
adieu: these foolish drops do something drown my
manly spirit: adieu.
JESSICA
Farewell, good Launcelot.
Exit Launcelot

Alack, what heinous sin is it in me
To be ashamed to be my father’s child!
But though I am a daughter to his blood,
I am not to his manners. O Lorenzo,
If thou keep promise, I shall end this strife,
Become a Christian and thy loving wife.
Exit

SCENE IV. The same. A street.
Enter GRATIANO, LORENZO, SALARINO, and SALANIO
LORENZO
Nay, we will slink away in supper-time,
Disguise us at my lodging and return,
All in an hour.
GRATIANO
We have not made good preparation.
SALARINO
We have not spoke us yet of torchbearers.
SALANIO
‘Tis vile, unless it may be quaintly order’d,
And better in my mind not undertook.
LORENZO
‘Tis now but four o’clock: we have two hours
To furnish us.
Enter LAUNCELOT, with a letter

Friend Launcelot, what’s the news?
LAUNCELOT
An it shall please you to break up
this, it shall seem to signify.
LORENZO
I know the hand: in faith, ’tis a fair hand;
And whiter than the paper it writ on
Is the fair hand that writ.
GRATIANO
Love-news, in faith.
LAUNCELOT
By your leave, sir.
LORENZO
Whither goest thou?
LAUNCELOT
Marry, sir, to bid my old master the
Jew to sup to-night with my new master the Christian.
LORENZO
Hold here, take this: tell gentle Jessica
I will not fail her; speak it privately.
Go, gentlemen,
Exit Launcelot

Will you prepare you for this masque tonight?
I am provided of a torch-bearer.
SALANIO
Ay, marry, I’ll be gone about it straight.
SALANIO
And so will I.
LORENZO
Meet me and Gratiano
At Gratiano’s lodging some hour hence.
SALARINO
‘Tis good we do so.
Exeunt SALARINO and SALANIO

GRATIANO
Was not that letter from fair Jessica?
LORENZO
I must needs tell thee all. She hath directed
How I shall take her from her father’s house,
What gold and jewels she is furnish’d with,
What page’s suit she hath in readiness.
If e’er the Jew her father come to heaven,
It will be for his gentle daughter’s sake:
And never dare misfortune cross her foot,
Unless she do it under this excuse,
That she is issue to a faithless Jew.
Come, go with me; peruse this as thou goest:
Fair Jessica shall be my torch-beare r.
Exeunt

SCENE V. The same. Before SHYLOCK’S house.
Enter SHYLOCK and LAUNCELOT
SHYLOCK
Well, thou shalt see, thy eyes shall be thy judge,
The difference of old Shylock and Bassanio:–
What, Jessica!–thou shalt not gormandise,
As thou hast done with me:–What, Jessica!–
And sleep and snore, and rend apparel out;–
Why, Jessica, I say!
LAUNCELOT
Why, Jessica!
SHYLOCK
Who bids thee call? I do not bid thee call.
LAUNCELOT
Your worship was wont to tell me that
I could do nothing without bidding.
Enter Jessica

JESSICA
Call you? what is your will?
SHYLOCK
I am bid forth to supper, Jessica:
There are my keys. But wherefore should I go?
I am not bid for love; they flatter me:
But yet I’ll go in hate, to feed upon
The prodigal Christian. Jessica, my girl,
Look to my house. I am right loath to go:
There is some ill a-brewing towards my rest,
For I did dream of money-bags to-night.
LAUNCELOT
I beseech you, sir, go: my young master doth expect
your reproach.
SHYLOCK
So do I his.
LAUNCELOT
An they have conspired together, I will not say you
shall see a masque; but if you do, then it was not
for nothing that my nose fell a-bleeding on
Black-Monday last at six o’clock i’ the morning,
falling out that year on Ash-Wednesday was four
year, in the afternoon.
SHYLOCK
What, are there masques? Hear you me, Jessica:
Lock up my doors; and when you hear the drum
And the vile squealing of the wry-neck’d fife,
Clamber not you up to the casements then,
Nor thrust your head into the public street
To gaze on Christian fools with varnish’d faces,
But stop my house’s ears, I mean my casements:
Let not the sound of shallow foppery enter
My sober house. By Jacob’s staff, I swear,
I have no mind of feasting forth to-night:
But I will go. Go you before me, sirrah;
Say I will come.
LAUNCELOT
I will go before, sir. Mistress, look out at
window, for all this, There will come a Christian
boy, will be worth a Jewess’ eye.
Exit

SHYLOCK
What says that fool of Hagar’s offspring, ha?
JESSICA
His words were ‘Farewell mistress;’ nothing else.
SHYLOCK
The patch is kind enough, but a huge feeder;
Snail-slow in profit, and he sleeps by day
More than the wild-cat: drones hive not with me;
Therefore I part with him, and part with him
To one that would have him help to waste
His borrow’d purse. Well, Jessica, go in;
Perhaps I will return immediately:
Do as I bid you; shut doors after you:
Fast bind, fast find;
A proverb never stale in thrifty mind.
Exit

JESSICA
Farewell; and if my fortune be not crost,
I have a father, you a daughter, lost.
Exit

SCENE VI. The same.
Enter GRATIANO and SALARINO, masqued
GRATIANO
This is the pent-house under which Lorenzo
Desired us to make stand.
SALARINO
His hour is almost past.
GRATIANO
And it is marvel he out-dwells his hour,
For lovers ever run before the clock.
SALARINO
O, ten times faster Venus’ pigeons fly
To seal love’s bonds new-made, than they are wont
To keep obliged faith unforfeited!
GRATIANO
That ever holds: who riseth from a feast
With that keen appetite that he sits down?
Where is the horse that doth untread again
His tedious measures with the unbated fire
That he did pace them first? All things that are,
Are with more spirit chased than enjoy’d.
How like a younker or a prodigal
The scarfed bark puts from her native bay,
Hugg’d and embraced by the strumpet wind!
How like the prodigal doth she return,
With over-weather’d ribs and ragged sails,
Lean, rent and beggar’d by the strumpet wind!
SALARINO
Here comes Lorenzo: more of this hereafter.
Enter LORENZO

LORENZO
Sweet friends, your patience for my long abode;
Not I, but my affairs, have made you wait:
When you shall please to play the thieves for wives,
I’ll watch as long for you then. Approach;
Here dwells my father Jew. Ho! who’s within?
Enter JESSICA, above, in boy’s clothes

JESSICA
Who are you? Tell me, for more certainty,
Albeit I’ll swear that I do know your tongue.
LORENZO
Lorenzo, and thy love.
JESSICA
Lorenzo, certain, and my love indeed,
For who love I so much? And now who knows
But you, Lorenzo, whether I am yours?
LORENZO
Heaven and thy thoughts are witness that thou art.
JESSICA
Here, catch this casket; it is worth the pains.
I am glad ’tis night, you do not look on me,
For I am much ashamed of my exchange:
But love is blind and lovers cannot see
The pretty follies that themselves commit;
For if they could, Cupid himself would blush
To see me thus transformed to a boy.
LORENZO
Descend, for you must be my torchbearer.
JESSICA
What, must I hold a candle to my shames?
They in themselves, good-sooth, are too too light.
Why, ’tis an office of discovery, love;
And I should be obscured.
LORENZO
So are you, sweet,
Even in the lovely garnish of a boy.
But come at once;
For the close night doth play the runaway,
And we are stay’d for at Bassanio’s feast.
JESSICA
I will make fast the doors, and gild myself
With some more ducats, and be with you straight.
Exit above

GRATIANO
Now, by my hood, a Gentile and no Jew.
LORENZO
Beshrew me but I love her heartily;
For she is wise, if I can judge of her,
And fair she is, if that mine eyes be true,
And true she is, as she hath proved herself,
And therefore, like herself, wise, fair and true,
Shall she be placed in my constant soul.
Enter JESSICA, below

What, art thou come? On, gentlemen; away!
Our masquing mates by this time for us stay.
Exit with Jessica and Salarino

Enter ANTONIO

ANTONIO
Who’s there?
GRATIANO
Signior Antonio!
ANTONIO
Fie, fie, Gratiano! where are all the rest?
‘Tis nine o’clock: our friends all stay for you.
No masque to-night: the wind is come about;
Bassanio presently will go aboard:
I have sent twenty out to seek for you.
GRATIANO
I am glad on’t: I desire no more delight
Than to be under sail and gone to-night.
Exeunt

SCENE VII. Belmont. A room in PORTIA’S house.
Flourish of cornets. Enter PORTIA, with the PRINCE OF MOROCCO, and their trains
PORTIA
Go draw aside the curtains and discover
The several caskets to this noble prince.
Now make your choice.
MOROCCO
The first, of gold, who this inscription bears,
‘Who chooseth me shall gain what many men desire;’
The second, silver, which this promise carries,
‘Who chooseth me shall get as much as he deserves;’
This third, dull lead, with warning all as blunt,
‘Who chooseth me must give and hazard all he hath.’
How shall I know if I do choose the right?
PORTIA
The one of them contains my picture, prince:
If you choose that, then I am yours withal.
MOROCCO
Some god direct my judgment! Let me see;
I will survey the inscriptions back again.
What says this leaden casket?
‘Who chooseth me must give and hazard all he hath.’
Must give: for what? for lead? hazard for lead?
This casket threatens. Men that hazard all
Do it in hope of fair advantages:
A golden mind stoops not to shows of dross;
I’ll then nor give nor hazard aught for lead.
What says the silver with her virgin hue?
‘Who chooseth me shall get as much as he deserves.’
As much as he deserves! Pause there, Morocco,
And weigh thy value with an even hand:
If thou be’st rated by thy estimation,
Thou dost deserve enough; and yet enough
May not extend so far as to the lady:
And yet to be afeard of my deserving
Were but a weak disabling of myself.
As much as I deserve! Why, that’s the lady:
I do in birth deserve her, and in fortunes,
In graces and in qualities of breeding;
But more than these, in love I do deserve.
What if I stray’d no further, but chose here?
Let’s see once more this saying graved in gold
‘Who chooseth me shall gain what many men desire.’
Why, that’s the lady; all the world desires her;
From the four corners of the earth they come,
To kiss this shrine, this mortal-breathing saint:
The Hyrcanian deserts and the vasty wilds
Of wide Arabia are as thoroughfares now
For princes to come view fair Portia:
The watery kingdom, whose ambitious head
Spits in the face of heaven, is no bar
To stop the foreign spirits, but they come,
As o’er a brook, to see fair Portia.
One of these three contains her heavenly picture.
Is’t like that lead contains her? ‘Twere damnation
To think so base a thought: it were too gross
To rib her cerecloth in the obscure grave.
Or shall I think in silver she’s immured,
Being ten times undervalued to tried gold?
O sinful thought! Never so rich a gem
Was set in worse than gold. They have in England
A coin that bears the figure of an angel
Stamped in gold, but that’s insculp’d upon;
But here an angel in a golden bed
Lies all within. Deliver me the key:
Here do I choose, and thrive I as I may!
PORTIA
There, take it, prince; and if my form lie there,
Then I am yours.
He unlocks the golden casket

MOROCCO
O hell! what have we here?
A carrion Death, within whose empty eye
There is a written scroll! I’ll read the writing.
Reads

All that glitters is not gold;
Often have you heard that told:
Many a man his life hath sold
But my outside to behold:
Gilded tombs do worms enfold.
Had you been as wise as bold,
Young in limbs, in judgment old,
Your answer had not been inscroll’d:
Fare you well; your suit is cold.
Cold, indeed; and labour lost:
Then, farewell, heat, and welcome, frost!
Portia, adieu. I have too grieved a heart
To take a tedious leave: thus losers part.
Exit with his train. Flourish of cornets

PORTIA
A gentle riddance. Draw the curtains, go.
Let all of his complexion choose me so.
Exeunt

SCENE VIII. Venice. A street.
Enter SALARINO and SALANIO
SALARINO
Why, man, I saw Bassanio under sail:
With him is Gratiano gone along;
And in their ship I am sure Lorenzo is not.
SALANIO
The villain Jew with outcries raised the duke,
Who went with him to search Bassanio’s ship.
SALARINO
He came too late, the ship was under sail:
But there the duke was given to understand
That in a gondola were seen together
Lorenzo and his amorous Jessica:
Besides, Antonio certified the duke
They were not with Bassanio in his ship.
SALANIO
I never heard a passion so confused,
So strange, outrageous, and so variable,
As the dog Jew did utter in the streets:
‘My daughter! O my ducats! O my daughter!
Fled with a Christian! O my Christian ducats!
Justice! the law! my ducats, and my daughter!
A sealed bag, two sealed bags of ducats,
Of double ducats, stolen from me by my daughter!
And jewels, two stones, two rich and precious stones,
Stolen by my daughter! Justice! find the girl;
She hath the stones upon her, and the ducats.’
SALARINO
Why, all the boys in Venice follow him,
Crying, his stones, his daughter, and his ducats.
SALANIO
Let good Antonio look he keep his day,
Or he shall pay for this.
SALARINO
Marry, well remember’d.
I reason’d with a Frenchman yesterday,
Who told me, in the narrow seas that part
The French and English, there miscarried
A vessel of our country richly fraught:
I thought upon Antonio when he told me;
And wish’d in silence that it were not his.
SALANIO
You were best to tell Antonio what you hear;
Yet do not suddenly, for it may grieve him.
SALARINO
A kinder gentleman treads not the earth.
I saw Bassanio and Antonio part:
Bassanio told him he would make some speed
Of his return: he answer’d, ‘Do not so;
Slubber not business for my sake, Bassanio
But stay the very riping of the time;
And for the Jew’s bond which he hath of me,
Let it not enter in your mind of love:
Be merry, and employ your chiefest thoughts
To courtship and such fair ostents of love
As shall conveniently become you there:’
And even there, his eye being big with tears,
Turning his face, he put his hand behind him,
And with affection wondrous sensible
He wrung Bassanio’s hand; and so they parted.
SALANIO
I think he only loves the world for him.
I pray thee, let us go and find him out
And quicken his embraced heaviness
With some delight or other.
SALARINO
Do we so.
Exeunt

SCENE IX. Belmont. A room in PORTIA’S house.
Enter NERISSA with a Servitor
NERISSA
Quick, quick, I pray thee; draw the curtain straight:
The Prince of Arragon hath ta’en his oath,
And comes to his election presently.
Flourish of cornets. Enter the PRINCE OF ARRAGON, PORTIA, and their trains

PORTIA
Behold, there stand the caskets, noble prince:
If you choose that wherein I am contain’d,
Straight shall our nuptial rites be solemnized:
But if you fail, without more speech, my lord,
You must be gone from hence immediately.
ARRAGON
I am enjoin’d by oath to observe three things:
First, never to unfold to any one
Which casket ’twas I chose; next, if I fail
Of the right casket, never in my life
To woo a maid in way of marriage: Lastly,
If I do fail in fortune of my choice,
Immediately to leave you and be gone.
PORTIA
To these injunctions every one doth swear
That comes to hazard for my worthless self.
ARRAGON
And so have I address’d me. Fortune now
To my heart’s hope! Gold; silver; and base lead.
‘Who chooseth me must give and hazard all he hath.’
You shall look fairer, ere I give or hazard.
What says the golden chest? ha! let me see:
‘Who chooseth me shall gain what many men desire.’
What many men desire! that ‘many’ may be meant
By the fool multitude, that choose by show,
Not learning more than the fond eye doth teach;
Which pries not to the interior, but, like the martlet,
Builds in the weather on the outward wall,
Even in the force and road of casualty.
I will not choose what many men desire,
Because I will not jump with common spirits
And rank me with the barbarous multitudes.
Why, then to thee, thou silver treasure-house;
Tell me once more what title thou dost bear:
‘Who chooseth me shall get as much as he deserves:’
And well said too; for who shall go about
To cozen fortune and be honourable
Without the stamp of merit? Let none presume
To wear an undeserved dignity.
O, that estates, degrees and offices
Were not derived corruptly, and that clear honour
Were purchased by the merit of the wearer!
How many then should cover that stand bare!
How many be commanded that command!
How much low peasantry would then be glean’d
From the true seed of honour! and how much honour
Pick’d from the chaff and ruin of the times
To be new-varnish’d! Well, but to my choice:
‘Who chooseth me shall get as much as he deserves.’
I will assume desert. Give me a key for this,
And instantly unlock my fortunes here.
He opens the silver casket

PORTIA
Too long a pause for that which you find there.
ARRAGON
What’s here? the portrait of a blinking idiot,
Presenting me a schedule! I will read it.
How much unlike art thou to Portia!
How much unlike my hopes and my deservings!
‘Who chooseth me shall have as much as he deserves.’
Did I deserve no more than a fool’s head?
Is that my prize? are my deserts no better?
PORTIA
To offend, and judge, are distinct offices
And of opposed natures.
ARRAGON
What is here?
Reads

The fire seven times tried this:
Seven times tried that judgment is,
That did never choose amiss.
Some there be that shadows kiss;
Such have but a shadow’s bliss:
There be fools alive, I wis,
Silver’d o’er; and so was this.
Take what wife you will to bed,
I will ever be your head:
So be gone: you are sped.
Still more fool I shall appear
By the time I linger here
With one fool’s head I came to woo,
But I go away with two.
Sweet, adieu. I’ll keep my oath,
Patiently to bear my wroth.
Exeunt Arragon and train

PORTIA
Thus hath the candle singed the moth.
O, these deliberate fools! when they do choose,
They have the wisdom by their wit to lose.
NERISSA
The ancient saying is no heresy,
Hanging and wiving goes by destiny.
PORTIA
Come, draw the curtain, Nerissa.
Enter a Servant

Servant
Where is my lady?
PORTIA
Here: what would my lord?
Servant
Madam, there is alighted at your gate
A young Venetian, one that comes before
To signify the approaching of his lord;
From whom he bringeth sensible regreets,
To wit, besides commends and courteous breath,
Gifts of rich value. Yet I have not seen
So likely an ambassador of love:
A day in April never came so sweet,
To show how costly summer was at hand,
As this fore-spurrer comes before his lord.
PORTIA
No more, I pray thee: I am half afeard
Thou wilt say anon he is some kin to thee,
Thou spend’st such high-day wit in praising him.
Come, come, Nerissa; for I long to see
Quick Cupid’s post that comes so mannerly.
NERISSA
Bassanio, lord Love, if thy will it be!
Exeunt

ACT III
SCENE I. Venice. A street.
Enter SALANIO and SALARINO
SALANIO
Now, what news on the Rialto?
SALARINO
Why, yet it lives there uncheck’d that Antonio hath
a ship of rich lading wrecked on the narrow seas;
the Goodwins, I think they call the place; a very
dangerous flat and fatal, where the carcasses of many
a tall ship lie buried, as they say, if my gossip
Report be an honest woman of her word.
SALANIO
I would she were as lying a gossip in that as ever
knapped ginger or made her neighbours believe she
wept for the death of a third husband. But it is
true, without any slips of prolixity or crossing the
plain highway of talk, that the good Antonio, the
honest Antonio,–O that I had a title good enough
to keep his name company!–
SALARINO
Come, the full stop.
SALANIO
Ha! what sayest thou? Why, the end is, he hath
lost a ship.
SALARINO
I would it might prove the end of his losses.
SALANIO
Let me say ‘amen’ betimes, lest the devil cross my
prayer, for here he comes in the likeness of a Jew.
Enter SHYLOCK

How now, Shylock! what news among the merchants?
SHYLOCK
You know, none so well, none so well as you, of my
daughter’s flight.
SALARINO
That’s certain: I, for my part, knew the tailor
that made the wings she flew withal.
SALANIO
And Shylock, for his own part, knew the bird was
fledged; and then it is the complexion of them all
to leave the dam.
SHYLOCK
She is damned for it.
SALANIO
That’s certain, if the devil may be her judge.
SHYLOCK
My own flesh and blood to rebel!
SALANIO
Out upon it, old carrion! rebels it at these years?
SHYLOCK
I say, my daughter is my flesh and blood.
SALARINO
There is more difference between thy flesh and hers
than between jet and ivory; more between your bloods
than there is between red wine and rhenish. But
tell us, do you hear whether Antonio have had any
loss at sea or no?
SHYLOCK
There I have another bad match: a bankrupt, a
prodigal, who dare scarce show his head on the
Rialto; a beggar, that was used to come so smug upon
the mart; let him look to his bond: he was wont to
call me usurer; let him look to his bond: he was
wont to lend money for a Christian courtesy; let him
look to his bond.
SALARINO
Why, I am sure, if he forfeit, thou wilt not take
his flesh: what’s that good for?
SHYLOCK
To bait fish withal: if it will feed nothing else,
it will feed my revenge. He hath disgraced me, and
hindered me half a million; laughed at my losses,
mocked at my gains, scorned my nation, thwarted my
bargains, cooled my friends, heated mine
enemies; and what’s his reason? I am a Jew. Hath
not a Jew eyes? hath not a Jew hands, organs,
dimensions, senses, affections, passions? fed with
the same food, hurt with the same weapons, subject
to the same diseases, healed by the same means,
warmed and cooled by the same winter and summer, as
a Christian is? If you prick us, do we not bleed?
if you tickle us, do we not laugh? if you poison
us, do we not die? and if you wrong us, shall we not
revenge? If we are like you in the rest, we will
resemble you in that. If a Jew wrong a Christian,
what is his humility? Revenge. If a Christian
wrong a Jew, what should his sufferance be by
Christian example? Why, revenge. The villany you
teach me, I will execute, and it shall go hard but I
will better the instruction.
Enter a Servant

Servant
Gentlemen, my master Antonio is at his house and
desires to speak with you both.
SALARINO
We have been up and down to seek him.
Enter TUBAL

SALANIO
Here comes another of the tribe: a third cannot be
matched, unless the devil himself turn Jew.
Exeunt SALANIO, SALARINO, and Servant

SHYLOCK
How now, Tubal! what news from Genoa? hast thou
found my daughter?
TUBAL
I often came where I did hear of her, but cannot find her.
SHYLOCK
Why, there, there, there, there! a diamond gone,
cost me two thousand ducats in Frankfort! The curse
never fell upon our nation till now; I never felt it
till now: two thousand ducats in that; and other
precious, precious jewels. I would my daughter
were dead at my foot, and the jewels in her ear!
would she were hearsed at my foot, and the ducats in
her coffin! No news of them? Why, so: and I know
not what’s spent in the search: why, thou loss upon
loss! the thief gone with so much, and so much to
find the thief; and no satisfaction, no revenge:
nor no in luck stirring but what lights on my
shoulders; no sighs but of my breathing; no tears
but of my shedding.
TUBAL
Yes, other men have ill luck too: Antonio, as I
heard in Genoa,–
SHYLOCK
What, what, what? ill luck, ill luck?
TUBAL
Hath an argosy cast away, coming from Tripolis.
SHYLOCK
I thank God, I thank God. Is’t true, is’t true?
TUBAL
I spoke with some of the sailors that escaped the wreck.
SHYLOCK
I thank thee, good Tubal: good news, good news!
ha, ha! where? in Genoa?
TUBAL
Your daughter spent in Genoa, as I heard, in one
night fourscore ducats.
SHYLOCK
Thou stickest a dagger in me: I shall never see my
gold again: fourscore ducats at a sitting!
fourscore ducats!
TUBAL
There came divers of Antonio’s creditors in my
company to Venice, that swear he cannot choose but break.
SHYLOCK
I am very glad of it: I’ll plague him; I’ll torture
him: I am glad of it.
TUBAL
One of them showed me a ring that he had of your
daughter for a monkey.
SHYLOCK
Out upon her! Thou torturest me, Tubal: it was my
turquoise; I had it of Leah when I was a bachelor:
I would not have given it for a wilderness of monkeys.
TUBAL
But Antonio is certainly undone.
SHYLOCK
Nay, that’s true, that’s very true. Go, Tubal, fee
me an officer; bespeak him a fortnight before. I
will have the heart of him, if he forfeit; for, were
he out of Venice, I can make what merchandise I
will. Go, go, Tubal, and meet me at our synagogue;
go, good Tubal; at our synagogue, Tubal.
Exeunt

SCENE II. Belmont. A room in PORTIA’S house.
Enter BASSANIO, PORTIA, GRATIANO, NERISSA, and Attendants
PORTIA
I pray you, tarry: pause a day or two
Before you hazard; for, in choosing wrong,
I lose your company: therefore forbear awhile.
There’s something tells me, but it is not love,
I would not lose you; and you know yourself,
Hate counsels not in such a quality.
But lest you should not understand me well,–
And yet a maiden hath no tongue but thought,–
I would detain you here some month or two
Before you venture for me. I could teach you
How to choose right, but I am then forsworn;
So will I never be: so may you miss me;
But if you do, you’ll make me wish a sin,
That I had been forsworn. Beshrew your eyes,
They have o’erlook’d me and divided me;
One half of me is yours, the other half yours,
Mine own, I would say; but if mine, then yours,
And so all yours. O, these naughty times
Put bars between the owners and their rights!
And so, though yours, not yours. Prove it so,
Let fortune go to hell for it, not I.
I speak too long; but ’tis to peize the time,
To eke it and to draw it out in length,
To stay you from election.
BASSANIO
Let me choose
For as I am, I live upon the rack.
PORTIA
Upon the rack, Bassanio! then confess
What treason there is mingled with your love.
BASSANIO
None but that ugly treason of mistrust,
Which makes me fear the enjoying of my love:
There may as well be amity and life
‘Tween snow and fire, as treason and my love.
PORTIA
Ay, but I fear you speak upon the rack,
Where men enforced do speak anything.
BASSANIO
Promise me life, and I’ll confess the truth.
PORTIA
Well then, confess and live.
BASSANIO
‘Confess’ and ‘love’
Had been the very sum of my confession:
O happy torment, when my torturer
Doth teach me answers for deliverance!
But let me to my fortune and the caskets.
PORTIA
Away, then! I am lock’d in one of them:
If you do love me, you will find me out.
Nerissa and the rest, stand all aloof.
Let music sound while he doth make his choice;
Then, if he lose, he makes a swan-like end,
Fading in music: that the comparison
May stand more proper, my eye shall be the stream
And watery death-bed for him. He may win;
And what is music then? Then music is
Even as the flourish when true subjects bow
To a new-crowned monarch: such it is
As are those dulcet sounds in break of day
That creep into the dreaming bridegroom’s ear,
And summon him to marriage. Now he goes,
With no less presence, but with much more love,
Than young Alcides, when he did redeem
The virgin tribute paid by howling Troy
To the sea-monster: I stand for sacrifice
The rest aloof are the Dardanian wives,
With bleared visages, come forth to view
The issue of the exploit. Go, Hercules!
Live thou, I live: with much, much more dismay
I view the fight than thou that makest the fray.
Music, whilst BASSANIO comments on the caskets to himself

SONG.
Tell me where is fancy bred,
Or in the heart, or in the head?
How begot, how nourished?
Reply, reply.
It is engender’d in the eyes,
With gazing fed; and fancy dies
In the cradle where it lies.
Let us all ring fancy’s knell
I’ll begin it,–Ding, dong, bell.
ALL
Ding, dong, bell.
BASSANIO
So may the outward shows be least themselves:
The world is still deceived with ornament.
In law, what plea so tainted and corrupt,
But, being seasoned with a gracious voice,
Obscures the show of evil? In religion,
What damned error, but some sober brow
Will bless it and approve it with a text,
Hiding the grossness with fair ornament?
There is no vice so simple but assumes
Some mark of virtue on his outward parts:
How many cowards, whose hearts are all as false
As stairs of sand, wear yet upon their chins
The beards of Hercules and frowning Mars;
Who, inward search’d, have livers white as milk;
And these assume but valour’s excrement
To render them redoubted! Look on beauty,
And you shall see ’tis purchased by the weight;
Which therein works a miracle in nature,
Making them lightest that wear most of it:
So are those crisped snaky golden locks
Which make such wanton gambols with the wind,
Upon supposed fairness, often known
To be the dowry of a second head,
The skull that bred them in the sepulchre.
Thus ornament is but the guiled shore
To a most dangerous sea; the beauteous scarf
Veiling an Indian beauty; in a word,
The seeming truth which cunning times put on
To entrap the wisest. Therefore, thou gaudy gold,
Hard food for Midas, I will none of thee;
Nor none of thee, thou pale and common drudge
‘Tween man and man: but thou, thou meagre lead,
Which rather threatenest than dost promise aught,
Thy paleness moves me more than eloquence;
And here choose I; joy be the consequence!
PORTIA
[Aside] How all the other passions fleet to air,
As doubtful thoughts, and rash-embraced despair,
And shuddering fear, and green-eyed jealousy! O love,
Be moderate; allay thy ecstasy,
In measure rein thy joy; scant this excess.
I feel too much thy blessing: make it less,
For fear I surfeit.
BASSANIO
What find I here?
Opening the leaden casket

Fair Portia’s counterfeit! What demi-god
Hath come so near creation? Move these eyes?
Or whether, riding on the balls of mine,
Seem they in motion? Here are sever’d lips,
Parted with sugar breath: so sweet a bar
Should sunder such sweet friends. Here in her hairs
The painter plays the spider and hath woven
A golden mesh to entrap the hearts of men,
Faster than gnats in cobwebs; but her eyes,–
How could he see to do them? having made one,
Methinks it should have power to steal both his
And leave itself unfurnish’d. Yet look, how far
The substance of my praise doth wrong this shadow
In underprizing it, so far this shadow
Doth limp behind the substance. Here’s the scroll,
The continent and summary of my fortune.
Reads

You that choose not by the view,
Chance as fair and choose as true!
Since this fortune falls to you,
Be content and seek no new,
If you be well pleased with this
And hold your fortune for your bliss,
Turn you where your lady is
And claim her with a loving kiss.
A gentle scroll. Fair lady, by your leave;
I come by note, to give and to receive.
Like one of two contending in a prize,
That thinks he hath done well in people’s eyes,
Hearing applause and universal shout,
Giddy in spirit, still gazing in a doubt
Whether these pearls of praise be his or no;
So, thrice fair lady, stand I, even so;
As doubtful whether what I see be true,
Until confirm’d, sign’d, ratified by you.
PORTIA
You see me, Lord Bassanio, where I stand,
Such as I am: though for myself alone
I would not be ambitious in my wish,
To wish myself much better; yet, for you
I would be trebled twenty times myself;
A thousand times more fair, ten thousand times more rich;
That only to stand high in your account,
I might in virtue, beauties, livings, friends,
Exceed account; but the full sum of me
Is sum of something, which, to term in gross,
Is an unlesson’d girl, unschool’d, unpractised;
Happy in this, she is not yet so old
But she may learn; happier than this,
She is not bred so dull but she can learn;
Happiest of all is that her gentle spirit
Commits itself to yours to be directed,
As from her lord, her governor, her king.
Myself and what is mine to you and yours
Is now converted: but now I was the lord
Of this fair mansion, master of my servants,
Queen o’er myself: and even now, but now,
This house, these servants and this same myself
Are yours, my lord: I give them with this ring;
Which when you part from, lose, or give away,
Let it presage the ruin of your love
And be my vantage to exclaim on you.
BASSANIO
Madam, you have bereft me of all words,
Only my blood speaks to you in my veins;
And there is such confusion in my powers,
As after some oration fairly spoke
By a beloved prince, there doth appear
Among the buzzing pleased multitude;
Where every something, being blent together,
Turns to a wild of nothing, save of joy,
Express’d and not express’d. But when this ring
Parts from this finger, then parts life from hence:
O, then be bold to say Bassanio’s dead!
NERISSA
My lord and lady, it is now our time,
That have stood by and seen our wishes prosper,
To cry, good joy: good joy, my lord and lady!
GRATIANO
My lord Bassanio and my gentle lady,
I wish you all the joy that you can wish;
For I am sure you can wish none from me:
And when your honours mean to solemnize
The bargain of your faith, I do beseech you,
Even at that time I may be married too.
BASSANIO
With all my heart, so thou canst get a wife.
GRATIANO
I thank your lordship, you have got me one.
My eyes, my lord, can look as swift as yours:
You saw the mistress, I beheld the maid;
You loved, I loved for intermission.
No more pertains to me, my lord, than you.
Your fortune stood upon the casket there,
And so did mine too, as the matter falls;
For wooing here until I sweat again,
And sweating until my very roof was dry
With oaths of love, at last, if promise last,
I got a promise of this fair one here
To have her love, provided that your fortune
Achieved her mistress.
PORTIA
Is this true, Nerissa?
NERISSA
Madam, it is, so you stand pleased withal.
BASSANIO
And do you, Gratiano, mean good faith?
GRATIANO
Yes, faith, my lord.
BASSANIO
Our feast shall be much honour’d in your marriage.
GRATIANO
We’ll play with them the first boy for a thousand ducats.
NERISSA
What, and stake down?
GRATIANO
No; we shall ne’er win at that sport, and stake down.
But who comes here? Lorenzo and his infidel? What,
and my old Venetian friend Salerio?
Enter LORENZO, JESSICA, and SALERIO, a Messenger from Venice

BASSANIO
Lorenzo and Salerio, welcome hither;
If that the youth of my new interest here
Have power to bid you welcome. By your leave,
I bid my very friends and countrymen,
Sweet Portia, welcome.
PORTIA
So do I, my lord:
They are entirely welcome.
LORENZO
I thank your honour. For my part, my lord,
My purpose was not to have seen you here;
But meeting with Salerio by the way,
He did entreat me, past all saying nay,
To come with him along.
SALERIO
I did, my lord;
And I have reason for it. Signior Antonio
Commends him to you.
Gives Bassanio a letter

BASSANIO
Ere I ope his letter,
I pray you, tell me how my good friend doth.
SALERIO
Not sick, my lord, unless it be in mind;
Nor well, unless in mind: his letter there
Will show you his estate.
GRATIANO
Nerissa, cheer yon stranger; bid her welcome.
Your hand, Salerio: what’s the news from Venice?
How doth that royal merchant, good Antonio?
I know he will be glad of our success;
We are the Jasons, we have won the fleece.
SALERIO
I would you had won the fleece that he hath lost.
PORTIA
There are some shrewd contents in yon same paper,
That steals the colour from Bassanio’s cheek:
Some dear friend dead; else nothing in the world
Could turn so much the constitution
Of any constant man. What, worse and worse!
With leave, Bassanio: I am half yourself,
And I must freely have the half of anything
That this same paper brings you.
BASSANIO
O sweet Portia,
Here are a few of the unpleasant’st words
That ever blotted paper! Gentle lady,
When I did first impart my love to you,
I freely told you, all the wealth I had
Ran in my veins, I was a gentleman;
And then I told you true: and yet, dear lady,
Rating myself at nothing, you shall see
How much I was a braggart. When I told you
My state was nothing, I should then have told you
That I was worse than nothing; for, indeed,
I have engaged myself to a dear friend,
Engaged my friend to his mere enemy,
To feed my means. Here is a letter, lady;
The paper as the body of my friend,
And every word in it a gaping wound,
Issuing life-blood. But is it true, Salerio?
Have all his ventures fail’d? What, not one hit?
From Tripolis, from Mexico and England,
From Lisbon, Barbary and India?
And not one vessel ‘scape the dreadful touch
Of merchant-marring rocks?
SALERIO
Not one, my lord.
Besides, it should appear, that if he had
The present money to discharge the Jew,
He would not take it. Never did I know
A creature, that did bear the shape of man,
So keen and greedy to confound a man:
He plies the duke at morning and at night,
And doth impeach the freedom of the state,
If they deny him justice: twenty merchants,
The duke himself, and the magnificoes
Of greatest port, have all persuaded with him;
But none can drive him from the envious plea
Of forfeiture, of justice and his bond.
JESSICA
When I was with him I have heard him swear
To Tubal and to Chus, his countrymen,
That he would rather have Antonio’s flesh
Than twenty times the value of the sum
That he did owe him: and I know, my lord,
If law, authority and power deny not,
It will go hard with poor Antonio.
PORTIA
Is it your dear friend that is thus in trouble?
BASSANIO
The dearest friend to me, the kindest man,
The best-condition’d and unwearied spirit
In doing courtesies, and one in whom
The ancient Roman honour more appears
Than any that draws breath in Italy.
PORTIA
What sum owes he the Jew?
BASSANIO
For me three thousand ducats.
PORTIA
What, no more?
Pay him six thousand, and deface the bond;
Double six thousand, and then treble that,
Before a friend of this description
Shall lose a hair through Bassanio’s fault.
First go with me to church and call me wife,
And then away to Venice to your friend;
For never shall you lie by Portia’s side
With an unquiet soul. You shall have gold
To pay the petty debt twenty times over:
When it is paid, bring your true friend along.
My maid Nerissa and myself meantime
Will live as maids and widows. Come, away!
For you shall hence upon your wedding-day:
Bid your friends welcome, show a merry cheer:
Since you are dear bought, I will love you dear.
But let me hear the letter of your friend.
BASSANIO
[Reads] Sweet Bassanio, my ships have all
miscarried, my creditors grow cruel, my estate is
very low, my bond to the Jew is forfeit; and since
in paying it, it is impossible I should live, all
debts are cleared between you and I, if I might but
see you at my death. Notwithstanding, use your
pleasure: if your love do not persuade you to come,
let not my letter.
PORTIA
O love, dispatch all business, and be gone!
BASSANIO
Since I have your good leave to go away,
I will make haste: but, till I come again,
No bed shall e’er be guilty of my stay,
No rest be interposer ‘twixt us twain.
Exeunt

SCENE III. Venice. A street.
Enter SHYLOCK, SALARINO, ANTONIO, and Gaoler
SHYLOCK
Gaoler, look to him: tell not me of mercy;
This is the fool that lent out money gratis:
Gaoler, look to him.
ANTONIO
Hear me yet, good Shylock.
SHYLOCK
I’ll have my bond; speak not against my bond:
I have sworn an oath that I will have my bond.
Thou call’dst me dog before thou hadst a cause;
But, since I am a dog, beware my fangs:
The duke shall grant me justice. I do wonder,
Thou naughty gaoler, that thou art so fond
To come abroad with him at his request.
ANTONIO
I pray thee, hear me speak.
SHYLOCK
I’ll have my bond; I will not hear thee speak:
I’ll have my bond; and therefore speak no more.
I’ll not be made a soft and dull-eyed fool,
To shake the head, relent, and sigh, and yield
To Christian intercessors. Follow not;
I’ll have no speaking: I will have my bond.
Exit

SALARINO
It is the most impenetrable cur
That ever kept with men.
ANTONIO
Let him alone:
I’ll follow him no more with bootless prayers.
He seeks my life; his reason well I know:
I oft deliver’d from his forfeitures
Many that have at times made moan to me;
Therefore he hates me.
SALARINO
I am sure the duke
Will never grant this forfeiture to hold.
ANTONIO
The duke cannot deny the course of law:
For the commodity that strangers have
With us in Venice, if it be denied,
Will much impeach the justice of his state;
Since that the trade and profit of the city
Consisteth of all nations. Therefore, go:
These griefs and losses have so bated me,
That I shall hardly spare a pound of flesh
To-morrow to my bloody creditor.
Well, gaoler, on. Pray God, Bassanio come
To see me pay his debt, and then I care not!
Exeunt

SCENE IV. Belmont. A room in PORTIA’S house.
Enter PORTIA, NERISSA, LORENZO, JESSICA, and BALTHASAR
LORENZO
Madam, although I speak it in your presence,
You have a noble and a true conceit
Of godlike amity; which appears most strongly
In bearing thus the absence of your lord.
But if you knew to whom you show this honour,
How true a gentleman you send relief,
How dear a lover of my lord your husband,
I know you would be prouder of the work
Than customary bounty can enforce you.
PORTIA
I never did repent for doing good,
Nor shall not now: for in companions
That do converse and waste the time together,
Whose souls do bear an equal yoke Of love,
There must be needs a like proportion
Of lineaments, of manners and of spirit;
Which makes me think that this Antonio,
Being the bosom lover of my lord,
Must needs be like my lord. If it be so,
How little is the cost I have bestow’d
In purchasing the semblance of my soul
From out the state of hellish misery!
This comes too near the praising of myself;
Therefore no more of it: hear other things.
Lorenzo, I commit into your hands
The husbandry and manage of my house
Until my lord’s return: for mine own part,
I have toward heaven breathed a secret vow
To live in prayer and contemplation,
Only attended by Nerissa here,
Until her husband and my lord’s return:
There is a monastery two miles off;
And there will we abide. I do desire you
Not to deny this imposition;
The which my love and some necessity
Now lays upon you.
LORENZO
Madam, with all my heart;
I shall obey you in all fair commands.
PORTIA
My people do already know my mind,
And will acknowledge you and Jessica
In place of Lord Bassanio and myself.
And so farewell, till we shall meet again.
LORENZO
Fair thoughts and happy hours attend on you!
JESSICA
I wish your ladyship all heart’s content.
PORTIA
I thank you for your wish, and am well pleased
To wish it back on you: fare you well Jessica.
Exeunt JESSICA and LORENZO

Now, Balthasar,
As I have ever found thee honest-true,
So let me find thee still. Take this same letter,
And use thou all the endeavour of a man
In speed to Padua: see thou render this
Into my cousin’s hand, Doctor Bellario;
And, look, what notes and garments he doth give thee,
Bring them, I pray thee, with imagined speed
Unto the tranect, to the common ferry
Which trades to Venice. Waste no time in words,
But get thee gone: I shall be there before thee.
BALTHASAR
Madam, I go with all convenient speed.
Exit

PORTIA
Come on, Nerissa; I have work in hand
That you yet know not of: we’ll see our husbands
Before they think of us.
NERISSA
Shall they see us?
PORTIA
They shall, Nerissa; but in such a habit,
That they shall think we are accomplished
With that we lack. I’ll hold thee any wager,
When we are both accoutred like young men,
I’ll prove the prettier fellow of the two,
And wear my dagger with the braver grace,
And speak between the change of man and boy
With a reed voice, and turn two mincing steps
Into a manly stride, and speak of frays
Like a fine bragging youth, and tell quaint lies,
How honourable ladies sought my love,
Which I denying, they fell sick and died;
I could not do withal; then I’ll repent,
And wish for all that, that I had not killed them;
And twenty of these puny lies I’ll tell,
That men shall swear I have discontinued school
Above a twelvemonth. I have within my mind
A thousand raw tricks of these bragging Jacks,
Which I will practise.
NERISSA
Why, shall we turn to men?
PORTIA
Fie, what a question’s that,
If thou wert near a lewd interpreter!
But come, I’ll tell thee all my whole device
When I am in my coach, which stays for us
At the park gate; and therefore haste away,
For we must measure twenty miles to-day.
Exeunt

SCENE V. The same. A garden.
Enter LAUNCELOT and JESSICA
LAUNCELOT
Yes, truly; for, look you, the sins of the father
are to be laid upon the children: therefore, I
promise ye, I fear you. I was always plain with
you, and so now I speak my agitation of the matter:
therefore be of good cheer, for truly I think you
are damned. There is but one hope in it that can do
you any good; and that is but a kind of bastard
hope neither.
JESSICA
And what hope is that, I pray thee?
LAUNCELOT
Marry, you may partly hope that your father got you
not, that you are not the Jew’s daughter.
JESSICA
That were a kind of bastard hope, indeed: so the
sins of my mother should be visited upon me.
LAUNCELOT
Truly then I fear you are damned both by father and
mother: thus when I shun Scylla, your father, I
fall into Charybdis, your mother: well, you are
gone both ways.
JESSICA
I shall be saved by my husband; he hath made me a
Christian.
LAUNCELOT
Truly, the more to blame he: we were Christians
enow before; e’en as many as could well live, one by
another. This making Christians will raise the
price of hogs: if we grow all to be pork-eaters, we
shall not shortly have a rasher on the coals for money.
Enter LORENZO

JESSICA
I’ll tell my husband, Launcelot, what you say: here he comes.
LORENZO
I shall grow jealous of you shortly, Launcelot, if
you thus get my wife into corners.
JESSICA
Nay, you need not fear us, Lorenzo: Launcelot and I
are out. He tells me flatly, there is no mercy for
me in heaven, because I am a Jew’s daughter: and he
says, you are no good member of the commonwealth,
for in converting Jews to Christians, you raise the
price of pork.
LORENZO
I shall answer that better to the commonwealth than
you can the getting up of the negro’s belly: the
Moor is with child by you, Launcelot.
LAUNCELOT
It is much that the Moor should be more than reason:
but if she be less than an honest woman, she is
indeed more than I took her for.
LORENZO
How every fool can play upon the word! I think the
best grace of wit will shortly turn into silence,
and discourse grow commendable in none only but
parrots. Go in, sirrah; bid them prepare for dinner.
LAUNCELOT
That is done, sir; they have all stomachs.
LORENZO
Goodly Lord, what a wit-snapper are you! then bid
them prepare dinner.
LAUNCELOT
That is done too, sir; only ‘cover’ is the word.
LORENZO
Will you cover then, sir?
LAUNCELOT
Not so, sir, neither; I know my duty.
LORENZO
Yet more quarrelling with occasion! Wilt thou show
the whole wealth of thy wit in an instant? I pray
tree, understand a plain man in his plain meaning:
go to thy fellows; bid them cover the table, serve
in the meat, and we will come in to dinner.
LAUNCELOT
For the table, sir, it shall be served in; for the
meat, sir, it shall be covered; for your coming in
to dinner, sir, why, let it be as humours and
conceits shall govern.
Exit

LORENZO
O dear discretion, how his words are suited!
The fool hath planted in his memory
An army of good words; and I do know
A many fools, that stand in better place,
Garnish’d like him, that for a tricksy word
Defy the matter. How cheerest thou, Jessica?
And now, good sweet, say thy opinion,
How dost thou like the Lord Bassanio’s wife?
JESSICA
Past all expressing. It is very meet
The Lord Bassanio live an upright life;
For, having such a blessing in his lady,
He finds the joys of heaven here on earth;
And if on earth he do not mean it, then
In reason he should never come to heaven
Why, if two gods should play some heavenly match
And on the wager lay two earthly women,
And Portia one, there must be something else
Pawn’d with the other, for the poor rude world
Hath not her fellow.
LORENZO
Even such a husband
Hast thou of me as she is for a wife.
JESSICA
Nay, but ask my opinion too of that.
LORENZO
I will anon: first, let us go to dinner.
JESSICA
Nay, let me praise you while I have a stomach.
LORENZO
No, pray thee, let it serve for table-talk;
‘ Then, howso’er thou speak’st, ‘mong other things
I shall digest it.
JESSICA
Well, I’ll set you forth.
Exeunt

ACT IV
SCENE I. Venice. A court of justice.
Enter the DUKE, the Magnificoes, ANTONIO, BASSANIO, GRATIANO, SALERIO, and others
DUKE
What, is Antonio here?
ANTONIO
Ready, so please your grace.
DUKE
I am sorry for thee: thou art come to answer
A stony adversary, an inhuman wretch
uncapable of pity, void and empty
From any dram of mercy.
ANTONIO
I have heard
Your grace hath ta’en great pains to qualify
His rigorous course; but since he stands obdurate
And that no lawful means can carry me
Out of his envy’s reach, I do oppose
My patience to his fury, and am arm’d
To suffer, with a quietness of spirit,
The very tyranny and rage of his.
DUKE
Go one, and call the Jew into the court.
SALERIO
He is ready at the door: he comes, my lord.
Enter SHYLOCK

DUKE
Make room, and let him stand before our face.
Shylock, the world thinks, and I think so too,
That thou but lead’st this fashion of thy malice
To the last hour of act; and then ’tis thought
Thou’lt show thy mercy and remorse more strange
Than is thy strange apparent cruelty;
And where thou now exact’st the penalty,
Which is a pound of this poor merchant’s flesh,
Thou wilt not only loose the forfeiture,
But, touch’d with human gentleness and love,
Forgive a moiety of the principal;
Glancing an eye of pity on his losses,
That have of late so huddled on his back,
Enow to press a royal merchant down
And pluck commiseration of his state
From brassy bosoms and rough hearts of flint,
From stubborn Turks and Tartars, never train’d
To offices of tender courtesy.
We all expect a gentle answer, Jew.
SHYLOCK
I have possess’d your grace of what I purpose;
And by our holy Sabbath have I sworn
To have the due and forfeit of my bond:
If you deny it, let the danger light
Upon your charter and your city’s freedom.
You’ll ask me, why I rather choose to have
A weight of carrion flesh than to receive
Three thousand ducats: I’ll not answer that:
But, say, it is my humour: is it answer’d?
What if my house be troubled with a rat
And I be pleased to give ten thousand ducats
To have it baned? What, are you answer’d yet?
Some men there are love not a gaping pig;
Some, that are mad if they behold a cat;
And others, when the bagpipe sings i’ the nose,
Cannot contain their urine: for affection,
Mistress of passion, sways it to the mood
Of what it likes or loathes. Now, for your answer:
As there is no firm reason to be render’d,
Why he cannot abide a gaping pig;
Why he, a harmless necessary cat;
Why he, a woollen bagpipe; but of force
Must yield to such inevitable shame
As to offend, himself being offended;
So can I give no reason, nor I will not,
More than a lodged hate and a certain loathing
I bear Antonio, that I follow thus
A losing suit against him. Are you answer’d?
BASSANIO
This is no answer, thou unfeeling man,
To excuse the current of thy cruelty.
SHYLOCK
I am not bound to please thee with my answers.
BASSANIO
Do all men kill the things they do not love?
SHYLOCK
Hates any man the thing he would not kill?
BASSANIO
Every offence is not a hate at first.
SHYLOCK
What, wouldst thou have a serpent sting thee twice?
ANTONIO
I pray you, think you question with the Jew:
You may as well go stand upon the beach
And bid the main flood bate his usual height;
You may as well use question with the wolf
Why he hath made the ewe bleat for the lamb;
You may as well forbid the mountain pines
To wag their high tops and to make no noise,
When they are fretten with the gusts of heaven;
You may as well do anything most hard,
As seek to soften that–than which what’s harder?–
His Jewish heart: therefore, I do beseech you,
Make no more offers, use no farther means,
But with all brief and plain conveniency
Let me have judgment and the Jew his will.
BASSANIO
For thy three thousand ducats here is six.
SHYLOCK
What judgment shall I dread, doing
Were in six parts and every part a ducat,
I would not draw them; I would have my bond.
DUKE
How shalt thou hope for mercy, rendering none?
SHYLOCK
What judgment shall I dread, doing no wrong?
You have among you many a purchased slave,
Which, like your asses and your dogs and mules,
You use in abject and in slavish parts,
Because you bought them: shall I say to you,
Let them be free, marry them to your heirs?
Why sweat they under burthens? let their beds
Be made as soft as yours and let their palates
Be season’d with such viands? You will answer
‘The slaves are ours:’ so do I answer you:
The pound of flesh, which I demand of him,
Is dearly bought; ’tis mine and I will have it.
If you deny me, fie upon your law!
There is no force in the decrees of Venice.
I stand for judgment: answer; shall I have it?
DUKE
Upon my power I may dismiss this court,
Unless Bellario, a learned doctor,
Whom I have sent for to determine this,
Come here to-day.
SALERIO
My lord, here stays without
A messenger with letters from the doctor,
New come from Padua.
DUKE
Bring us the letter; call the messenger.
BASSANIO
Good cheer, Antonio! What, man, courage yet!
The Jew shall have my flesh, blood, bones and all,
Ere thou shalt lose for me one drop of blood.
ANTONIO
I am a tainted wether of the flock,
Meetest for death: the weakest kind of fruit
Drops earliest to the ground; and so let me
You cannot better be employ’d, Bassanio,
Than to live still and write mine epitaph.
Enter NERISSA, dressed like a lawyer’s clerk

DUKE
Came you from Padua, from Bellario?
NERISSA
From both, my lord. Bellario greets your grace.
Presenting a letter

BASSANIO
Why dost thou whet thy knife so earnestly?
SHYLOCK
To cut the forfeiture from that bankrupt there.
GRATIANO
Not on thy sole, but on thy soul, harsh Jew,
Thou makest thy knife keen; but no metal can,
No, not the hangman’s axe, bear half the keenness
Of thy sharp envy. Can no prayers pierce thee?
SHYLOCK
No, none that thou hast wit enough to make.
GRATIANO
O, be thou damn’d, inexecrable dog!
And for thy life let justice be accused.
Thou almost makest me waver in my faith
To hold opinion with Pythagoras,
That souls of animals infuse themselves
Into the trunks of men: thy currish spirit
Govern’d a wolf, who, hang’d for human slaughter,
Even from the gallows did his fell soul fleet,
And, whilst thou lay’st in thy unhallow’d dam,
Infused itself in thee; for thy desires
Are wolvish, bloody, starved and ravenous.
SHYLOCK
Till thou canst rail the seal from off my bond,
Thou but offend’st thy lungs to speak so loud:
Repair thy wit, good youth, or it will fall
To cureless ruin. I stand here for law.
DUKE
This letter from Bellario doth commend
A young and learned doctor to our court.
Where is he?
NERISSA
He attendeth here hard by,
To know your answer, whether you’ll admit him.
DUKE
With all my heart. Some three or four of you
Go give him courteous conduct to this place.
Meantime the court shall hear Bellario’s letter.
Clerk
[Reads]
Your grace shall understand that at the receipt of
your letter I am very sick: but in the instant that
your messenger came, in loving visitation was with
me a young doctor of Rome; his name is Balthasar. I
acquainted him with the cause in controversy between
the Jew and Antonio the merchant: we turned o’er
many books together: he is furnished with my
opinion; which, bettered with his own learning, the
greatness whereof I cannot enough commend, comes
with him, at my importunity, to fill up your grace’s
request in my stead. I beseech you, let his lack of
years be no impediment to let him lack a reverend
estimation; for I never knew so young a body with so
old a head. I leave him to your gracious
acceptance, whose trial shall better publish his
commendation.
DUKE
You hear the learn’d Bellario, what he writes:
And here, I take it, is the doctor come.
Enter PORTIA, dressed like a doctor of laws

Give me your hand. Come you from old Bellario?
PORTIA
I did, my lord.
DUKE
You are welcome: take your place.
Are you acquainted with the difference
That holds this present question in the court?
PORTIA
I am informed thoroughly of the cause.
Which is the merchant here, and which the Jew?
DUKE
Antonio and old Shylock, both stand forth.
PORTIA
Is your name Shylock?
SHYLOCK
Shylock is my name.
PORTIA
Of a strange nature is the suit you follow;
Yet in such rule that the Venetian law
Cannot impugn you as you do proceed.
You stand within his danger, do you not?
ANTONIO
Ay, so he says.
PORTIA
Do you confess the bond?
ANTONIO
I do.
PORTIA
Then must the Jew be merciful.
SHYLOCK
On what compulsion must I? tell me that.
PORTIA
The quality of mercy is not strain’d,
It droppeth as the gentle rain from heaven
Upon the place beneath: it is twice blest;
It blesseth him that gives and him that takes:
‘Tis mightiest in the mightiest: it becomes
The throned monarch better than his crown;
His sceptre shows the force of temporal power,
The attribute to awe and majesty,
Wherein doth sit the dread and fear of kings;
But mercy is above this sceptred sway;
It is enthroned in the hearts of kings,
It is an attribute to God himself;
And earthly power doth then show likest God’s
When mercy seasons justice. Therefore, Jew,
Though justice be thy plea, consider this,
That, in the course of justice, none of us
Should see salvation: we do pray for mercy;
And that same prayer doth teach us all to render
The deeds of mercy. I have spoke thus much
To mitigate the justice of thy plea;
Which if thou follow, this strict court of Venice
Must needs give sentence ‘gainst the merchant there.
SHYLOCK
My deeds upon my head! I crave the law,
The penalty and forfeit of my bond.
PORTIA
Is he not able to discharge the money?
BASSANIO
Yes, here I tender it for him in the court;
Yea, twice the sum: if that will not suffice,
I will be bound to pay it ten times o’er,
On forfeit of my hands, my head, my heart:
If this will not suffice, it must appear
That malice bears down truth. And I beseech you,
Wrest once the law to your authority:
To do a great right, do a little wrong,
And curb this cruel devil of his will.
PORTIA
It must not be; there is no power in Venice
Can alter a decree established:
‘Twill be recorded for a precedent,
And many an error by the same example
Will rush into the state: it cannot be.
SHYLOCK
A Daniel come to judgment! yea, a Daniel!
O wise young judge, how I do honour thee!
PORTIA
I pray you, let me look upon the bond.
SHYLOCK
Here ’tis, most reverend doctor, here it is.
PORTIA
Shylock, there’s thrice thy money offer’d thee.
SHYLOCK
An oath, an oath, I have an oath in heaven:
Shall I lay perjury upon my soul?
No, not for Venice.
PORTIA
Why, this bond is forfeit;
And lawfully by this the Jew may claim
A pound of flesh, to be by him cut off
Nearest the merchant’s heart. Be merciful:
Take thrice thy money; bid me tear the bond.
SHYLOCK
When it is paid according to the tenor.
It doth appear you are a worthy judge;
You know the law, your exposition
Hath been most sound: I charge you by the law,
Whereof you are a well-deserving pillar,
Proceed to judgment: by my soul I swear
There is no power in the tongue of man
To alter me: I stay here on my bond.
ANTONIO
Most heartily I do beseech the court
To give the judgment.
PORTIA
Why then, thus it is:
You must prepare your bosom for his knife.
SHYLOCK
O noble judge! O excellent young man!
PORTIA
For the intent and purpose of the law
Hath full relation to the penalty,
Which here appeareth due upon the bond.
SHYLOCK
‘Tis very true: O wise and upright judge!
How much more elder art thou than thy looks!
PORTIA
Therefore lay bare your bosom.
SHYLOCK
Ay, his breast:
So says the bond: doth it not, noble judge?
‘Nearest his heart:’ those are the very words.
PORTIA
It is so. Are there balance here to weigh
The flesh?
SHYLOCK
I have them ready.
PORTIA
Have by some surgeon, Shylock, on your charge,
To stop his wounds, lest he do bleed to death.
SHYLOCK
Is it so nominated in the bond?
PORTIA
It is not so express’d: but what of that?
‘Twere good you do so much for charity.
SHYLOCK
I cannot find it; ’tis not in the bond.
PORTIA
You, merchant, have you any thing to say?
ANTONIO
But little: I am arm’d and well prepared.
Give me your hand, Bassanio: fare you well!
Grieve not that I am fallen to this for you;
For herein Fortune shows herself more kind
Than is her custom: it is still her use
To let the wretched man outlive his wealth,
To view with hollow eye and wrinkled brow
An age of poverty; from which lingering penance
Of such misery doth she cut me off.
Commend me to your honourable wife:
Tell her the process of Antonio’s end;
Say how I loved you, speak me fair in death;
And, when the tale is told, bid her be judge
Whether Bassanio had not once a love.
Repent but you that you shall lose your friend,
And he repents not that he pays your debt;
For if the Jew do cut but deep enough,
I’ll pay it presently with all my heart.
BASSANIO
Antonio, I am married to a wife
Which is as dear to me as life itself;
But life itself, my wife, and all the world,
Are not with me esteem’d above thy life:
I would lose all, ay, sacrifice them all
Here to this devil, to deliver you.
PORTIA
Your wife would give you little thanks for that,
If she were by, to hear you make the offer.
GRATIANO
I have a wife, whom, I protest, I love:
I would she were in heaven, so she could
Entreat some power to change this currish Jew.
NERISSA
‘Tis well you offer it behind her back;
The wish would make else an unquiet house.
SHYLOCK
These be the Christian husbands. I have a daughter;
Would any of the stock of Barrabas
Had been her husband rather than a Christian!
Aside

We trifle time: I pray thee, pursue sentence.
PORTIA
A pound of that same merchant’s flesh is thine:
The court awards it, and the law doth give it.
SHYLOCK
Most rightful judge!
PORTIA
And you must cut this flesh from off his breast:
The law allows it, and the court awards it.
SHYLOCK
Most learned judge! A sentence! Come, prepare!
PORTIA
Tarry a little; there is something else.
This bond doth give thee here no jot of blood;
The words expressly are ‘a pound of flesh:’
Take then thy bond, take thou thy pound of flesh;
But, in the cutting it, if thou dost shed
One drop of Christian blood, thy lands and goods
Are, by the laws of Venice, confiscate
Unto the state of Venice.
GRATIANO
O upright judge! Mark, Jew: O learned judge!
SHYLOCK
Is that the law?
PORTIA
Thyself shalt see the act:
For, as thou urgest justice, be assured
Thou shalt have justice, more than thou desirest.
GRATIANO
O learned judge! Mark, Jew: a learned judge!
SHYLOCK
I take this offer, then; pay the bond thrice
And let the Christian go.
BASSANIO
Here is the money.
PORTIA
Soft!
The Jew shall have all justice; soft! no haste:
He shall have nothing but the penalty.
GRATIANO
O Jew! an upright judge, a learned judge!
PORTIA
Therefore prepare thee to cut off the flesh.
Shed thou no blood, nor cut thou less nor more
But just a pound of flesh: if thou cut’st more
Or less than a just pound, be it but so much
As makes it light or heavy in the substance,
Or the division of the twentieth part
Of one poor scruple, nay, if the scale do turn
But in the estimation of a hair,
Thou diest and all thy goods are confiscate.
GRATIANO
A second Daniel, a Daniel, Jew!
Now, infidel, I have you on the hip.
PORTIA
Why doth the Jew pause? take thy forfeiture.
SHYLOCK
Give me my principal, and let me go.
BASSANIO
I have it ready for thee; here it is.
PORTIA
He hath refused it in the open court:
He shall have merely justice and his bond.
GRATIANO
A Daniel, still say I, a second Daniel!
I thank thee, Jew, for teaching me that word.
SHYLOCK
Shall I not have barely my principal?
PORTIA
Thou shalt have nothing but the forfeiture,
To be so taken at thy peril, Jew.
SHYLOCK
Why, then the devil give him good of it!
I’ll stay no longer question.
PORTIA
Tarry, Jew:
The law hath yet another hold on you.
It is enacted in the laws of Venice,
If it be proved against an alien
That by direct or indirect attempts
He seek the life of any citizen,
The party ‘gainst the which he doth contrive
Shall seize one half his goods; the other half
Comes to the privy coffer of the state;
And the offender’s life lies in the mercy
Of the duke only, ‘gainst all other voice.
In which predicament, I say, thou stand’st;
For it appears, by manifest proceeding,
That indirectly and directly too
Thou hast contrived against the very life
Of the defendant; and thou hast incurr’d
The danger formerly by me rehearsed.
Down therefore and beg mercy of the duke.
GRATIANO
Beg that thou mayst have leave to hang thyself:
And yet, thy wealth being forfeit to the state,
Thou hast not left the value of a cord;
Therefore thou must be hang’d at the state’s charge.
DUKE
That thou shalt see the difference of our spirits,
I pardon thee thy life before thou ask it:
For half thy wealth, it is Antonio’s;
The other half comes to the general state,
Which humbleness may drive unto a fine.
PORTIA
Ay, for the state, not for Antonio.
SHYLOCK
Nay, take my life and all; pardon not that:
You take my house when you do take the prop
That doth sustain my house; you take my life
When you do take the means whereby I live.
PORTIA
What mercy can you render him, Antonio?
GRATIANO
A halter gratis; nothing else, for God’s sake.
ANTONIO
So please my lord the duke and all the court
To quit the fine for one half of his goods,
I am content; so he will let me have
The other half in use, to render it,
Upon his death, unto the gentleman
That lately stole his daughter:
Two things provided more, that, for this favour,
He presently become a Christian;
The other, that he do record a gift,
Here in the court, of all he dies possess’d,
Unto his son Lorenzo and his daughter.
DUKE
He shall do this, or else I do recant
The pardon that I late pronounced here.
PORTIA
Art thou contented, Jew? what dost thou say?
SHYLOCK
I am content.
PORTIA
Clerk, draw a deed of gift.
SHYLOCK
I pray you, give me leave to go from hence;
I am not well: send the deed after me,
And I will sign it.
DUKE
Get thee gone, but do it.
GRATIANO
In christening shalt thou have two god-fathers:
Had I been judge, thou shouldst have had ten more,
To bring thee to the gallows, not the font.
Exit SHYLOCK

DUKE
Sir, I entreat you home with me to dinner.
PORTIA
I humbly do desire your grace of pardon:
I must away this night toward Padua,
And it is meet I presently set forth.
DUKE
I am sorry that your leisure serves you not.
Antonio, gratify this gentleman,
For, in my mind, you are much bound to him.
Exeunt Duke and his train

BASSANIO
Most worthy gentleman, I and my friend
Have by your wisdom been this day acquitted
Of grievous penalties; in lieu whereof,
Three thousand ducats, due unto the Jew,
We freely cope your courteous pains withal.
ANTONIO
And stand indebted, over and above,
In love and service to you evermore.
PORTIA
He is well paid that is well satisfied;
And I, delivering you, am satisfied
And therein do account myself well paid:
My mind was never yet more mercenary.
I pray you, know me when we meet again:
I wish you well, and so I take my leave.
BASSANIO
Dear sir, of force I must attempt you further:
Take some remembrance of us, as a tribute,
Not as a fee: grant me two things, I pray you,
Not to deny me, and to pardon me.
PORTIA
You press me far, and therefore I will yield.
To ANTONIO

Give me your gloves, I’ll wear them for your sake;
To BASSANIO

And, for your love, I’ll take this ring from you:
Do not draw back your hand; I’ll take no more;
And you in love shall not deny me this.
BASSANIO
This ring, good sir, alas, it is a trifle!
I will not shame myself to give you this.
PORTIA
I will have nothing else but only this;
And now methinks I have a mind to it.
BASSANIO
There’s more depends on this than on the value.
The dearest ring in Venice will I give you,
And find it out by proclamation:
Only for this, I pray you, pardon me.
PORTIA
I see, sir, you are liberal in offers
You taught me first to beg; and now methinks
You teach me how a beggar should be answer’d.
BASSANIO
Good sir, this ring was given me by my wife;
And when she put it on, she made me vow
That I should neither sell nor give nor lose it.
PORTIA
That ‘scuse serves many men to save their gifts.
An if your wife be not a mad-woman,
And know how well I have deserved the ring,
She would not hold out enemy for ever,
For giving it to me. Well, peace be with you!
Exeunt Portia and Nerissa

ANTONIO
My Lord Bassanio, let him have the ring:
Let his deservings and my love withal
Be valued against your wife’s commandment.
BASSANIO
Go, Gratiano, run and overtake him;
Give him the ring, and bring him, if thou canst,
Unto Antonio’s house: away! make haste.
Exit Gratiano

Come, you and I will thither presently;
And in the morning early will we both
Fly toward Belmont: come, Antonio.
Exeunt

SCENE II. The same. A street.
Enter PORTIA and NERISSA
PORTIA
Inquire the Jew’s house out, give him this deed
And let him sign it: we’ll away to-night
And be a day before our husbands home:
This deed will be well welcome to Lorenzo.
Enter GRATIANO

GRATIANO
Fair sir, you are well o’erta’en
My Lord Bassanio upon more advice
Hath sent you here this ring, and doth entreat
Your company at dinner.
PORTIA
That cannot be:
His ring I do accept most thankfully:
And so, I pray you, tell him: furthermore,
I pray you, show my youth old Shylock’s house.
GRATIANO
That will I do.
NERISSA
Sir, I would speak with you.
Aside to PORTIA

I’ll see if I can get my husband’s ring,
Which I did make him swear to keep for ever.
PORTIA
[Aside to NERISSA] Thou mayst, I warrant.
We shall have old swearing
That they did give the rings away to men;
But we’ll outface them, and outswear them too.
Aloud

Away! make haste: thou knowist where I will tarry.
NERISSA
Come, good sir, will you show me to this house?
Exeunt

ACT V
SCENE I. Belmont. Avenue to PORTIA’S house.
Enter LORENZO and JESSICA
LORENZO
The moon shines bright: in such a night as this,
When the sweet wind did gently kiss the trees
And they did make no noise, in such a night
Troilus methinks mounted the Troyan walls
And sigh’d his soul toward the Grecian tents,
Where Cressid lay that night.
JESSICA
In such a night
Did Thisbe fearfully o’ertrip the dew
And saw the lion’s shadow ere himself
And ran dismay’d away.
LORENZO
In such a night
Stood Dido with a willow in her hand
Upon the wild sea banks and waft her love
To come again to Carthage.
JESSICA
In such a night
Medea gather’d the enchanted herbs
That did renew old AEson.
LORENZO
In such a night
Did Jessica steal from the wealthy Jew
And with an unthrift love did run from Venice
As far as Belmont.
JESSICA
In such a night
Did young Lorenzo swear he loved her well,
Stealing her soul with many vows of faith
And ne’er a true one.
LORENZO
In such a night
Did pretty Jessica, like a little shrew,
Slander her love, and he forgave it her.
JESSICA
I would out-night you, did no body come;
But, hark, I hear the footing of a man.
Enter STEPHANO

LORENZO
Who comes so fast in silence of the night?
STEPHANO
A friend.
LORENZO
A friend! what friend? your name, I pray you, friend?
STEPHANO
Stephano is my name; and I bring word
My mistress will before the break of day
Be here at Belmont; she doth stray about
By holy crosses, where she kneels and prays
For happy wedlock hours.
LORENZO
Who comes with her?
STEPHANO
None but a holy hermit and her maid.
I pray you, is my master yet return’d?
LORENZO
He is not, nor we have not heard from him.
But go we in, I pray thee, Jessica,
And ceremoniously let us prepare
Some welcome for the mistress of the house.
Enter LAUNCELOT

LAUNCELOT
Sola, sola! wo ha, ho! sola, sola!
LORENZO
Who calls?
LAUNCELOT
Sola! did you see Master Lorenzo?
Master Lorenzo, sola, sola!
LORENZO
Leave hollaing, man: here.
LAUNCELOT
Sola! where? where?
LORENZO
Here.
LAUNCELOT
Tell him there’s a post come from my master, with
his horn full of good news: my master will be here
ere morning.
Exit

LORENZO
Sweet soul, let’s in, and there expect their coming.
And yet no matter: why should we go in?
My friend Stephano, signify, I pray you,
Within the house, your mistress is at hand;
And bring your music forth into the air.
Exit Stephano

How sweet the moonlight sleeps upon this bank!
Here will we sit and let the sounds of music
Creep in our ears: soft stillness and the night
Become the touches of sweet harmony.
Sit, Jessica. Look how the floor of heaven
Is thick inlaid with patines of bright gold:
There’s not the smallest orb which thou behold’st
But in his motion like an angel sings,
Still quiring to the young-eyed cherubins;
Such harmony is in immortal souls;
But whilst this muddy vesture of decay
Doth grossly close it in, we cannot hear it.
Enter Musicians

Come, ho! and wake Diana with a hymn!
With sweetest touches pierce your mistress’ ear,
And draw her home with music.
Music

JESSICA
I am never merry when I hear sweet music.
LORENZO
The reason is, your spirits are attentive:
For do but note a wild and wanton herd,
Or race of youthful and unhandled colts,
Fetching mad bounds, bellowing and neighing loud,
Which is the hot condition of their blood;
If they but hear perchance a trumpet sound,
Or any air of music touch their ears,
You shall perceive them make a mutual stand,
Their savage eyes turn’d to a modest gaze
By the sweet power of music: therefore the poet
Did feign that Orpheus drew trees, stones and floods;
Since nought so stockish, hard and full of rage,
But music for the time doth change his nature.
The man that hath no music in himself,
Nor is not moved with concord of sweet sounds,
Is fit for treasons, stratagems and spoils;
The motions of his spirit are dull as night
And his affections dark as Erebus:
Let no such man be trusted. Mark the music.
Enter PORTIA and NERISSA

PORTIA
That light we see is burning in my hall.
How far that little candle throws his beams!
So shines a good deed in a naughty world.
NERISSA
When the moon shone, we did not see the candle.
PORTIA
So doth the greater glory dim the less:
A substitute shines brightly as a king
Unto the king be by, and then his state
Empties itself, as doth an inland brook
Into the main of waters. Music! hark!
NERISSA
It is your music, madam, of the house.
PORTIA
Nothing is good, I see, without respect:
Methinks it sounds much sweeter than by day.
NERISSA
Silence bestows that virtue on it, madam.
PORTIA
The crow doth sing as sweetly as the lark,
When neither is attended, and I think
The nightingale, if she should sing by day,
When every goose is cackling, would be thought
No better a musician than the wren.
How many things by season season’d are
To their right praise and true perfection!
Peace, ho! the moon sleeps with Endymion
And would not be awaked.
Music ceases

LORENZO
That is the voice,
Or I am much deceived, of Portia.
PORTIA
He knows me as the blind man knows the cuckoo,
By the bad voice.
LORENZO
Dear lady, welcome home.
PORTIA
We have been praying for our husbands’ healths,
Which speed, we hope, the better for our words.
Are they return’d?
LORENZO
Madam, they are not yet;
But there is come a messenger before,
To signify their coming.
PORTIA
Go in, Nerissa;
Give order to my servants that they take
No note at all of our being absent hence;
Nor you, Lorenzo; Jessica, nor you.
A tucket sounds

LORENZO
Your husband is at hand; I hear his trumpet:
We are no tell-tales, madam; fear you not.
PORTIA
This night methinks is but the daylight sick;
It looks a little paler: ’tis a day,
Such as the day is when the sun is hid.
Enter BASSANIO, ANTONIO, GRATIANO, and their followers

BASSANIO
We should hold day with the Antipodes,
If you would walk in absence of the sun.
PORTIA
Let me give light, but let me not be light;
For a light wife doth make a heavy husband,
And never be Bassanio so for me:
But God sort all! You are welcome home, my lord.
BASSANIO
I thank you, madam. Give welcome to my friend.
This is the man, this is Antonio,
To whom I am so infinitely bound.
PORTIA
You should in all sense be much bound to him.
For, as I hear, he was much bound for you.
ANTONIO
No more than I am well acquitted of.
PORTIA
Sir, you are very welcome to our house:
It must appear in other ways than words,
Therefore I scant this breathing courtesy.
GRATIANO
[To NERISSA] By yonder moon I swear you do me wrong;
In faith, I gave it to the judge’s clerk:
Would he were gelt that had it, for my part,
Since you do take it, love, so much at heart.
PORTIA
A quarrel, ho, already! what’s the matter?
GRATIANO
About a hoop of gold, a paltry ring
That she did give me, whose posy was
For all the world like cutler’s poetry
Upon a knife, ‘Love me, and leave me not.’
NERISSA
What talk you of the posy or the value?
You swore to me, when I did give it you,
That you would wear it till your hour of death
And that it should lie with you in your grave:
Though not for me, yet for your vehement oaths,
You should have been respective and have kept it.
Gave it a judge’s clerk! no, God’s my judge,
The clerk will ne’er wear hair on’s face that had it.
GRATIANO
He will, an if he live to be a man.
NERISSA
Ay, if a woman live to be a man.
GRATIANO
Now, by this hand, I gave it to a youth,
A kind of boy, a little scrubbed boy,
No higher than thyself; the judge’s clerk,
A prating boy, that begg’d it as a fee:
I could not for my heart deny it him.
PORTIA
You were to blame, I must be plain with you,
To part so slightly with your wife’s first gift:
A thing stuck on with oaths upon your finger
And so riveted with faith unto your flesh.
I gave my love a ring and made him swear
Never to part with it; and here he stands;
I dare be sworn for him he would not leave it
Nor pluck it from his finger, for the wealth
That the world masters. Now, in faith, Gratiano,
You give your wife too unkind a cause of grief:
An ’twere to me, I should be mad at it.
BASSANIO
[Aside] Why, I were best to cut my left hand off
And swear I lost the ring defending it.
GRATIANO
My Lord Bassanio gave his ring away
Unto the judge that begg’d it and indeed
Deserved it too; and then the boy, his clerk,
That took some pains in writing, he begg’d mine;
And neither man nor master would take aught
But the two rings.
PORTIA
What ring gave you my lord?
Not that, I hope, which you received of me.
BASSANIO
If I could add a lie unto a fault,
I would deny it; but you see my finger
Hath not the ring upon it; it is gone.
PORTIA
Even so void is your false heart of truth.
By heaven, I will ne’er come in your bed
Until I see the ring.
NERISSA
Nor I in yours
Till I again see mine.
BASSANIO
Sweet Portia,
If you did know to whom I gave the ring,
If you did know for whom I gave the ring
And would conceive for what I gave the ring
And how unwillingly I left the ring,
When nought would be accepted but the ring,
You would abate the strength of your displeasure.
PORTIA
If you had known the virtue of the ring,
Or half her worthiness that gave the ring,
Or your own honour to contain the ring,
You would not then have parted with the ring.
What man is there so much unreasonable,
If you had pleased to have defended it
With any terms of zeal, wanted the modesty
To urge the thing held as a ceremony?
Nerissa teaches me what to believe:
I’ll die for’t but some woman had the ring.
BASSANIO
No, by my honour, madam, by my soul,
No woman had it, but a civil doctor,
Which did refuse three thousand ducats of me
And begg’d the ring; the which I did deny him
And suffer’d him to go displeased away;
Even he that did uphold the very life
Of my dear friend. What should I say, sweet lady?
I was enforced to send it after him;
I was beset with shame and courtesy;
My honour would not let ingratitude
So much besmear it. Pardon me, good lady;
For, by these blessed candles of the night,
Had you been there, I think you would have begg’d
The ring of me to give the worthy doctor.
PORTIA
Let not that doctor e’er come near my house:
Since he hath got the jewel that I loved,
And that which you did swear to keep for me,
I will become as liberal as you;
I’ll not deny him any thing I have,
No, not my body nor my husband’s bed:
Know him I shall, I am well sure of it:
Lie not a night from home; watch me like Argus:
If you do not, if I be left alone,
Now, by mine honour, which is yet mine own,
I’ll have that doctor for my bedfellow.
NERISSA
And I his clerk; therefore be well advised
How you do leave me to mine own protection.
GRATIANO
Well, do you so; let not me take him, then;
For if I do, I’ll mar the young clerk’s pen.
ANTONIO
I am the unhappy subject of these quarrels.
PORTIA
Sir, grieve not you; you are welcome notwithstanding.
BASSANIO
Portia, forgive me this enforced wrong;
And, in the hearing of these many friends,
I swear to thee, even by thine own fair eyes,
Wherein I see myself–
PORTIA
Mark you but that!
In both my eyes he doubly sees himself;
In each eye, one: swear by your double self,
And there’s an oath of credit.
BASSANIO
Nay, but hear me:
Pardon this fault, and by my soul I swear
I never more will break an oath with thee.
ANTONIO
I once did lend my body for his wealth;
Which, but for him that had your husband’s ring,
Had quite miscarried: I dare be bound again,
My soul upon the forfeit, that your lord
Will never more break faith advisedly.
PORTIA
Then you shall be his surety. Give him this
And bid him keep it better than the other.
ANTONIO
Here, Lord Bassanio; swear to keep this ring.
BASSANIO
By heaven, it is the same I gave the doctor!
PORTIA
I had it of him: pardon me, Bassanio;
For, by this ring, the doctor lay with me.
NERISSA
And pardon me, my gentle Gratiano;
For that same scrubbed boy, the doctor’s clerk,
In lieu of this last night did lie with me.
GRATIANO
Why, this is like the mending of highways
In summer, where the ways are fair enough:
What, are we cuckolds ere we have deserved it?
PORTIA
Speak not so grossly. You are all amazed:
Here is a letter; read it at your leisure;
It comes from Padua, from Bellario:
There you shall find that Portia was the doctor,
Nerissa there her clerk: Lorenzo here
Shall witness I set forth as soon as you
And even but now return’d; I have not yet
Enter’d my house. Antonio, you are welcome;
And I have better news in store for you
Than you expect: unseal this letter soon;
There you shall find three of your argosies
Are richly come to harbour suddenly:
You shall not know by what strange accident
I chanced on this letter.
ANTONIO
I am dumb.
BASSANIO
Were you the doctor and I knew you not?
GRATIANO
Were you the clerk that is to make me cuckold?
NERISSA
Ay, but the clerk that never means to do it,
Unless he live until he be a man.
BASSANIO
Sweet doctor, you shall be my bed-fellow:
When I am absent, then lie with my wife.
ANTONIO
Sweet lady, you have given me life and living;
For here I read for certain that my ships
Are safely come to road.
PORTIA
How now, Lorenzo!
My clerk hath some good comforts too for you.
NERISSA
Ay, and I’ll give them him without a fee.
There do I give to you and Jessica,
From the rich Jew, a special deed of gift,
After his death, of all he dies possess’d of.
LORENZO
Fair ladies, you drop manna in the way
Of starved people.
PORTIA
It is almost morning,
And yet I am sure you are not satisfied
Of these events at full. Let us go in;
And charge us there upon inter’gatories,
And we will answer all things faithfully.
GRATIANO
Let it be so: the first inter’gatory
That my Nerissa shall be sworn on is,
Whether till the next night she had rather stay,
Or go to bed now, being two hours to day:
But were the day come, I should wish it dark,
That I were couching with the doctor’s clerk.
Well, while I live I’ll fear no other thing
So sore as keeping safe Nerissa’s ring.
Exeunt

War & Peace TPJ Level Original RU

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Михаил Львович Толстой Михаил Львович Толстой Мой отец, десятый ребенок в семье, родился в 1879 году Этот период в жизни Толстого был трудным, он переживал глубокий духовный кризис. Михаил и его старший брат Андрей не застали счастливого периода первых лет супружеской жизни родителей, это наложило отпечаток на всю их жизнь. Михаил был ребенком спокойным, здоровым, веселым, полным жизни и ненавидящим споры. Мать занималась его воспитанием больше, чем отец: поглощенный своими философскими исканиями, он меньше, чем раньше, занимался младшими детьми, но воспитывал их по-прежнему. Как-то раз Лев Николаевич пошел на прогулку с детьми Андрюшей, Мишей и Мишей Кузминским. Говорили о Боге, «о том, что Бог в нас, когда мы добры». Когда Толстой сказал, что «Бог — наш отец и что, когда умрешь, не может быть худо, потому что отец худого не сделает», Миша, сидя на плечах отца, сказал: «А я не хочу умирать». На следующий день, огорчившись из-за ссоры братьев и вспомнив, что отец ему говорил накануне, он нацарапал на клочке бумаги неумелым почерком: «Нужно быть добрум» и передал записку братьям. Расшифровав послание своего младшего брата, они помирились, обнялись, всех насмешила ошибка Миши» вместо слова «добрым» он написал «добрум»1. Потом долгие годы Лев Николаевич часто любил повторять этот совет своего сына с той же орфографической ошибкой и написал его на своем портрете для моего семилетнего брата Ивана: «Милому Ване дедушка Лев. Когда твой папа был маленьким, он на бумажке написал себе, что «надо быть добрум». Напиши это себе в сердце и всегда будь добрым и тебе всегда хорошо будет. Лев дед». В другой раз, когда Лев Николаевич вспылил из за дочери Тани, «Миша стоял в больших дверях и вопросительно смотрел» на отца. Испытывая угрызения совести, Толстой записал в дневнике «Кабы он всегда был передо мной!» Миша узнал от своей сестры, что отец больше всего боится щекотки. В тот же вечер они с Андрюшей пошли пожелать ему спокойной ночи. Миша забрался в кресло отца, и они начали щекотать отца с двух сторон. Защищаясь, Толстой, хохоча, отбивался, умоляя их остановиться, но дети, раззадорившись, были горды тем, что одолели отца, который был для них Богом. Услышав смех и крики, пришла мама и отправила их спать. Отец любил рассказывать детям смешные истории. Такая история, которая всех очень смешила, произошла с ним во время многомесячной обороны Севастополя. Участвуя в боях на четвертом бастионе, где стояла его батарея, под огнем неприятеля, Толстой отправился в увольнение. Очень усталый, с головы до ног покрытый грязью, он возвращался в город, где были расквартированы войска. Навстречу ему ехал главнокомандующий, великий князь со свитой. Увидев офицера в грязном до невероятности мундире, он послал своего адъютанта графа Олсуфьева сказать, чтобы офицер не смел показываться в городе в таком виде Он поскакал исполнять приказание, но большая канава, полная мутной воды, которую он не решался перепрыгнуть, разделяла их. Канава была очень широка, он прыгнул и попал в нее. Лев Николаевич помог ему вылезти и спросил, зачем он его звал. Граф передал приказание великого князя. Лев Николаевич посмотрел на него, облепленного с ног до головы грязью, и сказал со смехом: «Как жалко, что у меня нет зеркала, чтобы вы на себя посмотрели». Впоследствии они стали друзьями. Сказка о семи огурцах, которые нашел в огороде маленький мальчик, имела тот же успех. Первый огурец был быстро проглочен, глотая второй, он должен был побольше раскрыть рот. И так дальше до седьмого огурца. Толстой показывал руками, как постепенно увеличиваются размеры огурцов, открывая при этом все больше и больше рот, а голос его делался все громче и гуще. На седьмом огурце его беззубый рот открывался до таких невероятных размеров, что было страшно на него смотреть, а руками он делал вид, что с трудом всовывает в рот седьмой огурец. Дети очень любили ходить с отцом в баню, стоящую недалеко от дома2. На раскаленные камни плескали воду из ковша для пара, в котором едва можно было разглядеть друг друга. Потом похлопывали друг друга березовыми веничками. Как следует распарясь, Толстой открывал дверь и прыгал в снег, в котором исчезал, а через несколько мгновений он возвращался в жаркую баню. Как всем детям, так и Мише Лев Николаевич давал уроки гимнастики, верховой езды, прививая ему пристрастие к спорту. Сам очень сильный, он и детям передал незаурядную физическую силу. Мой отец рассказывал, как однажды в возрасте двадцати лет он выполнял трудное упражнение на турнике. Отец, засунув руки за ременной пояс своей блузы, вышел из дома на ежедневную прогулку; он остановился, посмотрел на сына и сказал: «Миша, я думаю, что ты делаешь не совсем то. Ты позволишь?» И он блестяще выполнил фигуру. Ему было в то время семьдесят лет. В Москве десятилетнего Мишу записали в частную гимназию Поливанова, где он подружился с Петей Глебовым. Тот пригласил его к себе домой на еженедельные уроки танцев, где Михаил познакомился с Линой, сестрой Пети. Лина и Миша прониклись друг к другу большой симпатией. Миша в нее сразу влюбился. На следующий день он сказал Пете: «Твоя сестра будет моей женой». Девочка (моя будущая мама) не была равнодушна к этому чувству, об этом она вспоминала в рассказе «Праздник Дины». «В тот день она проснулась рано. Вытянувшись в постели, еще не вполне проснувшаяся от легких радостных снов, она вспомнила, что сегодня давно желанный день ее именин. Она сладко зевнула, встала с постели, открыла занавески и позвонила своей горничной Дуняше. Вставало солнце, начиналось прекрасное весеннее утро. Лучи солнца играли на голубых цветочках обоев и отражались на хрустальных флаконах туалетного прибора. Новое батистовое платье с розовыми горошками, которое ей очень шло,— его накануне принесла портниха,— лежало на стуле, рядом с кроватью. «С праздником, барышня,— сказала верная горничная, ставя серебряный поднос с завтраком: кофе, сливки, калач, ни с чем не сравнимый на вкус, мед и крестьянское масло, привезенное из деревни. Дуняша бесконечно долго расчесывала, весело болтая, ее длинные густые волосы. Наконец тугая черная коса была за плетена, бантик задорно торчал на маковке. Какой чудесный день у нее впереди! Подарки, обед, на который соберется вся их большая семья, потом катание на санках по замерзшей Москве-реке и наконец бал. Большой букет первых подснежников напомнил ей о Мише, ее возлюбленном. На балу он будет ее единственным кавалером. С тех пор как появились подснежники в садах, каждый день он присылал ей букетики со своим школьным товарищем Петей. Чтобы их собрать, он перепрыгивал каждое утро через забор в чужой сад, поэтому часто опаздывал в гимназию и получал нагоняй от инспектора. Впрочем, не одни подснежники были явным доказательством его любви, было еще много других. Она видела свое имя, выцарапанное перочинным ножом на руке под манжеткой. И, наверное, это было очень больно. А на балах, приглашая ее танцевать мазурку, он неизменно подносил ей розовые и зеленые ленты: розовый цвет, знак нежной любви, а зеленый — надежды. Кроме подснежников и ленточек, он подарил ей всю свою коллекцию марок, присоединив к той, какая у него была. Она поверила в то, что если удастся собрать несколько тысяч самых простых марок по 7 копеек и послать их в Китай, то ей вышлют в обмен маленького живого китайчонка. На Дне коробки, под толстыми стопочками марок, аккуратно перевязанных бечевкой, лежала карамельная бумажка с изображением восходящего солнца, на котором было написано: «Задуманная тобой особа честна, благородна и много думает о тебе». Дина сейчас же догадалась, что «благородная особа» никто иной, как она сама. Она сложила все свои сокровища в маленькую шкатулку, закрыла ее на ключ и положила ее на самое дно шкапа, чтобы никто не мог разоблачить ее тайны. Несмотря на то, что только Мише она позволяла надевать себе коньки на катке и только с ним танце вала мазурку, она очень холодно с ним обращалась, даже строго. Так что он и подумать не мог, что его скромные подснежники хранятся высушенными в ее дневнике. Конечно, он был очень милым и смешным: курносый нос весь был усыпан веснушками, смешные вихры торчали во все стороны. Он любил паясничать, делать ужасные гримасы, стоять на голове, изображать рыжего так, что невозможно было удержаться от смеха. Живой, веселый, очень музыкальный, он замечательно играл на различных инструментах; спортивный, превосходный гимнаст, он умел ходить на руках и делать стойку. В морозные прекрасные солнечные дни московской зимы они ходили на Патриаршие пруды кататься на коньках. Ловко, как заяц, он перепрыгивал через шесть стульев в ряд, скатываясь с большой ледяной лестницы, ведущей на каток, и падал прямо на руки. Это забавляло и льстило ей, но ей хотелось больше поэзии и романтизма в их отношениях. Ее чувства к нему не были похожи на романтическую любовь, которую она испытывала к знаменитому певцу Баттистини, который был гостем их дома Он триумфально выступил в Большом театре в опере Рубинштейна «Демон» по поэме Лермонтова. В черном плаще, с огромными темными крыльями за спиной, Баттистини был воплощением злого духа и одновременно таинственным и великолепным. Он преследовал в горах Кавказа прекрасную Тамару, которая была спасена ангелами от его страсти в самый последний момент. Великолепный голос итальянского певца, возвышенный текст и декорации восхищали девушку. Она сочувствовала демону, изгнаннику из рая, страсть которого выше всех запретов. После отъезда Баттистини фотография певца заняла место рядом с бумажками от карамели и марками в шкатулке, а потом была забыта. У моей матери были превосходные наставники, она получила после успешных экзаменов аттестат зрелости и слушала лекции знаменитого профессора истории В.О.Ключевского в Московском университете. Успехи в занятиях ее будущего мужа были не та кими же блестящими. Во время летних каникул, которые Миша проводил в Ясной Поляне, Софья Андреевна нанимала учителей, которые помогали ему наверстать упущенное. Но он бросил гимназию Поливанова ради Катковского лицея3, в котором тоже плохо учился. Он был умный, но его интерес к классическому образованию был более, чем скромным. К тому же слова отца, что университетские знания — это только спекуляция ума, они не содействуют самосовершенствованию и не дают ответа на вопрос о смысле жизни, были ему весьма на руку. Потеряв интерес к учению, Михаил увлекся радостями жизни. Но когда он смотрел на себя без снисхождения, он сознавал, что он не прилагал усилий ни в учении, ни в самосовершенствовании. Как-то раз в возрасте четырнадцати лет, когда Софья Андреевна серьезно заболела, он горячо молился Богу об ее выздоровлении и собирался покончить с собой, если ее не будет, сожалел, что огорчал ее своей ленью, непослушанием и плохим поведением. Лев Николаевич писал жене 15 сентября 1894 года: «…думал о Мише. Очень уж, очень у них много всяких земных благ: от этого нет ни охоты, ни времени заняться духовным». Желая восполнить пробелы в образовании Миши, Софья Андреевна делала все возможное, чтобы помочь сыну, об этом писал Лев Николаевич в дневнике 21 апреля 1894 года: «С Соней хорошо. Вчера думал наблюдая ее отношение к Андрюше и Мише. Какая это удивительная мать». Но добрые намерения Миши учиться отступали перед соблазнами жизни. Все Толстые были очень музыкальны. Михаил был самый даровитый, он научился виртуозно играть на балалайке, гармошке, пианино сочинял романсы и учился играть на скрипке. За непосредственность и юмор его все любили. Он любил спорт играл в теннис с отцом, часто сопровождал его во время длительных прогулок верхом. Отличный наездник, он увлекался лошадьми, собаками, охотой. С соседями Ясной Поляны ездил охотиться с борзыми на волков, лисиц, зайцев. Он развлекал своих близких тысячью проделок. Однажды он приехал в Ясную Поляну на лошади, которую только что купил. Лошадь была настолько несуразна, что без смеха на нее невозможно было смотреть. «Это должно быть скрещенный верблюд и курица,— сказал Лев Николаевич,— но мне она нравится. Тело у нее слабое, но душа смелая, есть в ней что-то магическое». К шестнадцати годам Миша, несмотря на желание остаться девственником, боялся, что не устоит перед соблазном, как его брат Андрей, у которого с пятнадцати лет было приключение с крестьянской девушкой. Миша не посмел поговорить об этом с отцом, но с матерью он «неожиданно откровенно и горячо» обсуждал эту проблему Не зная, что ему посоветовать, Софья Андреевна писала в дневнике: «Бедные мои мальчики! У них нет отца, а что я могу советовать в таких делах? Я ничего не знаю из этой области мужской жизни». Она рассказала об этом мужу, который принял это близко к сердцу, и написал сыну очень длинное письмо. Это было дидактическое и нравоучительное изложение взглядов о половом вопросе, который мучал Толстого всю жизнь. Прочтя письмо, он записал в дневнике: «Написал письмо Мише — длинное и слишком рассуждающее». Он не послал ему это письмо, но написал другое, более личное. Он сожалел, что Миша ни разу не заглянул ни в одну из его книг (за исключением романов), в которых он излагал ясные и правильные правила, прекрасно применимые и очень полезные для всех молодых людей в возрасте сына. Он умолял его оставаться целомудренным, не жениться в молодые годы и посвятить себя самосовершенствованию, это принесет больше радости, чем легкая жизнь, состоящая из мелких удовольствий, половой жизни, табака, алкоголя, которые только одурманивают разум. Любовь между моими родителями становилась все сильнее. Чтобы чаще видеться, они назначали друг другу свидания в одной из многочисленных церквей Москвы, так как родители моей матери хотя и были очень гостеприимными, принимали Михаила все более и более сдержанно. Мой дед по матери был против этого брака. И не только юность жениха — ему был двадцать один год — и отсутствие профессии заставляли его сомневаться. У моего отца было хорошее состояние после раздела имущества. Тогда почему мой дед Глебов отказывался отдать дочь замуж за сына самого знаменитого писателя России? Владимир Петрович лично ничего не имел против юного жениха, но восхищаясь талантом Толстого-писателя, он был не согласен с его религиозным учением. Глубоко верующий и преданный царю, он боялся за дочь, которая могла попасть под влияние будущего тестя и забыть о настоящих ценностях. Согласие Глебовых на брак становилось все неопределенней. На грани отчаяния мой отец стал умолять Льва Николаевича помочь ему. И однажды после продолжительной прогулки пешком по Москве Толстой зашел к моей бабушке С.Н.Глебовой, своей родственнице по линии Трубецких, посватать своего сына. Она восхищалась Толстым, и он любил ее за хороший характер, веселость и искренность. Их объединяла общая любовь к природе и лошадям. Позже она подарила ему великолепного жеребца, на котором Толстой ездил до конца жизни. «У вас товар, у нас покупатель»,— сказал он ей. Эти слова насмешили мою бабушку Софью Николаевну Глебову, и не в силах сопротивляться обаянию Толстого, она дала согласие на брак. Моя бабушка Софья Андреевна Толстая, присутствовавшая на церемонии венчания, писала в дневнике: «Миша был радостен и Лина тоже». На торжественное венчание в Кремле 31 января 1901 года были приглашены знаменитые певчие Чудова монастыря. Из церкви все поехали в глебовский особняк; было море цветов и горы подарков. Великий князь Сергей Александрович, дядя царя, губернатор Москвы, Друг моей бабушки, специально приехал из Петербурга на эту свадьбу. Он был особенно любезен с моей бабушкой Софьей Андреевной, она писала в дневнике: «Мне неприятно сознавать, что это льстило моему самолюбию так же, как льстили разговоры при выходе из церкви: «А это мать жениха».— «Какая сама-то еще красавица». Я, к сожалению, знаю жизнь со всеми ее осложнениями, и мне жаль моего юного, милого Мишу, бес поворотно вступившего на новое поприще. Но слава Богу, что с женой своего уровня, да еще любящей» Толстой не был на свадьбе сына, он просидел дома и в четыре часа пошел проститься с Линой и Мишей. Но когда он увидел карету великого князя, стоящую перед парадным входом, то вернулся. «Я хотел избежать неприятного разговора с великим князем Сергеем Александровичем»,— объяснил он причину своего опоздания, обнимая невестку и сына. После свадьбы родители и гости проводили молодоженов на вокзал в сопровождении шаферов с цветами, коробками конфет и шампанским. Все пили за здоровье молодых и кричали ура. Они провели несколько дней в Ясной Поляне, потом поехали в путешествие на несколько недель во Францию и Италию. До революции жизнь моих родителей была похожа на жизнь помещиков, которую Толстой описал в своих романах. За 10.000 рублей мой отец купил тысячу гектаров земли в Чифировке4 и активно принялся за ведение хозяйства. Семья быстро увеличивалась. В 1901 году родился Иван, потом еще восемь детей, из коих двое умерли в детстве. Соня, последняя, родилась в 1915. Прибыли с имения едва хватало для обеспеченного образа жизни: квартира в Москве, учителя, немецкая и французская гувернантки, многочисленная прислуга. Мой отец занялся предпринимательской деятельностью. С этой целью он объездил почти всю среднюю Россию, научился понимать ее, полюбил обычаи, нравы, народные костюмы, образный и яркий народный язык. Некоторые губернии были богаче других. В Тульской губернии многим крестьянам не хватало земли. В самых бедных хозяйствах была лишь одна корова. А в Восточной Сибири у крестьян было много скота и земли. Мой отец, при содействии правительства, занимался переселением бедных крестьян в Восточную Сибирь. В 1905 году мой отец помогал пострадавшим от неурожая крестьянам, он открывал столовые, раздавал и продавал дешевый хлеб в местности, особенно потерпевшей, в дальнем углу Крапивенского уезда, примыкающему к Богородицкому. Д. П. Маковицкий в ноябре 1905 года записал слова Льва Николаевича о сыне: «Миша увлечен своим устройством столовых для голодающих; думает, что из-за этой деятельности будут отношения крестьян к нему лучше…»5 Жизнерадостный и веселый от природы, Михаил стал с тех пор серьезно относиться к жизни. Его беспокоила политическая ситуация в России. Он считал, в отличие от своего отца, что введение единого налога на землю по Генри Джорджу не поможет Он надеялся, что аграрная реформа П. А. Столыпина предотвратит катастрофу. Он часто приезжал в Ясную Поляну, подолгу разговаривал с отцом и братом Сергеем, который считал, что Миша становится все умнее и умнее. Жена Михаила, Лина, всегда приезжала с ним. В письмах и дневниках Лев Николаевич и Софья Андреевна очень лестно отзывались о своей невестке. Лев Николаевич питал расположение и к другим невесткам. В семье Толстых считалось, что «у сыновей больше вкуса, чем у их жен. Они выбрали себе отличных жен, а жены… остались в проигрыше». В 1903 году Толстой поручил моей матери перевести с английского языка статью своего друга и последователя Эрнеста Кросби «Отношение Шекспира к рабочему народу», она с удовольствием выполнила эту работу. Во время революции 1905—1907 годов моя мама написала своему свекру письмо, в котором высказала свое непонимание и возмущение грабежами и убийствами, совершаемыми народом. 25 декабря 1905 года Лев Николаевич написал Лине большое письмо, вот отрывки из него: «Не скажу, чтобы я не испытывал теперь мучительного чувства негодования, сострадания и отвращения от того, что делается, но я не испытываю ни малейшего ни удивления, ни ужаса. Удивление и ужас перед зверством людей я испытал 25 лет тому назад, когда во мне произошел тот душевный переворот, который открыл мне смысл и назначение нашей истинной жизни и всю преступность, жестокость, мерзость той жизни, которую мы ведем, люди богатых классов, строя, наше глупое материальное внешнее благополучие на страданиях, забитости, унижении наших братии». Далее Толстой писал о том, что «нельзя жить без религии, без понимания смысла и назначения своей жизни». А в конце письма: «Я пишу то, что я 20 раз высказывал. Я не удержался высказать тебе это потому, что ты мать семейства и что на тебе лежит обязанность первого воспитателя детей». Он поздравил ее с Новым годом и «новыми детьми», у Лины и Миши в декабре 1905 года родились близнецы Владимир и Александра. В конце письма Толстой поблагодарил ее за «доверчивое и хорошее письмо» к нему. Через несколько лет, гуляя по парку с моей мамой, моим старшим братом Ваней и сестрой Таней, Толстой сказал ей с обычной для него искренностью: «Твои дети естественны и очаровательны, но они дурно воспитаны». Моя мама, всю душу вкладывавшая в воспитание детей, посмотрела на свекра удивленно. Толстой заметил, что обидел ее, и уточнил свою мысль, сказав более мягким тоном: «Как все дети богатых, они надеются, что их обслужат. Нужно научить их обходиться без прислуги». В силу разных обстоятельств это исполнилось через десяток лет. Она с успехом следовала этому совету, воспитывая многочисленных своих детей. Их было девять человек. Иван, Таня, Люба, умершая маленькой, близнецы Владимир и Александра, Петр, Миша (старше меня на два года и умерший в семь лет), я сам и Соня. В семье Толстых считалось, что «невестки Льва Николаевича ближе ему, чем сыновья — их мужья. Все они в душе толстовки, исключая Дору Федоровну» В первые годы супружеской жизни, попав под влияние свекра, Лина отдалилась от церкви, перестала соблюдать церковные обряды и, казалось, предчувствия ее отца В. П. Глебова оправдались. Но этот период оказался не долгим, вера ее была крепкой. Умная, снисходительная, она никогда никому не навязывала свои взгляды. Когда в отроческие годы я перестал верить в таинства православной церкви, мы много говорили с ней об этом во время долгих прогулок в Кламарском лесу, она меня слушала с большим вниманием. «Я вряд ли смогу логично объяснить тебе свою веру, но верю я глубоко в Бога, в Троицу и в Воскресение Христово. Нужно просто верить, и ты, надеюсь, со временем поймешь это». Она была натурой цельной. Очень начитанная, она и нас пристрастила с раннего возраста к литературе. Как сейчас слышу ее голос, вижу ее сидящей под лампой, читающей нам вслух «Войну и мир». Материальные трудности в эмиграции не помешали ей вести богатую интеллектуальную жизнь, ходить на литературные вечера, на выставки, в музеи. Она писала акварелью, вышивала, сочиняла стихи. Написанные ею в молодости романсы, к которым мой отец написал музыку, исполняются до сих пор. В них воспевается весна, молодость, любовь. А в тех стихах, которые она написала в эмиграции, звучат ностальгические ноты. А тема все та же: вечная красота природы. Но это уже не весна, а осень, которая бросает последний отблеск света на уходящий год. В стихотворении «Трианон», написанном в сентябре 1922 года, она воскрешает в памяти великолепие Версальского парка и его цветов, журчание фонтанов, пустые залы дворца, где бродит безразличная толпа, разглядывая портреты королей и королев, живших здесь в былые времена. Молчит клавесин, никто больше не исполняет на нем музыку Рамо, под которую грациозно танцевала Мария-Антуанетта и ее гости. Она написала воспоминания о детстве, биографию «Праведной Иулиании Лазаревской»6, которой она приходилась внучатой племянницей, и сказки для детей, которые она сама же иллюстрировала. Она приходила в ужас от вульгарности, не могла переносить грубости, закрывала уши, когда слышала пошлые речи. Она с большим достоинством переносила полную нищету первых лет эмиграции, хроническую нехватку Денег, невозможность заплатить в срок за жилье, газ, электричество; судебные исполнители за долги забрали у нас единственное, что оставалось ценного: фамильное серебро и тяжелую швейную машинку Зингер, которую через все испытания эмиграции пронесла с собой наша няня. У меня чудом сохранились две серебряные ложки и вилки, все, что оставил нам «из чистого милосердия» чиновник. Воспитание, полученное в России, не готовило ее к такому образу жизни. Но она научилась делать все-готовить, шить, штопать. Однажды она мне призна лась, что до совершеннолетия не видела ни разу сырого мяса. Чтобы заработать немного денег, она рисовала цветы по шелку, а торговец из квартала Сантье не раз бросал ей в лицо ее работу, если находил малейший недостаток. К материальным неприятностям прибавилась еще одна, более серьезная: к ней охладел муж, и они больше не жили вместе. Они были почти одного возраста, а он выглядел моложе. Ни светская, ни легкомысленная, ни имея модного платья, она не хотела сопровождать мужа в мудреное парижское светское общество, где он, как и повсюду, пользовался большим успехом. Мой отец, врожденный оптимист, занимаясь делами, надеялся всегда заключить очень выгодные сделки, которые по непонятным мистическим причинам почему-то ничем не кончались. Заработав немного денег, он неожиданно появлялся в нашем отверженном жилище увешанный с головы до ног подарками и продуктами. В эти годы у него был роман с одной особой, которая его обожала и сделала все, чтобы добиться его развода с женой, но он устоял перед этим искушением. Он все еще любил свою жену и уважал ее за душевные качества, зная, что он был единственным мужчиной в ее жизни, которого она любила. В начале двадцатых годов отец организовал хор, состоящий из шести певцов и певиц, который с большим успехом выступал в мюзикхолле Ампир, а затем во многих казино на Лазурном берегу, в отеле Пале, в Биаррице. Мама, брат Петя, сестра Соня и я, мы провели там две недели в августе 1925 года. Отец ходил с нами на пляж в просторном белом купальном костюме, прыгал с нами в огромные атлантические волны с пенными гребешками. Хор распался после ухода Ашима Хана, лучшего исполнителя труппы, в «Шехерезаду», русское кабаре в Париже. В конце двадцатых годов отец открыл бюро по продаже недвижимости на улице Галилея вместе со своим другом Михаилом Масленниковым, с которым служил в «Дикой дивизии»7. Сначала их дела шли хорошо. Каждое новое поступление доходов было причиной праздников, подарков, выхода в дорогостоящие рестораны, путешествий в Марокко, куда отец поехал с моей сестрой Таней. Но это продолжалось недолго. Экономический кризис, начавшийся с краха нью-йоркской биржи в 1929 году, жестоко отозвался в Европе. Великая экономическая депрессия не пощадила недвижимость. Бюро на улице Галилея переместилось на «холостяцкую» квартиру отца на улице Хамелин. Счета на газ, электричество, квартиру накапливались до бесконечности. Мне была поручена миссия малоприятная — ходить за продуктами к молочнику на углу улицы. Этот толстый, добрый, розовощекий малый, ругал «этих русских», наполняя мою сумку продуктами, приговаривая: «Все это вы получаете последний раз, вы хорошо меня слышите, последний раз». Все, кто успевал вернуться к обеду, садились за стол, на котором возвышался величественный омлет с ветчиной или какое-нибудь другое блюдо, приготовленное отцом, и бутылки красного вина. Кухня стала новой страстью отца. В разговорах, всегда оживленных, мы редко касались дел, они были некудышними, а говорили о прошлом, о революции, литературе, политике и о будущем. Дела могут поправиться, большевизм не вечен, а иначе придется искать счастья в других краях, в Парагвае, например. Там недавно окончилась продолжительная и тяжелая война против Боливии. Во главе парагвайского войска, одержавшего победу, был казак генерал Беляев. Провозглашенный героем страны, он звал русских эмигрантов, рассеянных по всему свету, приехать восстанавливать эту страну. Как-то раз во время горячего спора о крепостном праве, когда двоюродный брат отца дядя Андрей Берс, хозяин знаменитого ночного ресторана «Кунак» (одетый в неизменную черкеску, с которой никогда никогда не расставался, с кинжалом за поясом и мягких сапогах), излагал свои крайне реакционные взгляды, раздался звонок. В дверях стоял изысканно одетый мужчина, который на неуверенном французском языке осведомился, не здесь ли живет граф Толстой. Получив утвердительный ответ, он представился и бросился в объятия моего отца. Они познакомились при курьезных обстоятельствах. Во время войны на юго-западном фронте этот венгерский граф попал в плен к русским. В полдень в палатке был накрыт стол; мой отец нашел вполне естественным пригласить пленного обедать вместе с другими офицерами. За столом они поговорили о военной утренней стычке, нашли много общих знакомых, после этого венгра отправили в плен. Венгерский дворянин никогда не забывал этот благородный поступок и поклялся отплатить долг, разыскал моего отца, которого в тот же вечер пригласил в цыганский ресторан. Однажды на отца, возвращавшегося поздно ночью домой с diner-bridge8, на проспекте Клебер напали двое бродяг. Один из них, направив револьвер на отца, крикнул: «Жизнь или кошелек!» Реакция отца, у которого в кармане было всего три франка, была мгновенной: «Вот тебе жизнь, а вот тебе кошелек!» — крикнул он и нанес сильный удар тростью сначала одному, затем другому. От неожиданности они бросились бежать, но потом остановились, один из них выстрелил в отца из револьвера, но промахнулся. Первое такси, которое он хотел остановить, проехало мимо, а второе остановилось. Между тем бродяги пропали из виду. Отцу оставалось только дать свидетельские показания в ближайшем комиссариате полиции на улице Буке-де-Лоншан. Фамилия шофера такси была Троцкий. «Толстой и Троцкий? Ночью в Париже иногда происходят странные истории!» — воскликнул удивленный полицейский. На следующий день постоянно звонил телефон, отец получил очень много писем со свидетельствами дружбы, а также поздравления от бесчисленных друзей и от незнакомых людей. Он был очень тронут, получив письмо от своей бывшей учительницы французского языка, которая вернулась во Францию после Октябрьского переворота. Несмотря на превратности судьбы, хорошее настроение и оптимизм не изменяли отцу. Правда, у него было много друзей: князь Феликс Юсупов, у которого он некоторое время жил в его особняке Булонь; Лев Манташев, бывший кавказский нефтяной магнат, его лошадь Трансвааль, ко всеобщему удивлению, выиграла Гран при де Пари; шоколадный король Менье, вызывавший восхищение своих гостей ванной из чистого золота; Кузмичев, наследник самой большой чайной фирмы России. Взяв меня с собой однажды к нему в гости, отец предупредил меня, что Кузмичев, полюбив водку больше, чем чай, благодаря которому разбогател, теперь страдал белой горячкой. Он видел везде маленьких чертиков, сидевших на спинках стульев, на столах, на плечах и носах своих гостей. Спокойно и методично он быстрым щелчком сбрасывал их, что он и проделал, когда мы вошли в зал, он освободил отца от воображаемого чертика, усевшегося на его лысине. Все любили отца за его обаяние, юмор, простоту. Все его знакомые почитали за честь приглашать в гости сына Льва Толстого, что папа мало ценил. Восхищаясь своим отцом, он сохранил свое собственное лицо, лицо Михаила — Миши для близких. Он сочинял романсы — их исполняют до наших дней; обладал абсолютным слухом и мог бы стать великим музыкантом, если бы проявил настойчивость, учась играть на скрипке, пианино или гитаре. Но у него был ненасытный аппетит ко всему, что есть в жизни интересного, а это превратило его в дилетанта, но дилетанта талантливого. Долгие годы отец дружил со своим сверстником Федором Ивановичем Шаляпиным, они познакомились еще в России, а в 1900 году в январе по приглашению Михаила Шаляпин пел у Льва Толстого. Это было истинным наслаждением и для начинающего пев-Ца. и для писателя. В 1901 году мой отец со своим Другом С. В. Рахманиновым сопровождал Ф. И. Шаляпина в Милан на первое выступление в Ла Скала. Шаляпин исполнил партию Мефистофеля в опере Бойто9 «Мефистофель», партнером Шаляпина был Карузо, дирижировал Тосканини. После выступления друзья решили отметить успех, и папа пригласил всю труппу в ресторан. Карузо отказался из страха испортить водкой голосовые связки. «Ничего,— сказал Шаляпин,— русские связки выдержат». После революции отец встретился с Ф. И. Шаляпиным и С. В. Рахманиновым в Париже. Трое друзей пошли обедать в русский ресторан, известный хорошей кухней, водкой и приятной публикой. Рахманинов сел за пианино, а Шаляпин, вопреки своим правилам, не выступать в благотворительных концертах, на этот раз пел с удовольствием. Все трое лучшее, что в них было, вложили в этот бесплатный концерт, который закончился глубоко за полночь. Слух об этом концерте с быстротой молнии распространился среди русских эмигрантов, и ресторан быстро заполнился до отказа. Однажды я пришел на улицу Хамелин и увидел отца, сидящего на стуле посреди пустой комнаты, смотрящего перед собой застывшими глазами. Он вздрогнул когда я вошел в комнату. «Утром все вещи были проданы с молотка. По закону мне оставили кухонный стол, стул и кровать»,— сказал он. Я был больше огорчен за отца, чем из-за потери прекрасной мебели и персидских ковров, и попытался робко его утешить. Он встал, взял меня за руки, улыбнулся и сказал: «Ничего, переживем. Знаешь, я был счастлив в России, и даже в эмиграции у меня было много счастливых минут, а это все преходяще». Через некоторое время он уехал в Марокко к своим сыновьям Владимиру и Петру и к дочери Тане, вышедшей замуж за Александра Константиновича Львова. Мировой экономический кризис мало коснулся этой страны, она процветала: для нас это была обетованная земля: в Марокко курица и лангуста стоили только пять франков. Владимир, только что получивший диплом архитектора, работал в фирме Буайе, строящей гостиницу «Мархаба» на атлантическом побережье. Петя был топографом. Александр Львов, служащий в министерстве сельского хозяйства Марокко, Сашка, как мы его звали в семейном кругу, был сначала рабочим на заводе Рено, потом шофером такси, затем он пошел учиться, получил диплом агронома в школе Гриньон. После серого и тоскливого Парижа мой отец обрадовался марокканскому солнцу. Он с удовольствием занялся хозяйством, живя у своих детей. Он ходил на базар, ему нравилось торговаться с лавочниками. Однажды он сказал торговцу рыбой, что, если тот не снизит цену, то не продаст ничего за день, что и произошло. С тех пор его принимали за марабу, т. е. чародея, и он гордился, что приносил домой целую корзину разных овощей, фруктов, мяса и рыбы по самой низкой цене. Он радовался популярности блюд, которые готовил, и удивлялся аппетиту своих детей и был в восторге от жизни в семейной обстановке где был нужен. Однако все его мысли продолжал занимать проект переселения части русской эмиграции в Парагвай. Он считал, что сотни тысяч русских эмигрантов там могли бы быть полезней, чем прозябать в качестве ночных портье, шахтеров, шоферов такси, он вел переписку с авторитетными лицами, способными помочь ему в этой затее. Он написал Эррио10, Рабиндранату Тагору, но безрезультатно. Тем не менее несколько тысяч русских, среди которых были два моих кузена и мой брат Петр, отплыли в эту далекую страну. В Парагвае он познакомился с очень красивой казачкой, женился на ней и стал чайным плантатором. Вскоре моя мама вернулась к отцу, спустя два года к ним приехала моя сестра Саша с мужем Игорем и четырехлетней дочерью Ольгой, а потом моя любимая сестра Соня. Я остался в Париже один. Закончив медицинский факультет в институте Пастера, я женился в январе 1Ш7 года на Ольге Вырубовой. Она получила наследство от своего отчима и решила купить землю рядом с землей нашего зятя Игоря. На этих трехстах гектарах в Сиди Бетташ, городке, расположенном между Рабатом и Касабланкой, мой отец и дядя Саша, брат моей матери, управляющий делами у Игоря, собирались восстановить жизнь, хотя бы отдаленно похожую на прошлую помещичью жизнь в России. Были быстро построены три дома и сарай, посажен сад, засеяны Поля, куплены крупный рогатый скот и ангорские козы, которые по расчетам моего отца должны были приносить большой доход. Он говорил об этом с энтузиазмом, как о всяком проекте, интересовавшем его в данный момент. Он подсчитывал, сколько килограммов шерсти он соберет, сколько сыра изготовит, сколько кожи (шевро) продаст. Осенью 1938 года мы с женой, двумя нашими сыновьями-близнецами, кормилицей-итальянкой и фокстерьером прожили три месяца в только что построенном доме в Сиди Бетташ. И только в 1942 года я снова приехал в Марокко один, получив двухнедельный отпуск. Пропуск мне выдал главврач больницы Валь-де-Грас, в которой я работал врачом-реаниматором. На пароходе «Маршал Лиотей» из Марселя в Касабланку я играл в бридж с адмиралом Мишле, который должен был принять командование флотом, куда входил знаменитый корабль «Жан Барт»11. Он не сомневался в том, что огромная флотилия готовилась к отплытию в Северную Африку для открытия второго фронта. Лавируя между кораблями, стоящими в порту, «Маршал Лиотей»12 пришвартовался к дальнему причалу. Силуэт моего отца выделялся в толпе. Среднего роста, но крепкий и пропорционально сложенный, он казался выше своего роста. Он позволял себе иногда носить небрежную одежду, но благодаря врожденной элегантности, свойства истинного аристократа, это не портило его, а придавало его манере одеваться своеобразный шик. В тот день он был одет в коричневые брюки для игры в гольф и белую рубашку с неизменным галстуком-бабочкой, на голове большая коричневая шляпа, надвинутая до бровей. Мы поехали в его маленьком «форде» с высоко поднятым кузовом в Сиди Бетташ. Получив недавно водительские права, чем он очень гордился, отец сидел несколько напряженно за рулем, как будто он управлял тройкой, я ему об этом, смеясь, сказал. Он с жадностью расспрашивал меня о Франции, о моей жизни, жене, детях, сам рассказывал о жизни в здешних местах, о своих делах в Рабате. Остановившись у единственной бакалейной лавки в Сиди Бетташ, в которой можно было купить сигарет и выпить, отец с гордостью представил меня хозяину; мы с удивлением рассматривали сооружение в виде огромной курицы, отделанной под мрамор, внутри которой хозяин оборудовал туалеты. Нам оставалось пять километров до дома. Глинисто-песчаная красноватого цвета тамошней почвы дорога петляла среди дубовых рощ и цветущих желтыми и красными цветами лугов, шла вдоль морского побережья, в мержах13 которого аисты и другие водоплавающие птицы ловили рыбу. Я бросился в объятия матери, смеющейся и плачущей от счастья. В маленьком домике, заросшем до крыши бугенвиллеей14, мои родители вновь обрели счастье. Долгий разрыв отношений не отразился на их чувствах. Вдали от соблазнов Парижа мой отец нашел покой в жизни, которую всегда любил: в заботах о земле и доме в марокканской деревне. С огромным верным фламандским волопасом Милкой он совершал длинные прогулки пешком, осматривая пшеничные поля, наблюдал за скотом; чуткий к погоде, как всякий человек, близкий к земле, он опасался засу хи, ждал дождей. Во время своих долгих одиноких прогулок он думал о главных вопросах жизни, и с возрастом взгляды отца стали ему ближе. Может быть, он вспоми нал то длинное письмо отца, которое получил в юноше с кие годы, в котором Толстой рекомендовал ему общать ся с «людьми наиболее разумными, и живыми и умершими, через их мысли, выраженные в их сочинениях», или утверждал, что «разум есть высшая духовная сила человека, есть частица Бога в нас» Он советовал ему начать жить «для нравственного совершенствования», не бояться падать: «не падает только тот, кто ни к чему не стремится… Тысячу раз падай и тысячу раз поднимайся, и если ты не будешь непрестанно под вигаться… и кроме величайшей духовной радости, и все мирские радости жизни, которых ты желал прежде приложатся тебе, как это обещал Христос». Мой отец был человеком более глубоким, чем дума ли его друзья, которые видели в нем лишь веселого, остроумного оптимиста. Я не раз слышал, как он излагал мысли удивительные и оригинальные, которые могли даже показаться нелепыми, но, следуя за ходом его мысли, я должен был сознаться, что его выводы были правильными и самобытными. В Марокко он стал жертвой семейного вируса и взялся за перо. Сначала это был роман «Митя Тиверин», в котором любовная история героя, которому он придал автобиографические черты, разворачивается в предреволюционной России. В лучших традициях русской классической литературы, языком ярким и образным, он описывает нравы крестьян, купцов, дворян. По мере работы он читал написанные главы своей жене, которая давала ему советы и иногда исправляла. Закончив роман, он, как и его братья и сестры, желая воскресить прошлое, написал воспоминания о своей жизни в кругу семьи, не осудив никого: ни мать. ни отца. Тогда же он написал сестре Тане письмо, в котором спрашивал ее мнение о драме, происшедшей между родителями, и получил ответ из Рима. «29 Апр. 1941. Дорогой мой брат, крестник и друг. Какая радость была получить твое и Сашино письма. Мы с Таней так всегда о вас всех марокканцах думаем и беспокоимся. […] Нам с Таней очень жалко, что нам невозможно что-либо прислать вам из платья. Но наш знакомый летает самолетом и всякий лишний грамм учитывается Даже бумага должна быть наилегкая. Мне очень интересно будет прочесть твои воспоминания Я уверена, что это будет написано с добротой и мудростью. Конечно, чем меньше задора и осуждения, тем действительнее впечатление. […] Ты совершенно прав в том, что нет виноватых в этой драме15. И оттого вся эта история так драматична. Так было бы легко судить, если бы на душе одного были все грехи, а другой был бы чист и свят. Но в этом случае оба виноваты и оба правы. Отец был виноват в начале их супружеской жизни: он требовал от нее слишком многого — свыше ее сил — а ей не давал достаточно и не умел ее воспитать. Ведь она была почти девочкой и любила его, когда он на ней женился. Ну, а в конце жизни она горько и жестоко ему отплатила, хотя, вероятно, и не думала о мщении. Но это была неизбежная Немезида — неизбежное последствие той жизни, которую он заставил ее вести. Ох, Миша, все это страшно сложно и для нас детей, очень печально. Ты не видал страданий отца. А они были бесконечно велики. Если бы они не любили друг друга — все это было бы очень просто: простились бы и расстались. Но дело в том, что каждый из них был привязан к другому всем сердем, хотя и по-разному. Если бы только все их оставили в покое — нашли бы выход. Кто главным образом повредил в этом деле — это Саша Больше, чем Чертков. Она была молода. (…) Она видела только страдания отца, и любя его всем сердцем, она думала, что он может начать новую жизнь отдельно от своей старой подруги и быть счастливым. Ну, довольно. Я никогда не могу говорить или читать или думать об этом без тяжелого волнения И мы напрасно мало вмешивались в это. Я сейчас написала, что надо было оставить их в покое Да, но надо было энергично отстранить всякое постороннее влияние. Ну, теперь несколько слов о нашей жизни здесь. Живем пока, слава Богу Не голодаем Рим не обстреливается. Таня, Леонардо и дети здоровы. Я иногда прихварываю печенью и не так скоро поправляюсь, как прежде. Но нечего Бога гневить. Для своих 76 лет я еще довольно крепка. От Сережи получаю письма, и всегда с нотами. Видно, что он живет довольно счастливо, хотя и туго материально. Лева в Швеции с своими сыновьями и жалуется на холод, черный хлеб, северную комнату и т. д. О Саше ничего не знаю, хотя писала ей с оказией. Ей на душе очень «чижало», как писал Ваничка. Она отчасти сознает все то, что она дурно сделала. Ну вот, милый мой Миша. Будь здоров и счастлив и продолжай мудрить. Если бы ты меньше пил — ты был бы очень замечательным человеком. Тоже и Илья. У него необыкновенно хорошее сердце. А, как известно, большие мысли исходят из сердца. И еще у вас с ним одинаковое качество — такт. Целую тебя крепко. Также и Лину и Сашу. Ваша старая Таня» К моему приезду литературные труды отца были завершены, а все козы передохли. Впрочем, это была запретная тема, об этом нельзя было с ним говорить. Вместе со своим другом графом Фонтенье, обаятельнейшим гасконцем, он затеял новое дело: открыл бюро по импорту-экспорту, которое, по его мнению, должно было принести большой доход. В Рабате (у отца было пристанище в доме графа Шереметьева) мы пошли обедать в самый лучший ресторан города «Марио». Хозяин, словоохотливый итальянец с носом Пиноккио, с выпуклыми глазами, как у лангусты, которыми он нас потчевал, относился к отцу с глубоким уважением Почтительно согнувшись, он подвел нас к столику, за которым нас ждали друзья отца: Жак Вибо и маркиз Де Шавинье. В честь моего приезда они решили устроить прием на вилле, расположенной на высоком крутом берегу Бурегре, напротив Сале. Отец был, как всегда, в центре внимания. Заставив себя немного упрашивать, он брал в руки гитару, брал несколько аккордов и целый вечер играл военные марши, старинные народные песни, цыганские романсы и свои собственные романсы на слова моек матери или известных поэтов. Иногда он насвистывал мелодию или напевал вполголоса. У моего отца был хороший, но не сильный голос задушевная манера исполнения придавала известным романсам в его исполнении неповторимое звучание и переносила слушателей, в том числе красивых женщин, сидевших у его ног, в мир вне времени и пространства. Русских в Марокко было много: топографы, геологи, инженеры-агрономы хорошо зарабатывали на жизнь. Они построили красивую православную церковь в Рабате. На деньги от публичных лекций и спектаклей они устраивали ежегодно русский бал, пользующийся большой популярностью французов, живших в Марокко. — Хочешь увидеть нечто удивительное? — сказал мне однажды отец,— пойдем к господину Дезобри. Был он русским французского происхождения. Его предки эмигрировали в Россию после Великой французской революции, а сам он стал беженцем после Октябрьской революции. Дезобри купил недалеко от Рабата несколько гектаров песчаной земли, на которой росли редкие кусты колючих и ядовитых кустарников. Водоискатель с помощью орехового прутика нашел воду. Эолиен16 наполнила ирригационные каналы, и земля ожила. Рядом с большим домом Дезобри его русские друзья построили себе дома, и через несколько лет на этих полупустынных землях появилась деревушка, названная Устиновкой в память об имении Дезобри в России. Посреди апельсиновой рощи в цвету мы увидели дюжину домов, заросших цветущей бугенвиллеей. На крыльце дома стояла босая в просторном платье, напоминавшем сарафан, негритянка Айша. Я очень удивился, услышав на чистом русском языке с неподражаемым московским акцентом: «Проходите, барин, в зал, я позову хозяйку, она отдыхает. А пока я поставлю самовар». Вся семья собралась за столом, накрытым вышитой скатертью. А когда закипел самовар, мы пили чай с русскими пирогами и разными вареньями, которые Айша научилась варить под руководством мадам Дезобри. За столом говорили об урожае, войне, погоде, потом разговор чуть было не перешел в ссору между отцом и хозяйкой дома: они стали спорить о преимуществах своих борзых, которые у них были когда-то в России. 8 ноября, накануне своего возвращения во Францию, я проснулся от канонады: высадился американский десант. За эти три дня, пока длилась абсурдная битва против тех, кто освободил Францию, я был мобилизован и работал в госпитале в Рабате, где лежали раненые обеих сторон. В день перемирия я был свидетелем рукопожатия между французскими и американскими офицерами. Я никогда не видел своего отца таким энергичным, полным жизни и планов, как в последний год его жизни. Конечно, все его мысли занимала война. Каждый вечер в семь часов он слушал новости, это стало ритуалом, и ничто на свете не могло оторвать его от радио.

Zarathustra Nietzsche Double language

Also sprach Zarathustra


Von Friedrich Nietzsche


Ein Buch für Alle und Keinen


Erster Teil


Zarathustra’s Vorrede


1.


Als Zarathustra dreissig Jahr alt war,
verliess er seine Heimat und den See seiner Heimat und gieng in das
Gebirge. Hier genoss er seines Geistes und seiner Einsamkeit und wurde
dessen zehn Jahre nicht müde. Endlich aber verwandelte sich sein Herz, —
und eines Morgens stand er mit der Morgenröthe auf, trat vor die Sonne
hin und sprach zu ihr also:


„Du grosses Gestirn! Was wäre dein Glück, wenn du nicht Die hättest, welchen du leuchtest!


Zehn Jahre kamst du hier herauf zu meiner
Höhle: du würdest deines Lichtes und dieses Weges satt geworden sein,
ohne mich, meinen Adler und meine Schlange.


Aber wir warteten deiner an jedem Morgen, nahmen dir deinen Überfluss ab und segneten dich dafür.


Siehe! Ich bin meiner Weisheit
überdrüssig, wie die Biene, die des Honigs zu viel gesammelt hat, ich
bedarf der Hände, die sich ausstrecken.


Ich möchte verschenken und austheilen, bis
die Weisen unter den Menschen wieder einmal ihrer Thorheit und die
Armen wieder einmal ihres Reichthums froh geworden sind.


Dazu muss ich in die Tiefe steigen: wie du
des Abends thust, wenn du hinter das Meer gehst und noch der Unterwelt
Licht bringst, du überreiches Gestirn!


Ich muss, gleich dir, untergehen, wie die Menschen es nennen, zu denen ich hinab will.


So segne mich denn, du ruhiges Auge, das ohne Neid auch ein allzugrosses Glück sehen kann!


Segne den Becher, welcher überfliessen
will, dass das Wasser golden aus ihm fliesse und überallhin den Abglanz
deiner Wonne trage!


Siehe! Dieser Becher will wieder leer werden, und Zarathustra will wieder Mensch werden.“


— Also begann Zarathustra’s Untergang.


2.


Zarathustra stieg allein das Gebirge
abwärts und Niemand begegnete ihm. Als er aber in die Wälder kam, stand
auf einmal ein Greis vor ihm, der seine heilige Hütte verlassen hatte,
um Wurzeln im Walde zu suchen. Und also sprach der Greis zu Zarathustra:


Nicht fremd ist mir dieser Wanderer: vor manchem Jahre gieng er hier vorbei. Zarathustra hiess er; aber er hat sich verwandelt.


Damals trugst du deine Asche zu Berge:
willst du heute dein Feuer in die Thäler tragen? Fürchtest du nicht des
Brandstifters Strafen?


Ja, ich erkenne Zarathustra. Rein ist sein Auge, und an seinem Munde birgt sich kein Ekel. Geht er nicht daher wie ein Tänzer?


Verwandelt ist Zarathustra, zum Kind ward Zarathustra, ein Erwachter ist Zarathustra: was willst du nun bei den Schlafenden?


Wie im Meere lebtest du in der Einsamkeit,
und das Meer trug dich. Wehe, du willst an’s Land steigen? Wehe, du
willst deinen Leib wieder selber schleppen?


Zarathustra antwortete: „Ich liebe die Menschen.“


Warum, sagte der Heilige, gieng ich doch in den Wald und die Einöde? War es nicht, weil ich die Menschen allzu sehr liebte?


Jetzt liebe ich Gott: die Menschen liebe
ich nicht. Der Mensch ist mir eine zu unvollkommene Sache. Liebe zum
Menschen würde mich umbringen.


Zarathustra antwortete: „Was sprach ich von Liebe! Ich bringe den Menschen ein Geschenk.“


Gieb ihnen Nichts, sagte der Heilige. Nimm
ihnen lieber Etwas ab und trage es mit ihnen — das wird ihnen am
wohlsten thun: wenn es dir nur wohlthut!


Und willst du ihnen geben, so gieb nicht mehr, als ein Almosen, und lass sie noch darum betteln!


„Nein, antwortete Zarathustra, ich gebe kein Almosen. Dazu bin ich nicht arm genug.“


Der Heilige lachte über Zarathustra und
sprach also: So sieh zu, dass sie deine Schätze annehmen! Sie sind
misstrauisch gegen die Einsiedler und glauben nicht, dass wir kommen, um
zu schenken.


Unsre Schritte klingen ihnen zu einsam
durch die Gassen. Und wie wenn sie Nachts in ihren Betten einen Mann
gehen hören, lange bevor die Sonne aufsteht, so fragen sie sich wohl:
wohin will der Dieb?


Gehe nicht zu den Menschen und bleibe im
Walde! Gehe lieber noch zu den Thieren! Warum willst du nicht sein, wie
ich, — ein Bär unter Bären, ein Vogel unter Vögeln?


„Und was macht der Heilige im Walde?“ fragte Zarathustra.


Der Heilige antwortete: Ich mache Lieder
und singe sie, und wenn ich Lieder mache, lache, weine und brumme ich:
also lobe ich Gott.


Mit Singen, Weinen, Lachen und Brummen lobe ich den Gott, der mein Gott ist. Doch was bringst du uns zum Geschenke?


Als Zarathustra diese Worte gehört hatte,
grüsste er den Heiligen und sprach: „Was hätte ich euch zu geben! Aber
lasst mich schnell davon, dass ich euch Nichts nehme!“ — Und so trennten
sie sich von einander, der Greis und der Mann, lachend, gleichwie zwei
Knaben lachen.


Als Zarathustra aber allein war, sprach er
also zu seinem Herzen: „Sollte es denn möglich sein! Dieser alte
Heilige hat in seinem Walde noch Nichts davon gehört, dass Gott todt
ist!“ —


3.


Als Zarathustra in die nächste Stadt kam,
die an den Wäldern liegt, fand er daselbst viel Volk versammelt auf dem
Markte: denn es war verheissen worden, dass man einen Seiltänzer sehen
solle. Und Zarathustra sprach also zum Volke:


Ich lehre euch den Übermenschen. Der Mensch ist Etwas, das überwunden werden soll. Was habt ihr gethan, ihn zu überwinden?


Alle Wesen bisher schufen Etwas über sich
hinaus: und ihr wollt die Ebbe dieser grossen Fluth sein und lieber noch
zum Thiere zurückgehn, als den Menschen überwinden?


Was ist der Affe für den Menschen? Ein
Gelächter oder eine schmerzliche Scham. Und ebendas soll der Mensch für
den Übermenschen sein: ein Gelächter oder eine schmerzliche Scham.


Ihr habt den Weg vom Wurme zum Menschen
gemacht, und Vieles ist in euch noch Wurm. Einst wart ihr Affen, und
auch jetzt noch ist der Mensch mehr Affe, als irgend ein Affe.


Wer aber der Weiseste von euch ist, der
ist auch nur ein Zwiespalt und Zwitter von Pflanze und von Gespenst.
Aber heisse ich euch zu Gespenstern oder Pflanzen werden?


Seht, ich lehre euch den Übermenschen!


Der Übermensch ist der Sinn der Erde. Euer Wille sage: der Übermensch sei der Sinn der Erde!


Ich beschwöre euch, meine Brüder, bleibt
der Erde treu und glaubt Denen nicht, welche euch von überirdischen
Hoffnungen reden! Giftmischer sind es, ob sie es wissen oder nicht.


Verächter des Lebens sind es, Absterbende und selber Vergiftete, deren die Erde müde ist: so mögen sie dahinfahren!


Einst war der Frevel an Gott der grösste
Frevel, aber Gott starb, und damit starben auch diese Frevelhaften. An
der Erde zu freveln ist jetzt das Furchtbarste und die Eingeweide des
Unerforschlichen höher zu achten, als den Sinn der Erde!


Einst blickte die Seele verächtlich auf
den Leib: und damals war diese Verachtung das Höchste: — sie wollte ihn
mager, grässlich, verhungert. So dachte sie ihm und der Erde zu
entschlüpfen.


Oh diese Seele war selber noch mager, grässlich und verhungert: und Grausamkeit war die Wollust dieser Seele!


Aber auch ihr noch, meine Brüder, sprecht
mir: was kündet euer Leib von eurer Seele? Ist eure Seele nicht Armuth
und Schmutz und ein erbärmliches Behagen?


Wahrlich, ein schmutziger Strom ist der
Mensch. Man muss schon ein Meer sein, um einen schmutzigen Strom
aufnehmen zu können, ohne unrein zu werden.


Seht, ich lehre euch den Übermenschen: der ist diess Meer, in ihm kann eure grosse Verachtung untergehn.


Was ist das Grösste, das ihr erleben
könnt? Das ist die Stunde der grossen Verachtung. Die Stunde, in der
euch auch euer Glück zum Ekel wird und ebenso eure Vernunft und eure
Tugend.


Die Stunde, wo ihr sagt: „Was liegt an
meinem Glücke! Es ist Armuth und Schmutz, und ein erbärmliches Behagen.
Aber mein Glück sollte das Dasein selber rechtfertigen!“


Die Stunde, wo ihr sagt: „Was liegt an
meiner Vernunft! Begehrt sie nach Wissen wie der Löwe nach seiner
Nahrung? Sie ist Armuth und Schmutz und ein erbärmliches Behagen!“


Die Stunde, wo ihr sagt: „Was liegt an
meiner Tugend! Noch hat sie mich nicht rasen gemacht. Wie müde bin ich
meines Guten und meines Bösen! Alles das ist Armuth und Schmutz und ein
erbärmliches Behagen!“


Die Stunde, wo ihr sagt: „Was liegt an
meiner Gerechtigkeit! Ich sehe nicht, dass ich Gluth und Kohle wäre.
Aber der Gerechte ist Gluth und Kohle!“


Die Stunde, wo ihr sagt: „Was liegt an
meinem Mitleiden! Ist nicht Mitleid das Kreuz, an das Der genagelt wird,
der die Menschen liebt? Aber mein Mitleiden ist keine Kreuzigung.“


Spracht ihr schon so? Schriet ihr schon so? Ach, dass ich euch schon so schreien gehört hätte!


Nicht eure Sünde — eure Genügsamkeit schreit gen Himmel, euer Geiz selbst in eurer Sünde schreit gen Himmel!


Wo ist doch der Blitz, der euch mit seiner Zunge lecke? Wo ist der Wahnsinn, mit dem ihr geimpft werden müsstet?


Seht, ich lehre euch den Übermenschen: der ist dieser Blitz, der ist dieser Wahnsinn! —


Als Zarathustra so gesprochen hatte,
schrie Einer aus dem Volke: „Wir hörten nun genug von dem Seiltänzer;
nun lasst uns ihn auch sehen!“ Und alles Volk lachte über Zarathustra.
Der Seiltänzer aber, welcher glaubte, dass das Wort ihm gälte, machte
sich an sein Werk.


4.


Zarathustra aber sahe das Volk an und wunderte sich. Dann sprach er also:


Der Mensch ist ein Seil, geknüpft zwischen Thier und Übermensch, — ein Seil über einem Abgrunde.


Ein gefährliches Hinüber, ein gefährliches
Auf-dem-Wege, ein gefährliches Zurückblicken, ein gefährliches
Schaudern und Stehenbleiben.


Was gross ist am Menschen, das ist, dass
er eine Brücke und kein Zweck ist: was geliebt werden kann am Menschen,
das ist, dass er ein Übergang und ein Untergang ist.


Ich liebe Die, welche nicht zu leben wissen, es sei denn als Untergehende, denn es sind die Hinübergehenden.


Ich liebe die grossen Verachtenden, weil sie die grossen Verehrenden sind und Pfeile der Sehnsucht nach dem andern Ufer.


Ich liebe Die, welche nicht erst hinter
den Sternen einen Grund suchen, unterzugehen und Opfer zu sein: sondern
die sich der Erde opfern, dass die Erde einst des Übermenschen werde.


Ich liebe Den, welcher lebt, damit er
erkenne, und welcher erkennen will, damit einst der Übermensch lebe. Und
so will er seinen Untergang.


Ich liebe Den, welcher arbeitet und
erfindet, dass er dem Übermenschen das Haus baue und zu ihm Erde, Thier
und Pflanze vorbereite: denn so will er seinen Untergang.


Ich liebe Den, welcher seine Tugend liebt: denn Tugend ist Wille zum Untergang und ein Pfeil der Sehnsucht.


Ich liebe Den, welcher nicht einen Tropfen
Geist für sich zurückbehält, sondern ganz der Geist seiner Tugend sein
will: so schreitet er als Geist über die Brücke.


Ich liebe Den, welcher aus seiner Tugend
seinen Hang und sein Verhängniss macht: so will er um seiner Tugend
willen noch leben und nicht mehr leben.


Ich liebe Den, welcher nicht zu viele
Tugenden haben will. Eine Tugend ist mehr Tugend, als zwei, weil sie
mehr Knoten ist, an den sich das Verhängniss hängt.


Ich liebe Den, dessen Seele sich
verschwendet, der nicht Dank haben will und nicht zurückgiebt: denn er
schenkt immer und will sich nicht bewahren.


Ich liebe Den, welcher sich schämt, wenn
der Würfel zu seinem Glücke fällt und der dann fragt: bin ich denn ein
falscher Spieler? — denn er will zu Grunde gehen.


Ich liebe Den, welcher goldne Worte seinen
Thaten voraus wirft und immer noch mehr hält, als er verspricht: denn
er will seinen Untergang.


Ich liebe Den, welcher die Zukünftigen
rechtfertigt und die Vergangenen erlöst: denn er will an den
Gegenwärtigen zu Grunde gehen.


Ich liebe Den, welcher seinen Gott züchtigt, weil er seinen Gott liebt: denn er muss am Zorne seines Gottes zu Grunde gehen.


Ich liebe Den, dessen Seele tief ist auch
in der Verwundung, und der an einem kleinen Erlebnisse zu Grunde gehen
kann: so geht er gerne über die Brücke.


Ich liebe Den, dessen Seele übervoll ist,
so dass er sich selber vergisst, und alle Dinge in ihm sind: so werden
alle Dinge sein Untergang.


Ich liebe Den, der freien Geistes und
freien Herzens ist: so ist sein Kopf nur das Eingeweide seines Herzens,
sein Herz aber treibt ihn zum Untergang.


Ich liebe alle Die, welche wie schwere
Tropfen sind, einzeln fallend aus der dunklen Wolke, die über den
Menschen hängt: sie verkündigen, dass der Blitz kommt, und gehn als
Verkündiger zu Grunde.


Seht, ich bin ein Verkündiger des Blitzes und ein schwerer Tropfen aus der Wolke: dieser Blitz aber heisst Übermensch. —


5.


Als Zarathustra diese Worte gesprochen
hatte, sahe er wieder das Volk an und schwieg. „Da stehen sie“, sprach
er zu seinem Herzen, „da lachen sie: sie verstehen mich nicht, ich bin
nicht der Mund für diese Ohren.


Muss man ihnen erst die Ohren zerschlagen,
dass sie lernen, mit den Augen hören? Muss man rasseln gleich Pauken
und Busspredigern? Oder glauben sie nur dem Stammelnden?


Sie haben Etwas, worauf sie stolz sind.
Wie nennen sie es doch, was sie stolz macht? Bildung nennen sie’s, es
zeichnet sie aus vor den Ziegenhirten.


Drum hören sie ungern von sich das Wort „Verachtung“. So will ich denn zu ihrem Stolze reden.


So will ich ihnen vom Verächtlichsten sprechen: das aber ist der letzte Mensch.“


Und also sprach Zarathustra zum Volke:


Es ist an der Zeit, dass der Mensch sich
sein Ziel stecke. Es ist an der Zeit, dass der Mensch den Keim seiner
höchsten Hoffnung pflanze.


Noch ist sein Boden dazu reich genug. Aber
dieser Boden wird einst arm und zahm sein, und kein hoher Baum wird
mehr aus ihm wachsen können.


Wehe! Es kommt die Zeit, wo der Mensch
nicht mehr den Pfeil seiner Sehnsucht über den Menschen hinaus wirft,
und die Sehne seines Bogens verlernt hat, zu schwirren!


Ich sage euch: man muss noch Chaos in sich
haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können. Ich sage euch: ihr
habt noch Chaos in euch.


Wehe! Es kommt die Zeit, wo der Mensch
keinen Stern mehr gebären wird. Wehe! Es kommt die Zeit des
verächtlichsten Menschen, der sich selber nicht mehr verachten kann.


Seht! Ich zeige euch den letzten Menschen.


„Was ist Liebe? Was ist Schöpfung? Was ist Sehnsucht? Was ist Stern?“ — so fragt der letzte Mensch und blinzelt.


Die Erde ist dann klein geworden, und auf
ihr hüpft der letzte Mensch, der Alles klein macht. Sein Geschlecht ist
unaustilgbar, wie der Erdfloh; der letzte Mensch lebt am längsten.


„Wir haben das Glück erfunden“ — sagen die letzten Menschen und blinzeln.


Sie haben die Gegenden verlassen, wo es
hart war zu leben: denn man braucht Wärme. Man liebt noch den Nachbar
und reibt sich an ihm: denn man braucht Wärme.


Krankwerden und Misstrauen-haben gilt
ihnen sündhaft: man geht achtsam einher. Ein Thor, der noch über Steine
oder Menschen stolpert!


Ein wenig Gift ab und zu: das macht angenehme Träume. Und viel Gift zuletzt, zu einem angenehmen Sterben.


Man arbeitet noch, denn Arbeit ist eine Unterhaltung. Aber man sorgt, dass die Unterhaltung nicht angreife.


Man wird nicht mehr arm und reich: Beides
ist zu beschwerlich. Wer will noch regieren? Wer noch gehorchen? Beides
ist zu beschwerlich.


Kein Hirt und Eine Heerde! Jeder will das Gleiche, Jeder ist gleich: wer anders fühlt, geht freiwillig in’s Irrenhaus.


„Ehemals war alle Welt irre“ — sagen die Feinsten und blinzeln.


Man ist klug und weiss Alles, was geschehn
ist: so hat man kein Ende zu spotten. Man zankt sich noch, aber man
versöhnt sich bald — sonst verdirbt es den Magen.


Man hat sein Lüstchen für den Tag und sein Lüstchen für die Nacht: aber man ehrt die Gesundheit.


„Wir haben das Glück erfunden“ — sagen die letzten Menschen und blinzeln. —



Und hier endete die erste Rede Zarathustra’s, welche man auch „die
Vorrede“ heisst: denn an dieser Stelle unterbrach ihn das Geschrei und
die Lust der Menge. „Gieb uns diesen letzten Menschen, oh Zarathustra, —
so riefen sie — mache uns zu diesen letzten Menschen! So schenken wir
dir den Übermenschen!“ Und alles Volk jubelte und schnalzte mit der
Zunge. Zarathustra aber wurde traurig und sagte zu seinem Herzen:


Sie verstehen mich nicht: ich bin nicht der Mund für diese Ohren.


Zu lange wohl lebte ich im Gebirge, zu viel horchte ich auf Bäche und Bäume: nun rede ich ihnen gleich den Ziegenhirten.


Unbewegt ist meine Seele und hell wie das
Gebirge am Vormittag. Aber sie meinen, ich sei kalt und ein Spötter in
furchtbaren Spässen.


Und nun blicken sie mich an und lachen: und indem sie lachen, hassen sie mich noch. Es ist Eis in ihrem Lachen.


6.


Da aber geschah Etwas, das jeden Mund
stumm und jedes Auge starr machte. Inzwischen nämlich hatte der
Seiltänzer sein Werk begonnen: er war aus einer kleinen Thür
hinausgetreten und gieng über das Seil, welches zwischen zwei Thürmen
gespannt war, also, dass es über dem Markte und dem Volke hieng. Als er
eben in der Mitte seines Weges war, öffnete sich die kleine Thür noch
einmal, und ein bunter Gesell, einem Possenreisser gleich, sprang heraus
und gieng mit schnellen Schritten dem Ersten nach. „Vorwärts, Lahmfuss,
rief seine fürchterliche Stimme, vorwärts Faulthier, Schleichhändler,
Bleichgesicht! Dass ich dich nicht mit meiner Ferse kitzle! Was treibst
du hier zwischen Thürmen? In den Thurm gehörst du, einsperren sollte man
dich, einem Bessern, als du bist, sperrst du die freie Bahn!“ — Und mit
jedem Worte kam er ihm näher und näher: als er aber nur noch einen
Schritt hinter ihm war, da geschah das Erschreckliche, das jeden Mund
stumm und jedes Auge starr machte: — er stiess ein Geschrei aus wie ein
Teufel und sprang über Den hinweg, der ihm im Wege war. Dieser aber, als
er so seinen Nebenbuhler siegen sah, verlor dabei den Kopf und das
Seil; er warf seine Stange weg und schoss schneller als diese, wie ein
Wirbel von Armen und Beinen, in die Tiefe. Der Markt und das Volk glich
dem Meere, wenn der Sturm hineinfährt: Alles floh aus einander und
übereinander, und am meisten dort, wo der Körper niederschlagen musste.


Zarathustra aber blieb stehen, und gerade
neben ihn fiel der Körper hin, übel zugerichtet und zerbrochen, aber
noch nicht todt. Nach einer Weile kam dem Zerschmetterten das
Bewusstsein zurück, und er sah Zarathustra neben sich knieen. „Was
machst du da? sagte er endlich, ich wusste es lange, dass mir der Teufel
ein Bein stellen werde. Nun schleppt er mich zur Hölle: willst du’s ihm
wehren?“


„Bei meiner Ehre, Freund, antwortete
Zarathustra, das giebt es Alles nicht, wovon du sprichst: es giebt
keinen Teufel und keine Hölle. Deine Seele wird noch schneller todt sein
als dein Leib: fürchte nun Nichts mehr!“


Der Mann blickte misstrauisch auf. „Wenn
du die Wahrheit sprichst, sagte er dann, so verliere ich Nichts, wenn
ich das Leben verliere. Ich bin nicht viel mehr als ein Thier, das man
tanzen gelehrt hat, durch Schläge und schmale Bissen.“


„Nicht doch, sprach Zarathustra; du hast
aus der Gefahr deinen Beruf gemacht, daran ist Nichts zu verachten. Nun
gehst du an deinem Beruf zu Grunde: dafür will ich dich mit meinen
Händen begraben.“


Als Zarathustra diess gesagt hatte,
antwortete der Sterbende nicht mehr; aber er bewegte die Hand, wie als
ob er die Hand Zarathustra’s zum Danke suche. —


7.


Inzwischen kam der Abend, und der Markt
barg sich in Dunkelheit: da verlief sich das Volk, denn selbst Neugierde
und Schrecken werden müde. Zarathustra aber sass neben dem Todten auf
der Erde und war in Gedanken versunken: so vergass er die Zeit. Endlich
aber wurde es Nacht, und ein kalter Wind blies über den Einsamen. Da
erhob sich Zarathustra und sagte zu seinem Herzen:


Wahrlich, einen schönen Fischfang that heute Zarathustra! Keinen Menschen fieng er, wohl aber einen Leichnam.


Unheimlich ist das menschliche Dasein und immer noch ohne Sinn: ein Possenreisser kann ihm zum Verhängniss werden.


Ich will die Menschen den Sinn ihres Seins lehren: welcher ist der Übermensch, der Blitz aus der dunklen Wolke Mensch.


Aber noch bin ich ihnen ferne, und mein
Sinn redet nicht zu ihren Sinnen. Eine Mitte bin ich noch den Menschen
zwischen einem Narren und einem Leichnam.


Dunkel ist die Nacht, dunkel sind die Wege
Zarathustra’s. Komm, du kalter und steifer Gefährte! Ich trage dich
dorthin, wo ich dich mit meinen Händen begrabe.


8.


Als Zarathustra diess zu seinem Herzen
gesagt hatte, lud er den Leichnam auf seinen Rücken und machte sich auf
den Weg. Und noch nicht war er hundert Schritte gegangen, da schlich ein
Mensch an ihn heran und flüsterte ihm in’s Ohr — und siehe! Der,
welcher redete, war der Possenreisser vom Thurme. „Geh weg von dieser
Stadt, oh Zarathustra, sprach er; es hassen dich hier zu Viele. Es
hassen dich die Guten und Gerechten und sie nennen dich ihren Feind und
Verächter; es hassen dich die Gläubigen des rechten Glaubens, und sie
nennen dich die Gefahr der Menge. Dein Glück war es, dass man über dich
lachte: und wahrlich, du redetest gleich einem Possenreisser. Dein Glück
war es, dass du dich dem todten Hunde geselltest; als du dich so
erniedrigtest, hast du dich selber für heute errettet. Geh aber fort aus
dieser Stadt — oder morgen springe ich über dich hinweg, ein Lebendiger
über einen Todten.“ Und als er diess gesagt hatte, verschwand der
Mensch; Zarathustra aber gieng weiter durch die dunklen Gassen.


Am Thore der Stadt begegneten ihm die
Todtengräber: sie leuchteten ihm mit der Fackel in’s Gesicht, erkannten
Zarathustra und spotteten sehr über ihn. „Zarathustra trägt den todten
Hund davon: brav, dass Zarathustra zum Todtengräber wurde! Denn unsere
Hände sind zu reinlich für diesen Braten. Will Zarathustra wohl dem
Teufel seinen Bissen stehlen? Nun wohlan! Und gut Glück zur Mahlzeit!
Wenn nur nicht der Teufel ein besserer Dieb ist, als Zarathustra! — er
stiehlt sie Beide, er frisst sie Beide!“ Und sie lachten mit einander
und steckten die Köpfe zusammen.


Zarathustra sagte dazu kein Wort und gieng
seines Weges. Als er zwei Stunden gegangen war, an Wäldern und Sümpfen
vorbei, da hatte er zu viel das hungrige Geheul der Wölfe gehört, und
ihm selber kam der Hunger. So blieb er an einem einsamen Hause stehn, in
dem ein Licht brannte.


Der Hunger überfällt mich, sagte
Zarathustra, wie ein Räuber. In Wäldern und Sümpfen überfällt mich mein
Hunger und in tiefer Nacht.


Wunderliche Launen hat mein Hunger. Oft
kommt er mir erst nach der Mahlzeit, und heute kam er den ganzen Tag
nicht: wo weilte er doch?


Und damit schlug Zarathustra an das Thor
des Hauses. Ein alter Mann erschien; er trug das Licht und fragte: „Wer
kommt zu mir und zu meinem schlimmen Schlafe?“


„Ein Lebendiger und ein Todter, sagte
Zarathustra. Gebt mir zu essen und zu trinken, ich vergass es am Tage.
Der, welcher den Hungrigen speiset, erquickt seine eigene Seele: so
spricht die Weisheit.“


Der Alte gieng fort, kam aber gleich
zurück und bot Zarathustra Brod und Wein. „Eine böse Gegend ist’s für
Hungernde, sagte er; darum wohne ich hier. Thier und Mensch kommen zu
mir, dem Einsiedler. Aber heisse auch deinen Gefährten essen und
trinken, er ist müder als du.“ Zarathustra antwortete: „Todt ist mein
Gefährte, ich werde ihn schwerlich dazu überreden.“ „Das geht mich
Nichts an, sagte der Alte mürrisch; wer an meinem Hause anklopft, muss
auch nehmen, was ich ihm biete. Esst und gehabt euch wohl!“ —


Darauf gieng Zarathustra wieder zwei
Stunden und vertraute dem Wege und dem Lichte der Sterne: denn er war
ein gewohnter Nachtgänger und liebte es, allem Schlafenden in’s Gesicht
zu sehn. Als aber der Morgen graute, fand sich Zarathustra in einem
tiefen Walde, und kein Weg zeigte sich ihm mehr. Da legte er den Todten
in einen hohlen Baum sich zu Häupten — denn er wollte ihn vor den Wölfen
schützen — und sich selber auf den Boden und das Moos. Und alsbald
schlief er ein, müden Leibes, aber mit einer unbewegten Seele.


9.


Lange schlief Zarathustra, und nicht nur
die Morgenröthe gieng über sein Anlitz, sondern auch der Vormittag.
Endlich aber that sein Auge sich auf: verwundert sah Zarathustra in den
Wald und die Stille, verwundert sah er in sich hinein. Dann erhob er
sich schnell, wie ein Seefahrer, der mit Einem Male Land sieht, und
jauchzte: denn er sah eine neue Wahrheit. Und also redete er dann zu
seinem Herzen:


Ein Licht gieng mir auf: Gefährten brauche
ich und lebendige, — nicht todte Gefährten und Leichname, die ich mit
mir trage, wohin ich will.


Sondern lebendige Gefährten brauche ich, die mir folgen, weil sie sich selber folgen wollen — und dorthin, wo ich will.


Ein Licht gieng mir auf: nicht zum Volke
rede Zarathustra, sondern zu Gefährten! Nicht soll Zarathustra einer
Heerde Hirt und Hund werden!


Viele wegzulocken von der Heerde — dazu kam ich. Zürnen soll mir Volk und Heerde: Räuber will Zarathustra den Hirten heissen.


Hirten sage ich, aber sie nennen sich die
Guten und Gerechten. Hirten sage ich: aber sie nennen sich die Gläubigen
des rechten Glaubens.


Siehe die Guten und Gerechten! Wen hassen
sie am meisten? Den, der zerbricht ihre Tafeln der Werthe, den Brecher,
den Verbrecher: — das aber ist der Schaffende.


Siehe die Gläubigen aller Glauben! Wen
hassen sie am meisten? Den, der zerbricht ihre Tafeln der Werthe, den
Brecher, den Verbrecher: — das aber ist der Schaffende.


Gefährten sucht der Schaffende und nicht
Leichname, und auch nicht Heerden und Gläubige. Die Mitschaffenden sucht
der Schaffende, Die, welche neue Werthe auf neue Tafeln schreiben.


Gefährten sucht der Schaffende, und
Miterntende: denn Alles steht bei ihm reif zur Ernte. Aber ihm fehlen
die hundert Sicheln: so rauft er Ähren aus und ist ärgerlich.


Gefährten sucht der Schaffende, und
solche, die ihre Sicheln zu wetzen wissen. Vernichter wird man sie
heissen und Verächter des Guten und Bösen. Aber die Erntenden sind es
und die Feiernden.


Mitschaffende sucht Zarathustra,
Miterntende und Mitfeiernde sucht Zarathustra: was hat er mit Heerden
und Hirten und Leichnamen zu schaffen!


Und du, mein erster Gefährte, gehab dich wohl! Gut begrub ich dich in deinem hohlen Baume, gut barg ich dich vor den Wölfen.


Aber ich scheide von dir, die Zeit ist um. Zwischen Morgenröthe und Morgenröthe kam mir eine neue Wahrheit.


Nicht Hirt soll ich sein, nicht
Todtengräber. Nicht reden einmal will ich wieder mit dem Volke; zum
letzten Male sprach ich zu einem Todten.


Den Schaffenden, den Erntenden, den
Feiernden will ich mich zugesellen: den Regenbogen will ich ihnen zeigen
und alle die Treppen des Übermenschen.


Den Einsiedlern werde ich mein Lied singen
und den Zweisiedlern; und wer noch Ohren hat für Unerhörtes, dem will
ich sein Herz schwer machen mit meinem Glücke.


Zu meinem Ziele will ich, ich gehe meinen
Gang; über die Zögernden und Saumseligen werde ich hinwegspringen. Also
sei mein Gang ihr Untergang!


10.


Diess hatte Zarathustra zu seinem Herzen
gesprochen, als die Sonne im Mittag stand: da blickte er fragend in die
Höhe — denn er hörte über sich den scharfen Ruf eines Vogels. Und siehe!
Ein Adler zog in weiten Kreisen durch die Luft, und an ihm hieng eine
Schlange, nicht einer Beute gleich, sondern einer Freundin: denn sie
hielt sich um seinen Hals geringelt.


„Es sind meine Thiere!“ sagte Zarathustra und freute sich von Herzen.


Das stolzeste Thier unter der Sonne und das klügste Thier unter der Sonne — sie sind ausgezogen auf Kundschaft.


Erkunden wollen sie, ob Zarathustra noch lebe. Wahrlich, lebe ich noch?


Gefährlicher fand ich’s unter Menschen als unter Thieren, gefährliche Wege geht Zarathustra. Mögen mich meine Thiere führen!“


Als Zarathustra diess gesagt hatte, gedachte er der Worte des Heiligen im Walde, seufzte und sprach also zu seinem Herzen:


Möchte ich klüger sein! Möchte ich klug von Grund aus sein, gleich meiner Schlange!


Aber Unmögliches bitte ich da: so bitte ich denn meinen Stolz, dass er immer mit meiner Klugheit gehe!


Und wenn mich einst meine Klugheit
verlässt: — ach, sie liebt es, davonzufliegen! — möge mein Stolz dann
noch mit meiner Thorheit fliegen!



— Also begann Zarathustra’s Untergang.

aw2

PROLOGO DI ZARATHUSTRA


1.


Allorchè Zarathustra ebbe raggiunto il
trentesimo anno, abbandonò il paese nativo ed il nativo lago e andò
sulle montagne. Ivi godè del suo spirito e della sua solitudine e non se
ne stancò per dieci anni. Ma alla fine il suo cuore si cangiò – e un
mattino, levatosi con l’aurora si mise di fronte al sole e gli disse:


O grande astro! Che sarebbe della tua beatitudine, se tu non avessi coloro ai quali risplendi?


Da dieci anni vieni quassù nella mia
caverna; ti saresti tediato della tua luce e di questo cammino, se non
fosse per me, per l’aquila mia e pel mio serpente.


Ma noi ti attendevamo ogni mattina, prendevamo il tuo superfluo, benedicendoti in cambio.


Guarda, mi è venuta in disgusto la mia
sapienza; come l’ape che ha raccolto troppo miele, ho bisogno di mani
che si tendano a me.


Vorrei donare e distribuire fin che i savi
tra gli uomini fossero ridivenuti lieti della loro follia e i poveri
della loro ricchezza.


Perciò debbo discendere nel profondo: come
tu fai la sera quando scomparisci dietro il mare e dispensi la luce tua
anche al mondo degli inferi, tu astro fulgentissimo!

Al pari di te, io debbo tramontare, come dicono gli uomini, tra i quali voglio discendere.


Benedicimi dunque, occhio tranquillo, che puoi contemplare senza invidia anche una felicità troppo grande!


Benedici il calice che sta per traboccare, affinchè l’acqua ne esca dorata e porti da per tutto il riflesso della tua gioia!


Vedi! Questo calice vuol essere vuotato
un’altra volta e Zarathustra vuol ridivenire uomo. Così cominciò la
discesa di Zarathustra.


2.


Zarathustra discese solo, dalla montagna, e
non si incontrò con alcuno. Ma quando giunse nei boschi subito gli si
levò dinanzi un vecchio che aveva abbandonato la sua sacra capanna per
cercare radici nella selva. E così parlò il vecchio a Zarathustra:


«Non mi è straniero questo viaggiatore; molti anni or sono egli passò di qui. Si chiamava Zarathustra; ma ora è mutato.


Portavi allora la tua cenere al monte; – vuoi tu oggi portare il fuoco nelle valli? Non temi il castigo degli incendiarî?


Sì, io riconosco Zarathustra. L’occhio suo
è puro e sulle labbra non nasconde segno di disgusto. Non s’avanza egli
simile a un danzatore?


Zarathustra si è trasformato; è ridivenuto un bambino; Zarathustra è un ridesto; che vuoi tu ora fra i dormienti?


Tu vivevi nella solitudine come in mezzo
al mare, e il mare ti cullava. Ahimè, vuoi tu approdare? Ahimè, vuoi
novellamente trascinare da te stesso il tuo corpo?».


Zarathustra rispose: «Io amo gli uomini».


«Perchè – disse il santo – mi rifugiai nella selva e nel deserto? Non forse perchè amai troppo gli uomini?


Ora amo Dio e non amo gli uomini. L’uomo è per me una cosa troppa imperfetta. L’amore per gli uomini mi ucciderebbe».


Zarathustra rispose: «Non parlai d’amore! Io reco agli uomini un dono».


«Non dare loro nulla – disse il santo. –
Togli loro piuttosto qualche cosa o aiutali a portarla – codesto gioverà
loro più di tutto: purchè giovi anche a te! E se vuoi donar loro
qualcosa, non dare più di una elemosina e attendi che essi te la
chiedino!»


«No, rispose Zarathustra, io non dispenso elemosine. Non sono abbastanza povero per far ciò».


Il santo rise di Zarathustra e parlò così:
«Allora, vedi un po’ se essi accettano i tuoi tesori! Essi diffidano
dei solitari e non credono che noi veniamo per donare.


I nostri passi risuonano troppo solitari
traverso le loro strade. E come quando di notte, dai loro letti, odono
camminare un uomo, molto prima del levar del sole, si chiedono: dove va
codesto ladro?


Non andare tra gli uomini e rimani nella
selva! Va piuttosto tra gli animali! Perchè non vuoi tu essere come me –
un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?»


«E che cosa fa il santo nella selva?» domandò Zarathustra.


Rispose il santo: «Io compongo canzoni e le canto; e quando le compongo, rido, piango e mormoro: così lodo Iddio.


Col cantare, col piangere, col ridere e col mormorare, io lodo Iddio che è il mio nume. Ma che cosa ci porti tu in dono?».


Quando Zarathustra ebbe udito queste
parole, salutò il santo e disse: «Che cosa avrei io da darvi? Ma
lasciatemi partir presto, perchè non vi tolga nulla!». E così si
separarono, l’un dall’altro, il vecchio e l’uomo, ridendo come ridono
due fanciulli.


Ma quando Zarathustra fu solo, parlò così
al suo cuore: «Sarebbe dunque possibile! Questo vecchio santo non ha
ancora sentito dire, nella sua foresta, che Dio è morto!».


3.


Quando Zarathustra giunse alla vicina
città che è presso le foreste, trovò gran popolo raccolto sul mercato:
poichè era corsa voce che vi si sarebbe veduto un funambolo. E
Zarathustra così parlò al popolo:


«Io insegno a voi il Superuomo. L’uomo è cosa che deve essere superata. Che avete fatto voi per superarlo?


Tutti gli esseri crearono finora qualche
cosa oltre sè stessi: e voi volete essere il riflusso di questa grande
marea, e tornare piuttosto al bruto anzichè superare l’uomo?


Che cosa è la scimmia per l’uomo? Una
derisione o una dolorosa vergogna. E questo appunto dev’essere l’uomo
per il Superuomo: una derisione o una dolorosa vergogna.


Voi avete tracciata la via dal verme
all’uomo, ma molto c’è ancora in voi del verme. Una volta eravate
scimmie, e ancor adesso l’uomo è più scimmia di tutte le scimmie. Ma
anche il più saggio, fra di voi, non è che una cosa sconnessa, un essere
ibrido tra pianta e fantasma.


E nondimeno vi consiglio io forse di divenir piante o fantasmi?


Ecco, io vi insegno il superuomo!


Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: il superuomo sia il senso della terra!


Vi scongiuro, fratelli miei, restate
fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze
soprannaturali. Sono avvelenatori, lo sappiano o no.


Sono spregiatori della vita, moribondi, avvelenatori di sè medesimi; la terra ne è stanca: se ne vadano dunque!


L’oltraggio a Dio era una volta il maggior delitto: ma Dio è morto e morirono con lui anche questi bestemmiatori.


Oltraggiar la terra è quanto vi sia di più
terribile, e stimare le viscere dell’imperscrutabile più che il senso
della terra è una colpa spaventosa.


Una volta l’anima guardava con disprezzo
il corpo: e quel disprezzo era una volta il più alto ideale – lo voleva
magro, odioso, affamato. Pensava, in tal modo, di sfuggire a lui e alla
terra.


Oh, quest’anima era anch’essa magra, odiosa, affamata: e la crudeltà sua gioia suprema.


Ma voi pure, fratelli miei, ditemi: che
cosa vi rivela il vostro corpo intorno all’anima vostra? Essa non è
forse miseria e sozzura, e compassionevole contentezza di sè medesima?


In verità l’uomo è fangosa corrente.
Bisogna addirittura essere un mare per poter ricevere in sè un torbido
fiume senza divenire impuro.


Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo mare, e in esso può inabissarsi il vostro grande disprezzo.


Che di più sublime potete voi
sperimentare? Ecco l’ora del maggior disprezzo, l’ora nella quale vi
verrà a noia non solo la vostra felicità, ma anche la vostra ragione e
la vostra virtù.


L’ora in cui dite: «Che importa la mia
felicità? Essa è povertà e sozzura e miserabile contentezza. Ma la mia
felicità dovrebbe giustificare la vostra stessa vita!».


L’ora in cui dite: «Che importa della mia
ragione? Brama essa la scienza come il leone il nutrimento? Essa è
povertà e sozzura e una miserabile contentezza!».


L’ora in cui dite: «Che importa della mia
virtù? Non mi ha ancor reso furibondo. Come sono stanco del mio bene e
del mio male! Tutto ciò è miseria e sozzura e miserabile contentezza!».


L’ora in cui dite: «Che importa della mia giustizia? Non vedo che io sia fiamma e carbone. Ma il giusto è fiamma e carbone!».


L’ora in cui dite: «Che importa della mia
pietà? La pietà non è forse la croce su cui inchiodano colui che ama gli
uomini? Ma la mia pietà non è crocifissione».


Avete già parlato così? Avete già gridato così? Ah se vi avessi già udito gridare così!


Non il vostro peccato – la vostra moderazione grida contro il cielo, la vostra avarizia nello stesso peccato!


Dov’è il fulmine che vi lambisca con la lingua? Dov’è la follia con la quale potete esaltarvi?


Ecco, io v’insegno il superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!».


Allorchè Zarathustra ebbe parlato così,
uno del popolo gridò: «Abbiamo ora udito abbastanza del funambolo; fate
che adesso lo vediamo!». E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il
funambolo che credette la parola rivolta a lui, si accinse all’opera
sua.


4.


Ma Zarathustra guardava il popolo e si meravigliava. Poi disse:


«L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo – una fune sopra l’abisso.


Pericoloso l’andare alla parte opposta,
pericoloso il restare a mezza via, pericoloso il guardare indietro,
pericoloso il tremare e l’arrestarsi.


Ciò ch’è grande nell’uomo è l’essere un
ponte e non una meta: ciò che si può amare nell’uomo è l’essere una
transizione e una distruzione.


Amo quelli che sanno vivere soltanto per sparire, poichè son coloro appunto che vanno oltre.


Io amo i grandi spregiatori perchè sono i grandi adoratori, freccie del desiderio verso l’opposta riva.


Amo coloro che non cercano, oltre le
stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire; amo coloro che
si sacrificano alla terra, perchè la terra appartenga un giorno al
superuomo.


Amo colui che vive per conoscere, e che
vuol conoscere affinchè, un giorno, viva il superuomo. E in tal modo
egli vuol la propria distruzione.


Amo colui che lavora e inventa, per
edificare una casa al superuomo e preparare a lui la terra, gli animali e
le piante: giacchè vuole così la sua distruzione.


Amo colui che non ritiene per sè una sola
goccia del suo spirito, ma che vuol essere interamente lo spirito della
sua virtù: così egli varca, quale spirito, il ponte.


Amo colui che della sua virtù fa la
propria inclinazione e il proprio destino: così vuole per amore della
propria virtù vivere ancora o non più vivere.


Amo colui che della sua virtù fa la
propria inclinazione e il proprio destino: così vuole per amore della
propria virtù vivere ancora o non più vivere.


Amo colui che non vuole avere troppe
virtù. Una virtù vale più di due, perchè essa è un nodo più saldo al
quale s’aggrappa il destino.


Amo colui l’anima del quale si prodiga,
che non vuole ringraziamento e non restituisce: giacchè egli dona sempre
e non vuol conservare nulla di sè.


Amo colui che si vergogna se il dado cade
in suo favore e si domanda: sono io dunque un pazzo giocatore? poichè
egli vuole perire.


Amo colui che getta parole d’oro dinanzi
alle sue azioni e mantiene sempre di più di quanto ha promesso poichè
egli vuole la propria distruzione.


Amo colui che giustifica i venturi e redime i passati: poichè egli vuole perire in causa dei presenti.


Amo colui che castiga il suo Dio perchè lo ama: giacchè egli deve perire per la collera del suo Dio.


Amo colui la cui anima è profonda anche
nella ferita, e che può perire per un piccolo avvenimento: così egli
passa volentieri sul ponte.


Amo colui l’anima del quale è traboccante,
così ch’egli dimentica sè stesso e tutte le cose che sono in lui: così
tutte le cose cooperano alla sua distruzione.


Amo colui che è libero spirito e libero
cuore: così la sua testa non è che un viscere del suo cuore, ma il cuore
lo spinge alla rovina.


Amo tutti coloro che sono come gocce
pesanti, cadenti una per una dalla fosca nube sospesa su gli uomini:
esse annunziano che viene il fulmine, e periscono quali messaggeri.


Guardate, io sono un nunzio del fulmine e una pesante goccia della nube: ma questo fulmine si chiama superuomo».


5.


Quando Zarathustra ebbe pronunciate queste
parole, guardò di nuovo gli uomini e tacque. «Eccoli – disse al suo
cuore – essi ridono: essi non mi comprendono, io non sono bocca per
queste orecchie.


Bisogna dunque prima spezzar loro le
orecchie affinchè essi imparino a intender con gli occhi? Bisogna far
dello strepito come cembali e predicatori della penitenza? Oppure essi
non credono che a colui che balbetta?


Essi hanno qualcosa della quale vanno
superbi. Come chiamano però, ciò che li fa superbi? La chiamano cultura:
essa li distingue dai pastori di capre.


Perciò odono malvolentieri per loro la parola «disprezzo». Voglio dunque parlare al loro orgoglio.


Voglio dunque parlar loro di ciò che è più spregevole: cioè dell’ultimo uomo».


E così parlò Zarathustra al popolo:


«È tempo che l’uomo fissi a sè medesimo uno scopo. È tempo che l’uomo pianti il seme della sua più alta speranza.


Il suo terreno è ancora abbastanza ricco
per questo. Ma questo terreno diverrà un giorno povero e sterile e
nessun altro albero potrà crescervi.


Ahimè! Viene il tempo nel quale l’uomo non
getterà più al di sopra degli uomini il dardo del suo desiderio, e la
corda del suo arco più non saprà vibrare!


Vi dico: bisogna ancora portare in sè un caos, per poter generare una stella danzante. Vi dico: avete ancora del caos in voi.


Ahimè! Viene il tempo in cui l’uomo non
potrà più generare alcuna stella. Ahimè! giunge il tempo del più
spregevole tra gli uomini che non sa più disprezzare sè stesso.


Guardate! Io vi mostro l’ultimo uomo.


«Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è astro?» – così chiede l’ultimo uomo ammiccando.


La terra sarà divenuta allora piccina e su di lei saltellerà l’ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa.


La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti.


«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini e ammiccano.


Essi hanno abbandonate le regioni dove
duro era vivere: giacchè si ha bisogno di calore. Si ama ancora il
vicino e ci si stropiccia a lui: giacchè si ha bisogno di calore.


Ammalarsi e diffidare equivale per essi a peccato: avanziamo guardinghi. Folle chi incespica ancora nei sassi o negli uomini!


Un po’ di veleno di qui e di là: ciò produce sogni gradevoli. E molto veleno infine, per una gradevole morte.


Si lavora ancora poichè il lavoro è uno svago. Ma si ha cura che lo svago non ecciti troppo.


Non si diviene più poveri e ricchi:
entrambe queste cose sono troppo opprimenti. Chi vuole ancora regnare?
Chi ancora obbedire? Entrambe queste cose sono troppo opprimenti.


Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuol la stessa cosa, ognuno è simile: chi sente altrimenti, va volentieri al manicomio.


«Una volta tutto il mondo era pazzo» dicevano i più astuti ammiccando.


Si è prudenti e si sa tutto ciò che
accade: così non si hanno limiti nel deridere. Ci si bisticcia ancora,
ma subito ci si riconcilia – altrimenti ci si rovina lo stomaco.


Abbiamo i nostri svaghi per il giorno e i nostri svaghi per la notte: ma pregiamo la salute.


«Noi abbiamo inventato la felicità» dicono, ammiccando gli ultimi uomini».


E qui Zarathustra terminò il primo
discorso che si chiama anche «l’introduzione»: giacchè in quel punto
l’interruppe il clamore e la gioia della folla. «Dacci questo ultimo
uomo, o Zarathustra – essi gridavano – rendici simili a quest’ultimo
uomo». E tutto il popolo giubilava e faceva schioccare la lingua. Ma
Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore:


«Essi non mi comprendono: io non sono bocca per queste orecchie.


Troppo a lungo, certo, vissi nella montagna, troppo ascoltai i ruscelli e gli alberi: ora parlo a loro come a pastori di capre.


L’anima mia è serena e luminosa quale montagna al mattino. Ma essi pensano che io sia freddo e un buffone dalle burle atroci.


Ed ecco che mi guardano e ridono: e mentre ridono essi mi odiano ancora. Vi è del ghiaccio nel loro riso».


6.


Ma allora accadde qualcosa, che fece
ammutolire ogni bocca, irrigidire ogni sguardo. Nel frattempo il
saltimbanco aveva infatti cominciato il suo lavoro: era uscito da una
porticina e camminava su la corda tesa fra le due torri, così che
rimaneva sospeso sopra il mercato e la folla. Quando fu appunto a metà
del suo cammino, la piccola porta si aperse ancora una volta, e saltò
fuori un garzone screziato, somigliante a un pagliaccio, che seguì con
passi rapidi il primo. «Avanti, zoppo, gridò la sua terribile voce,
avanti poltrone, paltoniere, faccia smunta! Bada ch’io non ti carezzi
con le mie calcagna! Che fai tu qui fra le torri? Bisognerebbe appunto
chiuderti nella torre; tu sbarri la via a uno migliore di te». E ad ogni
parola gli si avvicinava sempre più: ma quando egli fu soltanto a un
passo da lui, allora avvenne questa cosa terribile che fece ammutolire
ogni bocca ed irrigidì ogni sguardo – egli gettò un grido indemoniato e
saltò oltre colui che gli impediva il cammino. Ma questi, allorchè vide
vincer così il proprio rivale, perdette la testa e la fune; gettò via la
pertica e più svelto di questa, come un turbine di braccia e di gambe,
precipitò nell’abisso. Il mercato e il popolo somigliavano al mare
quando si solleva la tempesta: tutti fuggivano l’un dall’altro e l’uno
sopra l’altro, e principalmente in quel punto ove doveva precipitare il
corpo.


Zarathustra però non si mosse, e proprio
accanto a lui cadde il corpo straziato, sfracellato, ma non morto
ancora. Dopo un poco quell’infranto rinvenne e vide Zarathustra
inginocchiato presso di lui. «Che fai tu qui?, disse infine; sapevo da
gran tempo che il diavolo m’avrebbe giocato di sgambetto. Ora mi
trascina all’inferno: vuoi tu impedirglielo?».


«Sul mio onore, o amico, rispose
Zarathustra, non esiste affatto quanto tu dici: non vi è nessun diavolo e
nessun inferno. L’anima tua morirà prima ancora del tuo corpo. Non
temere più nulla».


L’uomo guardò su, diffidente. «Se tu dici
la verità, diss’egli poi, allora io non perdo nulla perdendo la vita. Io
non sono molto più di una bestia alla quale insegnarono a ballare a
furia di busse e di scarso alimento».


«Non è punto così, disse Zarathustra; tu
hai fatto del pericolo il tuo mestiere; in ciò nulla vi è di spregevole.
Ora tu perisci pel tuo mestiere: voglio quindi seppellirti con le mie
mani».


Quando Zarathustra ebbe detto questo, il
moribondo non rispose più, ma scosse la mano, come se cercasse la mano
di Zarathustra per ringraziarlo.


7.


Giunse frattanto la sera ed il mercato si
avvolse di tenebre: allora il popolo si disperse, poi che anche la
curiosità e lo spavento si stancano. Ma Zarathustra sedette presso il
morto, sulla terra, e s’immerse nei pensieri: così dimenticava il tempo.
E giunse alla fine la notte, e soffiò un vento freddo sul solitario.
Allora Zarathustra si alzò e disse al suo cuore:


«Davvero una bella pesca ha fatto oggi Zarathustra! Non trovo alcun uomo, bensì un cadavere.


Inquietante è l’esistenza umana e, di più, sempre priva di senso: un buffone può divenirle fatale.


Io voglio insegnare agli uomini il senso della loro vita: chi è il superuomo, il lampo di quella oscura nube che è l’uomo.


Ma sono ancor lungi da essi e il senso mio
non parla ai loro sensi. Per gli uomini io sono ancora un punto
centrale tra pazzo e cadavere.


Buia è la notte, buie sono le vie di
Zarathustra. Vieni, rigido e freddo compagno. Ti conduco al luogo ove ti
seppellirò con le mie mani».


8.


Allorchè Zarathustra ebbe detto questo al
suo cuore, si caricò il cadavere sulle spalle e si pose in cammino. E
non aveva ancora fatto cento passi, quando un uomo gli si avvicinò e gli
sussurrò nell’orecchio – e vedi! Colui che parlava era il buffone della
torre.


«Vattene via da questa città, o
Zarathustra, diss’egli; qui troppi ti odiano. I buoni e i giusti ti
odiano e ti chiamano loro nemico e spregiatore; ti odiano i credenti
della vera fede e ti chiamano il pericolo della folla. Fu tua fortuna
che si ridesse di te: e veramente tu parlavi a guisa di un buffone. Fu
tua fortuna che tu ti accompagnassi al cane morto; abbassandoti così ti
sei salvato per oggi. Ma vattene via da questa città; altrimenti domani
io salterò sopra di te, un vivente sopra un cadavere». E quando ebbe
detto ciò, disparve, l’uomo; ma Zarathustra continuò il cammino
attraverso le vie tenebrose. Alle porte della città s’incontrò coi
becchini: essi alzarono le fiaccole per vederlo in viso, riconobbero
Zarathustra e si burlarono molto di lui. «Zarathustra porta con sè il
cane morto: bravo, Zarathustra divenne becchino! Giacchè le nostre mani
sono troppo pulite per questa vivanda. Vuol forse Zarathustra rubare la
preda al diavolo? Ebbene! Buon appetito pel desinare! Purchè il diavolo
non sia miglior ladro di Zarathustra! – Egli ruba entrambi, entrambi
divora!». Ed essi ridevano fra di loro e bisbigliavano.


Zarathustra non disse parola e proseguì la
sua via. Come ebbe camminato due ore lungo boschi e paludi, l’aver
troppo a lungo udito l’urlo dei lupi destò anche in lui la fame. Si
fermò quindi a una casa isolata, dove ardeva una luce.


«La fame mi assale come un brigante, disse Zarathustra. La fame mi assale tra i boschi e le paludi, nella notte profonda.


Meravigliosi capricci ha la mia fame.
Sovente essa non mi viene che dopo il pasto, ed oggi non mi è venuta in
tutto il giorno: dove s’è dunque indugiata?».


E Zarathustra picchiò alla porta della
casa. Apparve un vecchio che portava il lume e chiese: «Chi viene a me e
al mio cattivo sonno?»


«Un vivente ed un morto, disse
Zarathustra. Datemi da mangiare e da bere, me ne dimenticai durante il
giorno. Chi dà da mangiare agli affamati ristora la propria anima: così
parla la sapienza».


Il vecchio si allontanò, ma tornò tosto
indietro ed offerse a Zarathustra pane e vino. «È una cattiva contrada
per gli affamati, diss’egli; per questo abito qui. Bestie e uomini
vengono a me, solitario. Ma invita anche il tuo compagno a mangiare e a
bere, egli è più stanco di te». Zarathustra rispose: «Morto è il mio
compagno, e ve lo deciderei difficilmente». «Questo non mi riguarda,
disse il vecchio arcigno; chi bussa alla mia porta deve prendere anche
ciò che gli offro. Mangiate e state bene!».


Zarathustra camminò poi nuovamente per due
ore, affidandosi alla via ed al chiaror delle stelle: giacchè egli era
solito andar di notte, e amava guardare in faccia tutto ciò che dorme.
Ma quando cominciò a spuntare il giorno, Zarathustra si trovò in un
profondo bosco e non vide più alcun sentiero. Allora depose il morto
nella cavità di un albero, all’altezza della sua testa – poichè voleva
proteggerlo dai lupi – e si sdraiò per terra sul musco. E subito
s’addormentò, stanco il corpo, ma con l’anima imperturbata.


9.


A lungo dormì Zarathustra, e non l’aurora
soltanto, ma anche il mattino gli passò sul volto. Gli si apersero gli
occhi alla fine: meravigliato guardò Zarathustra nella foresta e nel
silenzio, meravigliato guardò entro di sè. Poi s’alzò svelto, come il
marinaio che vede improvvisamente la terra, e mandò un grido di giubilo
poichè egli vedeva una nuova verità.


E così parlò quindi al suo cuore:


«Una luce è sorta in me: ho bisogno di
compagni e di compagni viventi – non compagni morti e cadaveri, che
porto con me dove voglio.


Ho bisogno di compagni viventi, i quali mi seguano, perchè vogliono seguire sè stessi – e là dove io voglio.


Una luce è sorta in me: Zarathustra non
parli al popolo ma ai compagni! Zarathustra non deve essere il pastore e
il cane di una mandra!


A distogliere molti dalla mandra – a
questo io venni. Il popolo e la mandra devono irritarsi con me: il
pastore mi chiamerà ladro.


Io dico pastori, ma essi si dicono i buoni e i giusti. Io dico pastori: ma essi si dicono i credenti della vera fede.


Guarda i buoni e i giusti! Chi odiano essi
di più? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il
corruttore: – ma questi è colui che crea.


Compagni cerca colui che crea e non
cadaveri e neppur mandre e credenti. Creatori come lui cerca il
creatore, i quali scrivano nuovi valori su nuove tavole.


Compagni cerca il creatore, e mietitori
che mietano con lui: giacchè in lui tutto è maturo per la messe. Ma a
lui mancano le cento falci: sì che egli strappa irato le spiche.


Compagni cerca il creatore, e tali che
sappiano affilare le proprie falci. Saranno chiamati distruttori e
spregiatori del bene e del male. Ma essi sono i mietitori e i
festeggiatori.


Zarathustra cerca compagni che con lui
creino, mietano e facciano festa: che cos’ha egli di comune con le
mandre, i pastori e i cadaveri?


E tu, mio primo compagno, riposa in pace! Ti seppellii bene nella cavità dell’albero, e bene ti nascosi ai lupi.


Ma io mi separo da te. Il tempo passa. Fra aurora e aurora mi giunse una nuova verità.


Non pastore debbo essere, non becchino. Non voglio parlare nuovamente al popolo: per l’ultima volta parlai a un morto.


Voglio accompagnarmi a chi crea, a chi miete, a chi festeggia: voglio mostrar loro l’arcobaleno e tutte le scale del superuomo.


Canterò la mia canzone ai solitari e a
quelli che sono due nella solitudine; a chi ha ancora orecchie per
l’inaudito, a questi voglio opprimere il cuore con la mia felicità.


Io tendo alla mia mèta, seguo la mia
strada; salterò oltre gli esitanti e i lenti. Sia così mio il cammino la
loro distruzione!».


10.


Zarathustra aveva detto questo al suo
cuore, quando il sole era a mezzogiorno: allora egli guardò in alto
interrogando – poichè udiva sopra di sè l’acuto grido di un uccello. Ed
ecco! Un’aquila volava a larghi cerchi per l’aria, e da essa pendeva un
serpente, non come una preda ma come un amico: giacchè essa lo teneva
avvolto intorno al collo.


«Ecco i miei animali!» disse Zarathustra, e si rallegrò di cuore.


«Il più superbo animale sotto il sole, e l’animale più astuto – sono andati ad esplorare.


Essi vogliono accertarsi se Zarathustra viva ancora. In verità vivo io ancora?


Trovai maggiori pericoli fra gli uomini
che fra gli animali; per vie pericolose va Zarathustra. Possano guidarmi
i miei animali!».


Allorchè Zarathustra ebbe detto ciò, ricordò le parole del santo nel bosco, e sospirando disse al suo cuore:


«Potessi essere più accorto! Potessi essere accorto, nel profondo, come il mio serpente!


Ma io chiedo l’impossibile; pregherò il mio orgoglio di accompagnarsi sempre alla mia saggezza!


E se mi abbandonasse un giorno la mia
saggezza – ah, purtroppo essa ama volarsene via! – possa allora il mio
orgoglio volarsene insieme con la mia follia!».


Così cominciò la discesa di Zarathustra.

The Capital TPJ Level


The wealth of those societies in which the capitalist mode of production prevails, presents itself
as “an immense accumulation of commodities,” 1 its unit being a single commodity. Our
investigation must therefore begin with the analysis of a commodity.
A commodity is, in the first place, an object outside us, a thing that by its properties satisfies
human wants of some sort or another. The nature of such wants, whether, for instance, they spring
from the stomach or from fancy, makes no difference. 2 Neither are we here concerned to know
how the object satisfies these wants, whether directly as means of subsistence, or indirectly as
means of production.
Every useful thing, as iron, paper, &c., may be looked at from the two points of view of quality
and quantity. It is an assemblage of many properties, and may therefore be of use in various ways.
To discover the various uses of things is the work of history. 3 So also is the establishment of
socially-recognized standards of measure for the quantities of these useful objects. The diversity
of these measures has its origin partly in the diverse nature of the objects to be measured, partly
in convention.
The utility of a thing makes it a use value. 4 But this utility is not a thing of air. Being limited by
the physical properties of the commodity, it has no existence apart from that commodity. A
commodity, such as iron, corn, or a diamond, is therefore, so far as it is a material thing, a use
value, something useful. This property of a commodity is independent of the amount of labour
required to appropriate its useful qualities. When treating of use value, we always assume to be
dealing with definite quantities, such as dozens of watches, yards of linen, or tons of iron. The use
values of commodities furnish the material for a special study, that of the commercial knowledge
of commodities. 5 Use values become a reality only by use or consumption: they also constitute
the substance of all wealth, whatever may be the social form of that wealth. In the form of society
we are about to consider, they are, in addition, the material depositories of exchange value.
Exchange value, at first sight, presents itself as a quantitative relation, as the proportion in which
values in use of one sort are exchanged for those of another sort, 6 a relation constantly changing
with time and place. Hence exchange value appears to be something accidental and purely
relative, and consequently an intrinsic value, i.e. , an exchange value that is inseparably connected
with, inherent in commodities, seems a contradiction in terms. 7 Let us consider the matter a little
more closely.
A given commodity, e.g. , a quarter of wheat is exchanged for x blacking, y silk, or z gold, &c. –
in short, for other commodities in the most different proportions. Instead of one exchange value,
the wheat has, therefore, a great many. But since x blacking, y silk, or z gold &c., each represents
the exchange value of one quarter of wheat, x blacking, y silk, z gold, &c., must, as exchange
values, be replaceable by each other, or equal to each other. Therefore, first: the valid exchange
values of a given commodity express something equal; secondly, exchange value, generally, is
only the mode of expression, the phenomenal form, of something contained in it, yet
distinguishable from it.
28
Chapter 1
Let us take two commodities, e.g. , corn and iron. The proportions in which they are
exchangeable, whatever those proportions may be, can always be represented by an equation in
which a given quantity of corn is equated to some quantity of iron: e.g. , 1 quarter corn = x cwt.
iron. What does this equation tell us? It tells us that in two different things – in 1 quarter of corn
and x cwt. of iron, there exists in equal quantities something common to both. The two things
must therefore be equal to a third, which in itself is neither the one nor the other. Each of them, so
far as it is exchange value, must therefore be reducible to this third.
A simple geometrical illustration will make this clear. In order to calculate and compare the areas
of rectilinear figures, we decompose them into triangles. But the area of the triangle itself is
expressed by something totally different from its visible figure, namely, by half the product of the
base multiplied by the altitude. In the same way the exchange values of commodities must be
capable of being expressed in terms of something common to them all, of which thing they
represent a greater or less quantity.
This common “something” cannot be either a geometrical, a chemical, or any other natural
property of commodities. Such properties claim our attention only in so far as they affect the
utility of those commodities, make them use values. But the exchange of commodities is
evidently an act characterised by a total abstraction from use value. Then one use value is just as
good as another, provided only it be present in sufficient quantity. Or, as old Barbon says,
“one sort of wares are as good as another, if the values be equal. There is no
difference or distinction in things of equal value … An hundred pounds’ worth of
lead or iron, is of as great value as one hundred pounds’ worth of silver or gold.” 8
As use values, commodities are, above all, of different qualities, but as exchange values they are
merely different quantities, and consequently do not contain an atom of use value.
If then we leave out of consideration the use value of commodities, they have only one common
property left, that of being products of labour. But even the product of labour itself has undergone
a change in our hands. If we make abstraction from its use value, we make abstraction at the same
time from the material elements and shapes that make the product a use value; we see in it no
longer a table, a house, yarn, or any other useful thing. Its existence as a material thing is put out
of sight. Neither can it any longer be regarded as the product of the labour of the joiner, the
mason, the spinner, or of any other definite kind of productive labour. Along with the useful
qualities of the products themselves, we put out of sight both the useful character of the various
kinds of labour embodied in them, and the concrete forms of that labour; there is nothing left but
what is common to them all; all are reduced to one and the same sort of labour, human labour in
the abstract.
Let us now consider the residue of each of these products; it consists of the same unsubstantial
reality in each, a mere congelation of homogeneous human labour, of labour power expended
without regard to the mode of its expenditure. All that these things now tell us is, that human
labour power has been expended in their production, that human labour is embodied in them.
When looked at as crystals of this social substance, common to them all, they are – Values.
We have seen that when commodities are exchanged, their exchange value manifests itself as
something totally independent of their use value. But if we abstract from their use value, there
remains their Value as defined above. Therefore, the common substance that manifests itself in
the exchange value of commodities, whenever they are exchanged, is their value. The progress of
our investigation will show that exchange value is the only form in which the value of
commodities can manifest itself or be expressed. For the present, however, we have to consider
the nature of value independently of this, its form.
29
Chapter 1
A use value, or useful article, therefore, has value only because human labour in the abstract has
been embodied or materialised in it. How, then, is the magnitude of this value to be measured?
Plainly, by the quantity of the value-creating substance, the labour, contained in the article. The
quantity of labour, however, is measured by its duration, and labour time in its turn finds its
standard in weeks, days, and hours.
Some people might think that if the value of a commodity is determined by the quantity of labour
spent on it, the more idle and unskilful the labourer, the more valuable would his commodity be,
because more time would be required in its production. The labour, however, that forms the
substance of value, is homogeneous human labour, expenditure of one uniform labour power. The
total labour power of society, which is embodied in the sum total of the values of all commodities
produced by that society, counts here as one homogeneous mass of human labour power,
composed though it be of innumerable individual units. Each of these units is the same as any
other, so far as it has the character of the average labour power of society, and takes effect as
such; that is, so far as it requires for producing a commodity, no more time than is needed on an
average, no more than is socially necessary. The labour time socially necessary is that required to
produce an article under the normal conditions of production, and with the average degree of skill
and intensity prevalent at the time. The introduction of power-looms into England probably
reduced by one-half the labour required to weave a given quantity of yarn into cloth. The hand-
loom weavers, as a matter of fact, continued to require the same time as before; but for all that,
the product of one hour of their labour represented after the change only half an hour’s social
labour, and consequently fell to one-half its former value.
We see then that that which determines the magnitude of the value of any article is the amount of
labour socially necessary, or the labour time socially necessary for its production. 9 Each
individual commodity, in this connexion, is to be considered as an average sample of its class. 10
Commodities, therefore, in which equal quantities of labour are embodied, or which can be
produced in the same time, have the same value. The value of one commodity is to the value of
any other, as the labour time necessary for the production of the one is to that necessary for the
production of the other. “As values, all commodities are only definite masses of congealed labour
time.” 11
The value of a commodity would therefore remain constant, if the labour time required for its
production also remained constant. But the latter changes with every variation in the
productiveness of labour. This productiveness is determined by various circumstances, amongst
others, by the average amount of skill of the workmen, the state of science, and the degree of its
practical application, the social organisation of production, the extent and capabilities of the
means of production, and by physical conditions. For example, the same amount of labour in
favourable seasons is embodied in 8 bushels of corn, and in unfavourable, only in four. The same
labour extracts from rich mines more metal than from poor mines. Diamonds are of very rare
occurrence on the earth’s surface, and hence their discovery costs, on an average, a great deal of
labour time. Consequently much labour is represented in a small compass. Jacob doubts whether
gold has ever been paid for at its full value. This applies still more to diamonds. According to
Eschwege, the total produce of the Brazilian diamond mines for the eighty years, ending in 1823,
had not realised the price of one-and-a-half years’ average produce of the sugar and coffee
plantations of the same country, although the diamonds cost much more labour, and therefore
represented more value. With richer mines, the same quantity of labour would embody itself in
more diamonds, and their value would fall. If we could succeed at a small expenditure of labour,
in converting carbon into diamonds, their value might fall below that of bricks. In general, the
greater the productiveness of labour, the less is the labour time required for the production of an
30
Chapter 1
article, the less is the amount of labour crystallised in that article, and the less is its value; and
vice versâ, the less the productiveness of labour, the greater is the labour time required for the
production of an article, and the greater is its value. The value of a commodity, therefore, varies
directly as the quantity, and inversely as the productiveness, of the labour incorporated in it. *
A thing can be a use value, without having value. This is the case whenever its utility to man is
not due to labour. Such are air, virgin soil, natural meadows, &c. A thing can be useful, and the
product of human labour, without being a commodity. Whoever directly satisfies his wants with
the produce of his own labour, creates, indeed, use values, but not commodities. In order to
produce the latter, he must not only produce use values, but use values for others, social use
values. (And not only for others, without more. The mediaeval peasant produced quit-rent-corn
for his feudal lord and tithe-corn for his parson. But neither the quit-rent-corn nor the tithe-corn
became commodities by reason of the fact that they had been produced for others. To become a
commodity a product must be transferred to another, whom it will serve as a use value, by means
of an exchange.)12 Lastly nothing can have value, without being an object of utility. If the thing is
useless, so is the labour contained in it; the labour does not count as labour, and therefore creates
no value.
Section 2: The Two-fold Character of the Labour Embodied in
Commodities
At first sight a commodity presented itself to us as a complex of two things – use value and
exchange value. Later on, we saw also that labour, too, possesses the same two-fold nature; for,
so far as it finds expression in value, it does not possess the same characteristics that belong to it
as a creator of use values. I was the first to point out and to examine critically this two-fold nature
of the labour contained in commodities. As this point is the pivot on which a clear comprehension
of political economy turns, we must go more into detail.
Let us take two commodities such as a coat and 10 yards of linen, and let the former be double
the value of the latter, so that, if 10 yards of linen = W, the coat = 2W.
The coat is a use value that satisfies a particular want. Its existence is the result of a special sort of
productive activity, the nature of which is determined by its aim, mode of operation, subject,
means, and result. The labour, whose utility is thus represented by the value in use of its product,
or which manifests itself by making its product a use value, we call useful labour. In this
connection we consider only its useful effect.
As the coat and the linen are two qualitatively different use values, so also are the two forms of
labour that produce them, tailoring and weaving. Were these two objects not qualitatively
different, not produced respectively by labour of different quality, they could not stand to each
other in the relation of commodities. Coats are not exchanged for coats, one use value is not
exchanged for another of the same kind.
To all the different varieties of values in use there correspond as many different kinds of useful
labour, classified according to the order, genus, species, and variety to which they belong in the
social division of labour. This division of labour is a necessary condition for the production of
commodities, but it does not follow, conversely, that the production of commodities is a
*
The following passage occurred only in the first edition. “Now we know the substance of value. It is labour.
We know the measure of its magnitude. It is labour time. The form, which stamps value as exchange-value, remains to
be analysed. But before this we need to develop the characteristics we have already found somewhat more fully.”
Taken from the Penguin edition of “Capital,” translated by Ben Fowkes.
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Chapter 1
necessary condition for the division of labour. In the primitive Indian community there is social
division of labour, without production of commodities. Or, to take an example nearer home, in
every factory the labour is divided according to a system, but this division is not brought about by
the operatives mutually exchanging their individual products. Only such products can become
commodities with regard to each other, as result from different kinds of labour, each kind being
carried on independently and for the account of private individuals.
To resume, then: In the use value of each commodity there is contained useful labour, i.e. ,
productive activity of a definite kind and exercised with a definite aim. Use values cannot
confront each other as commodities, unless the useful labour embodied in them is qualitatively
different in each of them. In a community, the produce of which in general takes the form of
commodities, i.e. , in a community of commodity producers, this qualitative difference between
the useful forms of labour that are carried on independently by individual producers, each on their
own account, develops into a complex system, a social division of labour.
Anyhow, whether the coat be worn by the tailor or by his customer, in either case it operates as a
use value. Nor is the relation between the coat and the labour that produced it altered by the
circumstance that tailoring may have become a special trade, an independent branch of the social
division of labour. Wherever the want of clothing forced them to it, the human race made clothes
for thousands of years, without a single man becoming a tailor. But coats and linen, like every
other element of material wealth that is not the spontaneous produce of Nature, must invariably
owe their existence to a special productive activity, exercised with a definite aim, an activity that
appropriates particular nature-given materials to particular human wants. So far therefore as
labour is a creator of use value, is useful labour, it is a necessary condition, independent of all
forms of society, for the existence of the human race; it is an eternal nature-imposed necessity,
without which there can be no material exchanges between man and Nature, and therefore no life.
The use values, coat, linen, &c., i.e. , the bodies of commodities, are combinations of two
elements – matter and labour. If we take away the useful labour expended upon them, a material
substratum is always left, which is furnished by Nature without the help of man. The latter can
work only as Nature does, that is by changing the form of matter. 13 Nay more, in this work of
changing the form he is constantly helped by natural forces. We see, then, that labour is not the
only source of material wealth, of use values produced by labour. As William Petty puts it, labour
is its father and the earth its mother.
Let us now pass from the commodity considered as a use value to the value of commodities.
By our assumption, the coat is worth twice as much as the linen. But this is a mere quantitative
difference, which for the present does not concern us. We bear in mind, however, that if the value
of the coat is double that of 10 yds of linen, 20 yds of linen must have the same value as one coat.
So far as they are values, the coat and the linen are things of a like substance, objective
expressions of essentially identical labour. But tailoring and weaving are, qualitatively, different
kinds of labour. There are, however, states of society in which one and the same man does
tailoring and weaving alternately, in which case these two forms of labour are mere modifications
of the labour of the same individual, and not special and fixed functions of different persons, just
as the coat which our tailor makes one day, and the trousers which he makes another day, imply
only a variation in the labour of one and the same individual. Moreover, we see at a glance that,
in our capitalist society, a given portion of human labour is, in accordance with the varying
demand, at one time supplied in the form of tailoring, at another in the form of weaving. This
change may possibly not take place without friction, but take place it must.
Productive activity, if we leave out of sight its special form, viz., the useful character of the
labour, is nothing but the expenditure of human labour power. Tailoring and weaving, though
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Chapter 1
qualitatively different productive activities, are each a productive expenditure of human brains,
nerves, and muscles, and in this sense are human labour. They are but two different modes of
expending human labour power. Of course, this labour power, which remains the same under all
its modifications, must have attained a certain pitch of development before it can be expended in
a multiplicity of modes. But the value of a commodity represents human labour in the abstract,
the expenditure of human labour in general. And just as in society, a general or a banker plays a
great part, but mere man, on the other hand, a very shabby part, 14 so here with mere human
labour. It is the expenditure of simple labour power, i.e. , of the labour power which, on an
average, apart from any special development, exists in the organism of every ordinary individual.
Simple average labour, it is true, varies in character in different countries and at different times,
but in a particular society it is given. Skilled labour counts only as simple labour intensified, or
rather, as multiplied simple labour, a given quantity of skilled being considered equal to a greater
quantity of simple labour. Experience shows that this reduction is constantly being made. A
commodity may be the product of the most skilled labour, but its value, by equating it to the
product of simple unskilled labour, represents a definite quantity of the latter labour alone. 15 The
different proportions in which different sorts of labour are reduced to unskilled labour as their
standard, are established by a social process that goes on behind the backs of the producers, and,
consequently, appear to be fixed by custom. For simplicity’s sake we shall henceforth account
every kind of labour to be unskilled, simple labour; by this we do no more than save ourselves the
trouble of making the reduction.
Just as, therefore, in viewing the coat and linen as values, we abstract from their different use
values, so it is with the labour represented by those values: we disregard the difference between
its useful forms, weaving and tailoring. As the use values, coat and linen, are combinations of
special productive activities with cloth and yarn, while the values, coat and linen, are, on the other
hand, mere homogeneous congelations of undifferentiated labour, so the labour embodied in these
latter values does not count by virtue of its productive relation to cloth and yarn, but only as being
expenditure of human labour power. Tailoring and weaving are necessary factors in the creation
of the use values, coat and linen, precisely because these two kinds of labour are of different
qualities; but only in so far as abstraction is made from their special qualities, only in so far as
both possess the same quality of being human labour, do tailoring and weaving form the
substance of the values of the same articles.
Coats and linen, however, are not merely values, but values of definite magnitude, and according
to our assumption, the coat is worth twice as much as the ten yards of linen. Whence this
difference in their values? It is owing to the fact that the linen contains only half as much labour
as the coat, and consequently, that in the production of the latter, labour power must have been
expended during twice the time necessary for the production of the former.
While, therefore, with reference to use value, the labour contained in a commodity counts only
qualitatively, with reference to value it counts only quantitatively, and must first be reduced to
human labour pure and simple. In the former case, it is a question of How and What, in the latter
of How much? How long a time? Since the magnitude of the value of a commodity represents
only the quantity of labour embodied in it, it follows that all commodities, when taken in certain
proportions, must be equal in value.
If the productive power of all the different sorts of useful labour required for the production of a
coat remains unchanged, the sum of the values of the coats produced increases with their number.
If one coat represents x days’ labour, two coats represent 2x days’ labour, and so on. But assume
that the duration of the labour necessary for the production of a coat becomes doubled or halved.
In the first case one coat is worth as much as two coats were before; in the second case, two coats
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Chapter 1
are only worth as much as one was before, although in both cases one coat renders the same
service as before, and the useful labour embodied in it remains of the same quality. But the
quantity of labour spent on its production has altered.
An increase in the quantity of use values is an increase of material wealth. With two coats two
men can be clothed, with one coat only one man. Nevertheless, an increased quantity of material
wealth may correspond to a simultaneous fall in the magnitude of its value. This antagonistic
movement has its origin in the two-fold character of labour. Productive power has reference, of
course, only to labour of some useful concrete form, the efficacy of any special productive
activity during a given time being dependent on its productiveness. Useful labour becomes,
therefore, a more or less abundant source of products, in proportion to the rise or fall of its
productiveness. On the other hand, no change in this productiveness affects the labour
represented by value. Since productive power is an attribute of the concrete useful forms of
labour, of course it can no longer have any bearing on that labour, so soon as we make abstraction
from those concrete useful forms. However then productive power may vary, the same labour,
exercised during equal periods of time, always yields equal amounts of value. But it will yield,
during equal periods of time, different quantities of values in use; more, if the productive power
rise, fewer, if it fall. The same change in productive power, which increases the fruitfulness of
labour, and, in consequence, the quantity of use values produced by that labour, will diminish the
total value of this increased quantity of use values, provided such change shorten the total labour
time necessary for their production; and vice versâ.
On the one hand all labour is, speaking physiologically, an expenditure of human labour power,
and in its character of identical abstract human labour, it creates and forms the value of
commodities. On the other hand, all labour is the expenditure of human labour power in a special
form and with a definite aim, and in this, its character of concrete useful labour, it produces use
values. 16
Section 3: The Form of Value or Exchange-Value
Commodities come into the world in the shape of use values, articles, or goods, such as iron,
linen, corn, &c. This is their plain, homely, bodily form. They are, however, commodities, only
because they are something two-fold, both objects of utility, and, at the same time, depositories of
value. They manifest themselves therefore as commodities, or have the form of commodities,
only in so far as they have two forms, a physical or natural form, and a value form.
The reality of the value of commodities differs in this respect from Dame Quickly, that we don’t
know “where to have it.” The value of commodities is the very opposite of the coarse materiality
of their substance, not an atom of matter enters into its composition. Turn and examine a single
commodity, by itself, as we will, yet in so far as it remains an object of value, it seems impossible
to grasp it. If, however, we bear in mind that the value of commodities has a purely social reality,
and that they acquire this reality only in so far as they are expressions or embodiments of one
identical social substance, viz., human labour, it follows as a matter of course, that value can only
manifest itself in the social relation of commodity to commodity. In fact we started from
exchange value, or the exchange relation of commodities, in order to get at the value that lies
hidden behind it. We must now return to this form under which value first appeared to us.
Every one knows, if he knows nothing else, that commodities have a value form common to them
all, and presenting a marked contrast with the varied bodily forms of their use values. I mean their
money form. Here, however, a task is set us, the performance of which has never yet even been
attempted by bourgeois economy, the task of tracing the genesis of this money form, of
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Chapter 1
developing the expression of value implied in the value relation of commodities, from its
simplest, almost imperceptible outline, to the dazzling money-form. By doing this we shall, at the
same time, solve the riddle presented by money.
The simplest value-relation is evidently that of one commodity to some one other commodity of a
different kind. Hence the relation between the values of two commodities supplies us with the
simplest expression of the value of a single commodity.
A. Elementary or Accidental Form Of Value
x commodity A = y commodity B, or
x commodity A is worth y commodity B.
20 yards of linen = 1 coat, or
20 Yards of linen are worth 1 coat.
1. The two poles of the expression of value. Relative form and Equivalent
form
The whole mystery of the form of value lies hidden in this elementary form. Its analysis,
therefore, is our real difficulty.
Here two different kinds of commodities (in our example the linen and the coat), evidently play
two different parts. The linen expresses its value in the coat; the coat serves as the material in
which that value is expressed. The former plays an active, the latter a passive, part. The value of
the linen is represented as relative value, or appears in relative form. The coat officiates as
equivalent, or appears in equivalent form.
The relative form and the equivalent form are two intimately connected, mutually dependent and
inseparable elements of the expression of value; but, at the same time, are mutually exclusive,
antagonistic extremes – i.e. , poles of the same expression. They are allotted respectively to the
two different commodities brought into relation by that expression. It is not possible to express
the value of linen in linen. 20 yards of linen = 20 yards of linen is no expression of value. On the
contrary, such an equation merely says that 20 yards of linen are nothing else than 20 yards of
linen, a definite quantity of the use value linen. The value of the linen can therefore be expressed
only relatively – i.e. , in some other commodity. The relative form of the value of the linen
presupposes, therefore, the presence of some other commodity – here the coat – under the form of
an equivalent. On the other hand, the commodity that figures as the equivalent cannot at the same
time assume the relative form. That second commodity is not the one whose value is expressed.
Its function is merely to serve as the material in which the value of the first commodity is
expressed.
No doubt, the expression 20 yards of linen = 1 coat, or 20 yards of linen are worth 1 coat, implies
the opposite relation. 1 coat = 20 yards of linen, or 1 coat is worth 20 yards of linen. But, in that
case, I must reverse the equation, in order to express the value of the coat relatively; and so soon
as I do that the linen becomes the equivalent instead of the coat. A single commodity cannot,
therefore, simultaneously assume, in the same expression of value, both forms. The very polarity
of these forms makes them mutually exclusive.
Whether, then, a commodity assumes the relative form, or the opposite equivalent form, depends
entirely upon its accidental position in the expression of value – that is, upon whether it is the
commodity whose value is being expressed or the commodity in which value is being expressed.
2. The Relative Form of value
(a.) The nature and import of this form
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Chapter 1
In order to discover how the elementary expression of the value of a commodity lies hidden in the
value relation of two commodities, we must, in the first place, consider the latter entirely apart
from its quantitative aspect. The usual mode of procedure is generally the reverse, and in the
value relation nothing is seen but the proportion between definite quantities of two different sorts
of commodities that are considered equal to each other. It is apt to be forgotten that the
magnitudes of different things can be compared quantitatively, only when those magnitudes are
expressed in terms of the same unit. It is only as expressions of such a unit that they are of the
same denomination, and therefore commensurable. 17
Whether 20 yards of linen = 1 coat or = 20 coats or = x coats – that is, whether a given quantity of
linen is worth few or many coats, every such statement implies that the linen and coats, as
magnitudes of value, are expressions of the same unit, things of the same kind. Linen = coat is the
basis of the equation.
But the two commodities whose identity of quality is thus assumed, do not play the same part. It
is only the value of the linen that is expressed. And how? By its reference to the coat as its
equivalent, as something that can be exchanged for it. In this relation the coat is the mode of
existence of value, is value embodied, for only as such is it the same as the linen. On the other
hand, the linen’s own value comes to the front, receives independent expression, for it is only as
being value that it is comparable with the coat as a thing of equal value, or exchangeable with the
coat. To borrow an illustration from chemistry, butyric acid is a different substance from propyl
formate. Yet both are made up of the same chemical substances, carbon (C), hydrogen (H), and
oxygen (O), and that, too, in like proportions – namely, C4H8O2. If now we equate butyric acid to
propyl formate, then, in the first place, propyl formate would be, in this relation, merely a form of
existence of C4H8O2; and in the second place, we should be stating that butyric acid also consists
of C4H8O2. Therefore, by thus equating the two substances, expression would be given to their
chemical composition, while their different physical forms would be neglected.
If we say that, as values, commodities are mere congelations of human labour, we reduce them by
our analysis, it is true, to the abstraction, value; but we ascribe to this value no form apart from
their bodily form. It is otherwise in the value relation of one commodity to another. Here, the one
stands forth in its character of value by reason of its relation to the other.
By making the coat the equivalent of the linen, we equate the labour embodied in the former to
that in the latter. Now, it is true that the tailoring, which makes the coat, is concrete labour of a
different sort from the weaving which makes the linen. But the act of equating it to the weaving,
reduces the tailoring to that which is really equal in the two kinds of labour, to their common
character of human labour. In this roundabout way, then, the fact is expressed, that weaving also,
in so far as it weaves value, has nothing to distinguish it from tailoring, and, consequently, is
abstract human labour. It is the expression of equivalence between different sorts of commodities
that alone brings into relief the specific character of value-creating labour, and this it does by
actually reducing the different varieties of labour embodied in the different kinds of commodities
to their common quality of human labour in the abstract. 18
There is, however, something else required beyond the expression of the specific character of the
labour of which the value of the linen consists. Human labour power in motion, or human labour,
creates value, but is not itself value. It becomes value only in its congealed state, when embodied
in the form of some object. In order to express the value of the linen as a congelation of human
labour, that value must be expressed as having objective existence, as being a something
materially different from the linen itself, and yet a something common to the linen and all other
commodities. The problem is already solved.
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Chapter 1
When occupying the position of equivalent in the equation of value, the coat ranks qualitatively
as the equal of the linen, as something of the same kind, because it is value. In this position it is a
thing in which we see nothing but value, or whose palpable bodily form represents value. Yet the
coat itself, the body of the commodity, coat, is a mere use value. A coat as such no more tells us it
is value, than does the first piece of linen we take hold of. This shows that when placed in value-
relation to the linen, the coat signifies more than when out of that relation, just as many a man
strutting about in a gorgeous uniform counts for more than when in mufti.
In the production of the coat, human labour power, in the shape of tailoring, must have been
actually expended. Human labour is therefore accumulated in it. In this aspect the coat is a
depository of value, but though worn to a thread, it does not let this fact show through. And as
equivalent of the linen in the value equation, it exists under this aspect alone, counts therefore as
embodied value, as a body that is value. A, for instance, cannot be “your majesty” to B, unless at
the same time majesty in B’s eyes assumes the bodily form of A, and, what is more, with every
new father of the people, changes its features, hair, and many other things besides.
Hence, in the value equation, in which the coat is the equivalent of the linen, the coat officiates as
the form of value. The value of the commodity linen is expressed by the bodily form of the
commodity coat, the value of one by the use value of the other. As a use value, the linen is
something palpably different from the coat; as value, it is the same as the coat, and now has the
appearance of a coat. Thus the linen acquires a value form different from its physical form. The
fact that it is value, is made manifest by its equality with the coat, just as the sheep’s nature of a
Christian is shown in his resemblance to the Lamb of God.
We see, then, all that our analysis of the value of commodities has already told us, is told us by
the linen itself, so soon as it comes into communication with another commodity, the coat. Only it
betrays its thoughts in that language with which alone it is familiar, the language of commodities.
In order to tell us that its own value is created by labour in its abstract character of human labour,
it says that the coat, in so far as it is worth as much as the linen, and therefore is value, consists of
the same labour as the linen. In order to inform us that its sublime reality as value is not the same
as its buckram body, it says that value has the appearance of a coat, and consequently that so far
as the linen is value, it and the coat are as like as two peas. We may here remark, that the
language of commodities has, besides Hebrew, many other more or less correct dialects. The
German “Wertsein,” to be worth, for instance, expresses in a less striking manner than the
Romance verbs “valere,” “valer,” “valoir,” that the equating of commodity B to commodity A, is
commodity A’s own mode of expressing its value. Paris vaut bien une messe. [Paris is certainly
worth a mass]
By means, therefore, of the value-relation expressed in our equation, the bodily form of
commodity B becomes the value form of commodity A, or the body of commodity B acts as a
mirror to the value of commodity A. 19 By putting itself in relation with commodity B, as value in
propriâ personâ, as the matter of which human labour is made up, the commodity A converts the
value in use, B, into the substance in which to express its, A’s, own value. The value of A, thus
expressed in the use value of B, has taken the form of relative value.
(b.) Quantitative determination of Relative value
Every commodity, whose value it is intended to express, is a useful object of given quantity, as 15
bushels of corn, or 100 lbs of coffee. And a given quantity of any commodity contains a definite
quantity of human labour. The value form must therefore not only express value generally, but
also value in definite quantity. Therefore, in the value relation of commodity A to commodity B,
of the linen to the coat, not only is the latter, as value in general, made the equal in quality of the
Document Outline
Part 1: Commodities and Money Chapter 1: Commodities Section 1: The Two Factors of a Commodity: Use-Value and Value (The Substance of Value and the Magnitude of Value)
Section 2: The Two-fold Character of the Labour Embodied in Commodities
Section 3: The Form of Value or Exchange-Value A. Elementary or Accidental Form Of Value 1. The two poles of the expression of value. Relative form and Equivalent form
2. The Relative Form of value

Summa Theologica TPJ Level

Poiché è fin troppo chiaro che se la teologia è così teologalmente centrata, la spiritualità che ne
fluisce lo sarà altrettanto.
In secondo luogo, ma non accessoriamente, questa tesi centrale spiega anche alcune qualità della
stessa teologia. Così, il fatto che la teologia sia contemplativa è una conseguenza di questa prima
tesi su Dio soggetto della teologia. Tommaso ci ritorna quando si chiede se la teologia sia una
scienza «pratica». Formulata in questo modo, la questione potrebbe far sorridere, ma si tratta in
effetti di sapere se la teologia può estendersi fino a trattare delle regole dell‘agire umano. La non
ammette dubbi: se, come abbiamo detto, la teologia è effettivamente una partecipazione al sapere
che Dio ha di se stesso, allora sarà certamente una scienza pratica, poiché:
«è con il medesimo sapere che Dio conosce se stesso e realizza tutto ciò che fa (ma la teologia,
aggiunge Tommaso] è tuttavia più speculativa (= contemplativa) che pratica, perché si occupa più
delle realtà divine che degli atti umani. Essa non tratta degli atti umani se non nella misura in cui è
tramite essi che l‘uomo si orienta verso la perfetta conoscenza di Dio in cui consiste la
beatitudine»26.
Questa è una risposta che colloca Tommaso a parte nella serie dei teorici della scienza teologica:
fino a lui se ne parlava certo come di un sapere anche contemplativo, ma in primo luogo
essenzialmente ordinato alla realizzazione perfetta della carità. «Questo sapere è ordinato
all‘agire», diceva il suo contemporaneo Roberto Kilwardby. Tommaso, per primo, e già dal suo
commento alle Sentenze, lo vede al contrario orientato verso la contemplazione, poiché se è
polarizzato da Dio,
come abbiamo appena visto, questo orientamento prevale su tutti gli altri e non si tratta
evidentemente di una realtà che l‘azione umana potrebbe porre in essere. Dio non è una
costruzione dell‘uomo, che di lui non può disporre; egli, da noi, non può che essere conosciuto e
amato. E di questo che Tommaso vuoi tener conto quando afferma che la teologia deve essere
principalmente speculativa.
Questa risposta contiene un altro elemento capitale per il seguito che ci proponiamo. Essa
permette di constatare che Tommaso non conosce la distinzione a noi familiare tra teologia
morale e teologia dogmatica — come ignora anche la grande ripartizione del lavoro teologico in
teologia positiva e teologia speculativa. E la medesima e unica sacra doctrina che ingloba tutto
questo, come essa ricopre ugualmente, l‘abbiamo veduto, i concetti più tardivi di «spiritualità» o
«teologia spirituale». Se senza esitazione bisogna riconoscere i benefici procurati dalla crescente
specializzazione dei differenti campi del sapere teologico, è anche permesso auspicare che coloro
che io praticano abbiano una coscienza sempre più profonda della sua unità fontale. Per Tommaso
la cosa andava da sé ed è proprio questo ciò che riscopriremo presto nella sua grande sintesi del
sapere teologico.
COME UN‘IMPRONTA DELLA SCIENZA DIVINA
Al seguito di san Tommaso, è necessario ancora spiegare un‘altra tesi, in apparenza molto tecnica,
ma di una portata spirituale incontestabile: in teologia la fede gioca il ruolo che l‘habitus dei primi
principi ha nella nostra conoscenza naturale. Per capire questo bisogna evidentemente sapere che
cos‘è un habitus e che cosa sono i «principi» della teologia. Nella lingua di san Tommaso, habitus
(dal greco hexis) è una nozione capitale, che non è affatto traducibile con la parola «abitudine», la
quale suggerisce piuttosto il contrario. Mentre l‘abitudine è un meccanismo fisso, una «routine»,
l‘habitus costituisce al contrario una capacità inventiva, perfettiva della facoltà in cui esso si radica
26 I, q. 1, a. 4.
e a cui conferisce una perfetta libertà nell‘esercizio. L‘abilità di un artigiano e un habitus, come
l‘arte di un dottore o il sapere di uno scienziato. A metà strada tra la natura e il suo agire,
l‘habitus costituisce il segno e l‘espressione della piena realizzazione di essa. Dono divino del
tutto gratuito, la fede risiede in noi sotto forma di habitus, quindi di uno speciale perfezionamento
che sopraeleva la nostra naturale capacità di conoscere all‘altezza di un oggetto nuovo, Dio stesso
e il mondo delle cose divine. Forma precisa che la grazia assume nella nostra intelligenza, la fede
è anch‘essa una partecipazione alla vita di Dio e realizza tra lui e noi una specie di connaturalità
che ci rende capaci dì cogliere spontaneamente ciò che risale a Dio. Quello che chiamiamo il
sensus fidei è precisamente questa capacità di comprendere — per così dire — …naturalmente» le
cose soprannaturali, come un amico capisce l‘amico — senza discorsi27.
È questo che ci spiega la formula di san Tommaso secondo cui la fede è in qualche modo l‘habitus
che permette di cogliere i principi della teologia28; e i principi sono le verità prime a partire dalle
quali essa sviluppa la sua elaborazione scientifica. Con il senso dell‘essenziale che lo caratterizza,
egli identifica questi principi della teologia con gli articoli stesso del Credo e, con il gioco di
relazioni tra principi e conclusioni in cui risiede il procedimento scientifico, li riconduce, in ultima
analisi, a due verità assolutamente prime: Dio esiste e ci ama. Non è questa una ricostruzione
arbitraria; Tommaso la trova espressa nel versetto della lettera agli Ebrei (11, 6): «Colui che si
accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano». Questi
due primi credibilia contengono in sintesi tutto l‘insieme della fede: «Nell‘essere di Dio è incluso
tutto ciò che crediamo esistere eternamente in lui: è la nostra beatitudine; nella fede nella sua
provvidenza è incluso tutto ciò che egli ha compiuto nel tempo per la nostra salvezza:
è la via alla beatitudine»29.
Si riconosce qui senza esitazione l‘antica distinzione dei Padri greci tra la theologia, la parte della
teologia che si interessa direttamente della vita intima di Dio, la Trinità delle persone, e
l‘oikonomia, ciò che Dio ha compiuto nel tempo per salvarci, la storia della salvezza. Tommaso ne
offre, nel testo che segue, una formulazione un po‘ più tecnica (il fine e i mezzi), ma molto vicina
alla lettera del Nuovo Testamento: «Appartengono di per sé alla fede quelle cose della cui visione
godremo nella vita eterna e per mezzo delle quali ivi siamo condotti. Due cose saranno allora
offerte alla nostra contemplazione: il segreto divino, la cui visione ci rende beati e il mistero
dell‘umanità di Cristo, per mezzo del quale abbiamo accesso alla gloria dei figli di Dio (Em 5, 2).
Come dice infatti san Giovanni (17, 3): ―Questa è la vita eterna, che conoscano te, l‘unico vero Dio,
e colui che hai mandato, Gesù Cristo‖»30 .
Il legame qui stabilito tra la nozione di articolo di fede e la beatitudine finale è sicuramente
sorprendente, e Tommaso lo sottolinea volentieri: «Ciò che di per sé appartiene all‘oggetto della
fede è ciò per cui l‘uomo è reso beato»31. ― La nozione di principio richiama irresistibilmente quella
di fine ed è qui che si rivela compiutamente l‘interesse ermeneutico della nozione di articolo di
fede-principio della teologia. Alla luce dei testi richiamati e di numerosi altri, appare chiaramente
27 Cf. III, q. 1, a. 6 ad 3, riguardo ai due modi di giudicare le cose divine.
28 Super Boetium De Trin,, q. 5, a. 4 ad 8: «.. .fides, quae est quasi habitus principiorum theologi»; cf. ibid, q. 3, a. 1 ad 4, dove è sviluppato più ampiamente il parallelo tra l‟intuizione dei principi alla luce della ragione e l‟apprensione per
fede delle verità soprannaturali; all‟obiezione che la teologia non sarebbe una scienza perché priva della certezza più
elementare, Tommaso replica che l’habitus che costituisce la luce di fede è più certo non soltanto di qualsivoglia
dimostrazione, ma addirittura più dello stesso habitus dei primi principi, il cui funzionamento può essere impedito da
infermità del corpo.
29 II-II,q. l,a.7.
30 II-II, q. 1, a. 8; per il ruolo che il versetto 17, 3 di Giovanni svolge nella costruzione della Summa, vedi I, q. 2 Prol. e III, q. 1 Prol.
31 II-II, q. 2, a. 5: «fidei obiectum per se est id per quod bomo beatus efficitur» .
che l‘intelligibilità interna del contenuto della rivelazione è legata alla sua valenza salvifica. Certo,
tutte le verità rivelate hanno valore di salvezza, ma il legame e in fondo la gerarchia che possiamo
stabffire tra di esse si ricavano dal loro rapporto con Dio, colto come primo autore e fine
sovranamente beatificante della sua creatura. E dunque la loro identificazione pura e semplice a
questo fine o la loro prossimità ad esso più o meno grande che giocano qui un ruolo
assolutamente decisivo32.
Così può essere completato ciò che resta da dire a proposito del discorso della scienza. L‘entrare
in relazione di una verità-principio con una verità-conclusione non avviene in modo isolato. La
mira del procedimento scientifico è molto più ambiziosa; è l‘insieme delle verità rivelate che
occorre mettere reciprocamente in relazione in modo tale da ricostruire l‘intelligibilità interna del
dato rivelato33. Infine, è intorno ai primi due credibilia che deve organizzarsi il lavoro di
spiegazione teologica se esso vuole avere qualche opportunità di cogliere la coerenza interna del
piano salvifico di Dio. La volontà salvifica di Dio non ha certo altra causa all‘infuori del suo amore
totalmente libero e disinteressato e non si tratta qui di imporle le strutture intelligibili della nostra
intelligenza. Ma, nella convinzione che Dio ha fatto tutto «con misura, calcolo e peso» (Sap 11, 20)
e che dirige tutte le cose «con ogni sapienza e intelligenza», il teologo si applica a scoprire il
rapporto organico che esiste tra le varie opere di Dio: «Dio vuole che una cosa esista in vista di
un‘altra, ma non per questo la vuole» 34. E la scoperta di queste reciproche relazioni e la loro
riconsiderazione in una sintesi il più possibile completa, dove queste saranno situate secondo la
loro importanza relativa, che condurrà ad una migliore intelligenza dell‘opera e del suo autore,
Dio stesso, unico soggetto della sacra doctrina.
E questo ideale che Tommaso esprime con una formula presa dalla tradizione avicenniana e che fa
pienamente sua: la scienza non è nient‘altro che una «riproduzione nell‘anima della realtà
conosciuta», poiché la scienza è detta essere l‘assimilazione del conoscente al conosciuto35.
Oppure, secondo un‘altra formula anch‘essa molto eloquente, la struttura del reale è riprodotta
nell‘intelligenza secondo una organizzazione ragionata (ordinata aggregatio) dei concetti delle
cose esistenti 36. Il docente che insegna avendo già elaborato per sé questa ricostruzione, è in
grado, per questo, di imprimere nell‘intelligenza dell‘ascoltatore una visione sintetica della realtà
che gli vuole comunicare. Così deve essere spiegata la celebre formula di Tommaso a volte
fraintesa: in quanto tale la sacra doctrina è «come un‘impronta della scienza divina»37.Lungi dal
reclamare per la teologia un privilegio esorbitante (dato che ogni scienza umana è in qualche
modo partecipazione della scienza divina), questa formula non è altro che l‘espressione esatta
della situazione di dipendenza della scienza del teologo rispetto a quella di Dio. Il privilegio non
32 Senza dilungarci possiamo segnalare che questo modo di vedere le cose aiuta a capire la raccomandazione del
Vaticano TI sulla necessità di tener conto della «gerarchia delle verità della dottrina cattolica nella pratica
dell‟ecumenismo», cf. Unitatis redintegratio, n. 11; si può vedere a tal proposito Y. CONGAR, On the hierarchia
veritatum, «Orientalia christiana analecta» 195 (1973), pp. 409-420; W. HENN, The Hierarchy of Truths according to
Yves Congar O.P., «Anal. Greg. 246», Roma 1987.
33 I redattori del cap. III della Dei Filius al Vaticano I si sono certamente ricordati di queste vedute quando hanno così
definito il compito della teologia speculativa: «Quando la ragione illuminata dalla fede ricerca con cura, pietà e
moderazione, essa giunge, mediante il dono di Dio, a una certa intelligenza molto fruttuosa dei misteri, sia grazie
all‟analogia con le cose che conosce naturalmente, sia grazie ai legami che collegano i misteri tra di loro e con il fine
ultimo dell‟uomo».
34 I, q. 19, a. 3: «Vult ergo [Deus] hoc esse propter hoc, sed non propter hoc vult hoc».
35 De ueritate, q. 11, a. 1 arg. 11: «Scientia nihil aliud est quam descriptio rerum in anima, cum scientia esse dicatur
assimilatio scientis ad scitum».
36 SCG I 56 (n. 470): «Habitus [scientiae]… est ordinata aggregatio ipsarum specierum existentium in intellectu non
secundum completum actum, sed medio modo inter potentiam et actum».
37 I q. 1, a. 3 ad 2: «Velut quaedam impressio divinae scientiae».
riguarda la teologia, ma la fede, poiché essa permette di ricevere la rivelazione che Dio offre di se
stesso38. Mettendo così in continuità il nostro sapere con quello che Dio ha di se stesso, la fede
rende possibile la nascita e lo sviluppo del sapere teologico.
UNA SCIENZA «PIA»
Il legame della teologia con la fede, emerso ad ogni stadio della nostra ricerca, ci permette di
valorizzare due delle qualità indispensabili della teologia. Innanzitutto, e proprio a motivo del suo
essere animata dalla fede, la teologia è una scienza «pia» e richiede una fede «viva», cioè
penetrata («informata», come dice san Tommaso) dalla carità, per corrispondere pienamente alla
sua definizione. Se può accadere che la teologia sia praticata con una fede morta o del tutto
insufficiente, ciò non toglie che questa sia una situazione anormale. Lo studio teologico richiede la
medesima fede esigita dalla vita cristiana o dalla preghiera; e anche se si tratta di attività
differenti, è un‘unica fede quella che si esprime. «Preghiera contemplativa o speculazione
teologica costituiranno varietà specificamente differenti nel loro gioco psicologico; ma nella
struttura teologale esse possiedono medesimo oggetto, medesimo principio, medesimo fine»39 E
per questo che nel suo Prologo alle Sentenze, Tommaso diceva che, in colui che la pratica, la
teologia assume una modalità orante (modus orantis)40. Per lui non c‘è alcun dubbio: la preghiera
rientra nell‘esercizio della teologia.
D‘altra parte, e sempre in dipendenza della fede che è la sua anima e il suo motore, la teologia
possiede una incontestabile dimensione escatologica. Ed è qui che assieme alla fede e alla carità
troviamo la speranza, terza virtù teologale. La teologia, secondo Tommaso, realizza una certa
anticipazione di quella conoscenza che avrà il suo compimento nella visione beatifica. Egli lo dice
con tutta chiarezza: «il fine ultimo di questa doctrina è la contemplazione della verità prima, in
patria» 41. È questo che si intende quando si parla della teologia come di un sapere «speculativo»;
nel linguaggio di san Tommaso questa parola, oggi così svalutata, non significa niente altro che
«contemplativo»42, e quindi che chi pratica la teologia deve essere come essa completamente
rivolto verso l‘oggetto del suo sapere, che è anche il fine ultimo della sua vita di cristiano.
E chiaro che questa qualità non appartiene alla teologia se non per il fatto che appartiene prima
alla fede che la anima, poiché è la fede che procura questo «assaggio» (praelibatio quaedam) dei
beni divini di cui godremo nella visione beatifica 43, ma Tommaso la applica precisamente alla
scienza delle cose divine: «Per mezzo di essa noi possiamo godere di una qualche partecipazione
e assimilazione alla conoscenza divina anche mentre ci troviamo ancora in cammino, nella misura
in cui tramite la fede infusa aderiamo alla verità prima per se stessa»44.
Se la teologia è proprio questa realtà che abbiamo appena descritto — e almeno nel caso di
38 D‟altronde è a proposito della fede che Tommaso impiega un‟espressione molto simile, Super Boetium De Trin., q. 3,
a. 1 ad 4: «Lumen… fidei… est quasi quedam sigillatio primae ueritatis in mente , sigillatio è anche usato come equivalente di impressio nel campo del sapere naturale, cf. De ver., q. 2, a. 1 arg. 6 e ad 6 con rinvio ad Algazel.
39 M.-D. CHENU, La foi dans l’intellgence, Paris 1964, p. 134.
40 Sent. I, Prol., a. 5 sol.
41 Sent. I, Prol., a. 3 sol. i et ad i: «Sed quia scientia omnis principaliter pensanda est ex fine, finis autem huius doctrinae est contemplatio primae veritatis in patria, ideo principaliter speculativa est»; si troveranno più dettagli in J. –
P. TORRELL, Théologie et sainteté, RT 71(1971) 205-221, cf. 205-212.
42 Cf. S. PINCKAERS, Recherche de la signification véritable dii terme «spéculatif», NRT 81(1959) 673-695.
43 Compenduum theol. I 2; si vedrà la definizione più esplicita della Summa (II-II q. 4, a. 1): «la fede è un habitus
dell‟anima che dà inizio in noi alla vita eterna facendo aderire il nostro intelletto alle realtà che non vediamo»; è anche
la dottrina più volte ripetuta in De ver., q. 14, a. 2.
44 Super Boetium De Trin., q. 2, a. 2
Tommaso non c‘è dubbio che sia così —‗ si capisce che egli non abbia avuto alcuna necessità di
elaborare una spiritualità accanto alla sua teologia. È la sua teologia stessa che è uno teologia
spirituale, e si dovrebbe poter sempre riconoscere un teologo tomista dal tono spirituale, che avrà
saputo dare anche alle elaborazioni più tecniche. Se questa articolazione a volte necessita di
essere messa in evidenza, magari per quei lettori meno preparati a scoprirla, essa è tuttavia,
almeno in germe, sempre presente. Però la parola «spiritualità» ha preso ai nostri giorni alcune
connotazioni più precise ed è importante esserne coscienti per evitare di utilizzarla a vanvera…
I
L‘Al di là di tutto
( I qq. 1ss)
(Il problema ―dell‘esistenza‖ di Dio in S. Tommaso)
Il primato che san Tommaso riconosce a Dio nell‘organizzazione del sapere teologico appare già
dal primo colpo d‘occhio al piano della di teologia. Che si tratti della stessa essenza divina o della
distinzione delle persone, oppure del modo in cui si può comprendere la creazione, è sempre Dio
Trinità che è preso in considerazione, in sè o nella sua opera. Al teologo cristiano non è possibile,
senza mutilare il mistero, trattare di Dio nella sua unità o della sua creazione, e fare astrazione
dalla sua vita tripersonale. Il cristiano non conosce altro Dio se non quello della rivelazione e
questa luce illumina tutto il suo sforzo d‘intelligenza della fede.
Il modo in cui Tommaso abborda il suo soggetto è un po‘ sconcertante per un lettore non
informato; e risulta nondimeno illuminante per la sua intenzione: «Occorre innanzitutto chiedersi
se Dio esista; poi come egli sia o meglio come non sia; infine bisognerà interrogarsi sulla sua
operazione: la sua scienza, la sua volontà, la sua potenza»45. É quindi necessario stabilire
innanzitutto l‘esistenza di Dio. Cosa già affermata con parole molto forti nella Somma contro i
Gentili: «Alla considerazione di Dio in sè stesso, si deve premettere, come fondamento necessario
di tutta l‘opera, la dimostrazione della sua esistenza. In mancanza di questa, infatti, ogni ricerca
intorno alle cose di Dio non si reggerebbe»46.
Non bisogna tuttavia sbagliarsi sul perché di questo modo di procedere. Non si tratta di simulare
l‘inesistenza di Dio, di fare «come se» Dio non esistesse. Tommaso non ha alcun dubbio a tal
proposito, nemmeno metodologico. Nella sua fede, egli accoglie questa verità come la prima che
confessa nel Credo. E incessantemente si riferisce alla Scrittura rivelata. E molto significativo, per
esempio, che l‘articolo in cui sviluppa le cinque vie che devono stabilire l‘esistenza di Dio, prenda
il suo punto di partenza nella teofania del roveto ardente: «Io sono Colui che sono»47 . Si farebbe
un gran torto all‘ispirazione della sua ricerca considerandone soltanto l‘armatura filosofica. Suo
scopo è accertarsi con la ragione di ciò che crede per fede ed elaborare in quanto teologo il
contenuto della rivelazione fatta a Mosè. Al contrario di ciò che penseremmo spontaneamente, il
suo procedimento è meno diretto contro l‘ateismo che contro chi pretende che l‘esistenza di Dio
45 I, q. 2, Prol.
46 SCGI 9.
47 I, q. 2, a. 3 sc; non è meno significativo il fatto che alla fine di questa prima sezione dedicata allo studio di Dio,
Tommaso riprenda l‟esame dello stesso nome per chiedersi se «Colui che è» è il nome proprio di Dio; cf. di seguito.
sarebbe evidente e che non sarebbe necessario stabilirla. A costoro Tommaso replica: in sé essa è
evidente, ma non per noi48. Ne è prova il fatto che gli increduli sono numerosi. Ma se occorre che
il teologo almeno mostri che non è irragionevole credere, è ancora più importante, forse, ch‘egli
stesso prenda coscienza di ciò che implica il primo articolo della professione di fede.
Senza rifare qui il procedimento, che continua a mettere alla prova la sagacia degli interpreti49, è
utile ricavarne la struttura e il senso. Tommaso non parte dalla soggettività religiosa, ma piuttosto
dall‘osservazione del mondo esteriore, ed è per questo che la prova basata sul movimento occupa
il primo piano. Non il puro movimento fisico, che non è che un punto di partenza, ma il
movimento metafisico inferito, riscontrabile in ogni passaggio dalla potenza all‘atto. Col rischio di
risalire all‘infinito, da tale passaggio dalla potenza all‘atto osservabile in tutto il mondo creato, si
deve arrivare ad ammettere l‘esistenza di un primo «motore» che non ha alcun bisogno d‘essere
mosso da qualche altro, dato che esso è totalmente in atto. Ed è questo che tutti intendono dire
parlando di Dio. Le altre quattro vie esplorano i diversi aspetti sotto i quali si realizza l‘universale
causalità di Dio nella creazione: l‘efficienza, il possibile e i necessario, i gradi nell‘essere e il
governo del mondo; la struttura delle vie resta però fondamentalmente la stessa e si è condotti in
ognunt all‘esistenza di un Primo, che è l‘unica causa esplicativa del mondo, poiché ne è
contemporaneamente il primo Principio e il Fine ultimo.
Il significato religioso e spirituale di questo metodo è anch‘esso molto chiaro. L‘impresa di
Tommaso per stabilire l‘esistenza di Dio non è pretesa razionalista, ma confessione di umiltà:
l‘uomo non dispone di Dio50. I fiumi d‘inchiostro versati a proposito delle prime questioni della
Somma non possono riuscire a sommergere ciò che una lettura «semplice» permette facilmente di
constatare: non solo Tommaso si sente obbligato a stabilire che Dio è, ma in più si riconosce
incapace di giungere a possedere di lui una conoscenza completa; senza sosta egli ripete lo stesso
ritornello: di Dio noi non possiamo sapere «ciò che egli è» (quid est), ma soltanto «ciò ch‘egli non
è» (quid non est). Se non rinuncia all‘impresa, dovrà tuttavia confessare che Dio è conosciuto
come sconosciuto51. E se osa dirne qualcosa lo dirà «come balbettando»52.
CONOSCENZA E NON CONOSCENZA DI DIO
Nel momento in cui fra Tommaso ne tratta, la questione ha già una lunga storia, il cui periodo più
recente non è il meno movimentato. Nel 1241, ossia poco più di dieci anni prima che l‘Aquinate
cominciasse a insegnare, Guglielmo d‘Auvergne, allora vescovo di Parigi, su consiglio dei teologi
dell‘Università aveva dovuto condannare una tendenza diffusa, che si era affermata fin dall‘inizio
48 I, q. 2, a. 1.
49 Le cinque vie impiegate da Tommaso per stabilire l‟esistenza di Dio hanno costituito l‟oggetto di una abbondante
letteratura; rinviamo semplicemente a due classici in lingua francese: E. GILSON, Le Thomisme, Paris 19866, pp. 67-
97; J. MARITAIN, Approches de Dieu, in Oeuvres complètes, t. 10, Fribourg-Paris 1985. Trattandosi qui di filosofi,
sarà lecito rinviare a un teologo presso il quale si troveranno gli indispensabili complementi: G. LAFONT, Structures et
méthode dans la Somme théologique de saint Thomas d’Aquin, Paris 1961, cap. 1: «La lumière de Dieu», pp. 35-100.
50 J Maritain l‟aveva molto bene espresso in passato: «Dimostrare l‟esistenza di Dio non significa sottomettere Dio alla
nostra presa, né definirlo, né impadronirsene, né maneggiare nient‟altro che idee malferme in confronto a tanto oggetto,
né giudicare altro che la nostra radicale dipendenza. Il procedimento con cui la ragione dimostra che Dio è, mette la
stessa ragione in un atteggiamento di adorazione naturale e di ammirazione intelligente», Les degrés du savoir, in
Oeuvres complètes, t. 4, Fribourg-Paris 1983, p. 669 [ed. it. p. 267].
51 Super Boetium De Trinitate, q. 1, a. 2 ad 1; si sarà qui riconosciuto il titolo dell‟opera di J. -H. NICOLAS, Dieu
conna comme inconnu, Paris 1966
52 Sent. I, d. 22, q. 1, a. 1: «Come noi conosciamo Dio imperfettamente, così anche lo chiamiamo imperfettamente,
quasi balbettando (quasi balbutiendo), dice san Gregorio. Egli solo in effetti si comprende perfettamente ed è per
questo che è anche il solo a potersi chiamare perfettamente, se mi è permesso parlare in questo modo, generando il
Verbo che gli è consostanziale».
del secolo, secondo la quale era impossibile, sia per gli angeli che per gli uomini, conoscere Dio
nella sua essenza53. Il vescovo, al contrario, ricordava fermamente che «Dio è veduto nella sua
essenza o sostanza dagli angeli e da tutti i santi, e sarà veduto dalle anime glorificate»54 .
Di fatto, il pensiero cristiano aveva ereditato dalla Bibbia due affermazioni apparentemente
contraddittorie. San Paolo aveva affermato con forza che Dio «abita una luce inaccessibile [e] che
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo». San Giovanni da parte sua non era stato
meno categorico: «Dio, nessuno l‘ha mai visto»55. E tuttavia è lui che ci assicura: «Noi saremo
simili a lui, perché lo vedremo così come egli è»56. Seguendo la loro propria originalità e i diversi
contesti in cui si sono sviluppate, le due tradizioni cristiane, d‘Oriente e d‘Occidente, hanno messo
l‘accento su l‘una o l‘altra di queste due affermazioni.
Sotto la spinta di sant‘Agostino, in connessione con quella di Gregorio Magno, l‘Occidente
considera naturale sperare la visione di Dio in patria come il prolungamento di una vita in grazia.
Dio è senza dubbio invisibile per sua natura ai nostri occhi carnali, ma poiché Gesù ha
solennemente dichiarato: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8), bisogna credere
che ciò sia possibile. Se Dio è detto invisibile, è per significare che non è un corpo, non per
interdire ai cuori puri la visione della sua sostanza57. Per Agostino, l‘intera speranza cristiana è
polarizzata dalla visione di Dio che si avrà nella patria celeste; e noi abbiamo visto come sulla sua
scia Tommaso concepisca lo sforzo teologico nella luce pervasa d‘amore di una fede che
progredisce verso l‘intelligenza. In questa linea agostiniana i teologi concedono senza difficoltà ai
santi, perfino sulla terra, una certa conoscenza dell‘essenza divina, del quid est di Dio58.
Viceversa, alle prese con diversi errori di origine più o meno gnostica, in modo particolare con il
razionalismo di Eunomio che sottomette Dio alla ragione umana, i Padri greci tendono piuttosto a
sottolineare l‘invisibilità di Dio e la sua ineffabilità, facendo attenzione a non metterla in pericolo
quando commentano la visione faccia a faccia di cui parla il Nuovo Testamento. Questa tradizione
greca penetra in Occidente tramite due vie privilegiate: lo Pseudo-Dionigi da una parte, san
Giovanni Damasceno dall‘altra59. Senza entrare nei dettagli, è sufficiente sapere che Giovanni
Scoto Eriugena fu all‘origine di una spiegazione che tentava di conservare simultaneamente
l‘eredità di sant‘Agostino e quella di Dionigi: Dio sarà visto nella visione beatifica non nella sua
essenza, ma tramite le sue manifestazioni, in teofanie. Questa soluzione non poteva non
provocare delle proteste. Quella di Ugo di San Vittore, già alla fine del XII secolo, è la più lucida e
la più ferma: se Dio non è visto che in immagine, allora non si tratta più di beatitudine60.Tuttavia
53 Tommaso fa più volte allusione a questa condanna; cf. per esempio De veritate q. 8, a. 1; Summa theologiae I, q. 12,
a. 1; In Ioannem I, 18, lect. 11, n. 212.
54 Chartularium Universitatis Parisiensis I, n. 128, p. 170: «Deus in sua essentia vel substantia videbitur ab angelis et
omnibus sanctis et videtur ab animabus glorificatis»; il documento è del 13 gennaio 1241.
55 1 Tm 6, 16; Gv 1, 18.
56 1 Gv 3, 2; cf. anche Gv 17, 3: «Questa è la vita eterna: che conoscano te…».
57 AGOSTINO , Lettera 147, 37 e 48 (a Paolino sulla visione di Dio): PL 33, 613 e 618.
58Si può vedere a proposito H. -F. DONDAINE, Cognoscere de Deo quid est, RTAM 22 (1955) 72-78, che cita alcuni
testi di san Bonaventura, tra cui il seguente che individua nella conoscenza del quid est di Dio come «un genere
diversamente realizzato presso tutti gli uomini»: «Il quid est di Dio può essere conosciuto pienamente e perfettamente in
modo esaustivo; in questo modo Dio solo può conoscersi. Esso può anche essere conosciuto in maniera chiara e netta
dai beati; o ancora può essere conosciuto in maniera parziale e oscura in quanto Dio è il sovrano e primo Principio di
tutto il creato; in questa maniera, per quanto dipende da lui, è conoscibile da tutti», De mysterio Trinitatis, q. 1, a. 1 ad
13 (Opera omnia, t. 5 , p. 51 b; tr. it. V/1, p. 249).
59 Questo movimento di penetrazione in Occidente della «luce venuta da Oriente» è stato molto ben descritto da M.-D.
CHENU‟, La théologie au douzième siècle, «Etudes de philosophie médiévale 45», Paris 1957 , pp. 274-322: cap. 12:
«L‟entrée de la théologie grecque», e 13: «Orientale lumen».
60 «Se non si vede sempre che la sola immagine, allora non si vede mai la verità. Poiché l‟immagine non è la verità,
anche se vi si riferisce. Che essi ci liberino dunque da queste fantasie tramite le quali si sforzano di offuscare la luce
altri teologi – soprattutto tra i domenicani di Saint-Jacques61 – saranno più sensibili alla profonda
religiosità che scaturisce dalla tradizione greca, ed è così che la tesi dell‘inconoscibilità di Dio
doveva finire per smuovere i garanti dell‘ortodossia teologica occidentale fino a provocare, nel
1241, la reazione, in verità un po‘ pesante, del vescovo di Parigi62.
Preparata da quella del suo maestro sant‘Alberto, la soluzione di san Tommaso consisterà nel
distinguere accuratamente ciò che appartiene alla conoscenza terrena di Dio e ciò che non può che
appartenere alla conoscenza che avremo in patria. Così, nel 1257, quando nella preparazione del
De veritate incontra le autorità maggiori della tradizione greca, Dionigi e Giovanni Damasceno,
secondo i quali non si può conoscere il quid est di Dio, egli risponde tranquillamente:
«Le parole di Dionigi e del Damasceno vanno intese della visione mediante la quale l‘intelletto del
viatore vede Dio mediante qualche forma [intelligibile]. Dato che questa forma non può che essere
inadeguata alla rappresentazione dell‘essenza divina, non si può vedere tramite essa l‘essenza
divina; si sa soltanto che Dio è al di sopra di ciò che di lui viene rappresentato all‘intelletto e
quindi ―ciò che egli è‖ resta occulto: e questo è il più nobile modo di conoscenza al quale
possiamo giungere in questa vita. E così di lui non conosciamo ―ciò che è‖ ma ―ciò che non è‖.
[Tuttavia sarà differente nella patria poiché, secondo la soluzione di sant‘Alberto che Tommaso
prende e perfeziona, noi non avremo allora nessun bisogno di una forma creata per vedere Dio, è
lui che si unirà direttamente all‘intelligenza del vedente per essere la sua beatitudine]. L‘essenza
divina, in effetti, rappresenta se stessa sufficientemente, per cui quando Dio sarà egli stesso la
forma dell‘intelletto non si vedrà di lui soltanto ―ciò che non è», ma anche «ciò che è‖»63. Come è
stato bene scritto, «questa trascrizione in categorie aristoteliche del sicuti est (così come è) e del
videre per speciem (vedere tramite una forma) della Scrittura diverrà classica presso i discepoli di
san Tommaso; ma nel 1257 essa comportava per il giovane maestro una decisione rilevante, la cui
importanza non appare se non dal confronto con i suoi massimi contemporanei»64. Meno
aristotelico, Bonaventura non vedeva inconvenienti nell‘affermare che una certa visione del «quid
est» sarebbe possibile su questa terra; Alberto, da parte sua, pensava di poter concedere una certa
conoscenza confusa dell‘essenza o dell‘essere di Dio «così come esso è» (ut est) senza che ciò
costituisse allo stesso tempo una conoscenza del suo «quid est»65. Cosa a cui Tommaso
delle nostre intelligenze e che non interpongano più tra Dio e noi gli idoli delle loro invenzioni. Per noi, niente ci può
saziare se non Lui e non possiamo fermarci che a Lui» (PL 175, 955A); Tommaso tratta il problema in I, q. 12, a. 2:
«Dire che Dio è veduto mediante qualche immagine, equivale a dire che l‟essenza di Dio non è veduta affatto» (dicere
Deum per similitudinem uideri, est dicere diuinam essentiam non uideri). Si vedrà a tal proposito il nostro studio La
vision de Dieu per essentiam selon saint Thomas d’Aquin, «Micrologus» (1997).
61 Sembra sia il caso, tra altri, di Ugo di San Caro, uno dei primi maestri domenicani di Parigi (1230-1235), cf. H.-F.
DONDAINE, Hugues de Saint-Cher et la condamnation de 1241, RSPT 33 (1949) 170-174, e del suo confratello
Guerrico di San Quintino (1233-1242), predecessore immediato di Alberto, cf. H.-F. DONDAINE – B.-G. GUYOT,
Guerric de Saint-Quentin et la condamnation de 1241, RSPT 44 (1960) 225-242; C. TROTTMANN, Psychosomatique
de la vision béatifique selon Guerric de Saint-Quentin, RSPT 78 (1994) 203 -226.
62 Questa storia è stata descritta in modo magistrale da H. -F. DONDAINE, L’objet et le «medium» de la vision
béatifique chez les théologiens du XIIIe siècle, RTAIvI 19 (1952) 60-130. Si può vedere anche S. TUGWELL, Albert &
Thomas Selected Writings, New York-Mahwah 1988, pp. 39-95, e il riassunto dello stesso autore: La crisi della teologia
negativa nel sec. XIII, «Studi» n.s. 1 (1994) 241-242.
63 De veritate, q. 8, a. 1 ad 8.
64 H.F. DONDAINE, Cognoscere de Deo quid est, p. 72.
65 Cf. H.-F. Dondaine, ibid., pp. 72-75; ecco uno dei passaggi di Alberto al quale poteva pensare Tommaso: «Bisogna
distinguere tra vedere Dio “così come è” (ut est) e vedere il quid est di Dio, così come si distingue tra vedere una cosa
“così com‟essa è” (ui‟ est) e vedere il quid est di questa cosa. Vedere una cosa “così com‟essa è”, significa vedere
l‟essere o l‟essenza di questa cosa, vederne il quid est di questa cosa significa vederne la sua propria definizione
includente tutti i suoi dati (Rem enim videre, ut est, est enim videre esse rei sive essentiam rei; videre autem, quid est
facilmente replicava nel testo del De veritate appena citato: conoscere l‘essenza di una cosa
significa conoscere il suo «quid est». Il dilemma consisteva dunque nell‘accogliere in pieno
l‘orientamento della tradizione latina ribadito dalla condanna del 1241 e ammettere una certa
conoscenza dell‘essenza divina, senza cadere nell‘ingenua illusione di una conoscenza esaustiva;
e nel contempo si trattava di ricevere l‘eredità della tradizione greca portatrice di una così
profonda attitudine religiosa di rispetto del mistero e della sua trascendenza, senza rinunciare alla
speranza nutrita dalla Scrittura di una visione davvero faccia a faccia. Da una parte è il rischio di
una pretesa blasfematoria di sottomettere il segreto di Dio alle prese dell‘uomo; dall‘altra, quello
di cedere allo gnosticismo di fronte a una impersonale trascendenza irraggiungibile e di eliminare
dall‘esistenza cristiana lo stimolo dell‘Incontro finale, in cui la speranza troverà il compimento del
suo desiderio infinito.
LA VIA NEGATIVA
Per giungere a una conoscenza di Dio che tenga conto simultaneamente delle esigenze di queste
due ispirazioni divergenti, Tommaso impiega un metodo che certamente richiede tutte le risorse
della ragione, ma che consiste piuttosto nel negare che nell‘affermare, nello scartare
successivamente «tutto ciò che non è Dio» più che pretendere di precisare ciò che egli è. Si tratta
dunque dell‘impiego della «via di separazione» (via remotionis) ereditata dallo Pseudo-Dionigi e di
cui si trova un bell‘esempio in ciò che costituisce, per così dire, la prefazione della Somma contro i
Gentili. In questa prima grande opera della maturità, Tommaso non era ancora dominato dalla
preoccupazione di brevità, forse eccessiva, che caratterizza la Somma di teologia; vi si trovano
perciò spesso delle spiegazioni più ampie che aiutano il lettore a comprendere più facilmente.
Nelle due opere, una volta data per acquisita l‘esistenza di Dio («esiste un primo essere al quale
diamo il nome di Dio»), rimane da interrogarsi su ciò che egli è in se stesso:
«Nel considerare la realtà divina si deve ricorrere soprattutto alla via della negazione. La sostanza
divina infatti sorpassa con la sua immensità tutte le forme che la nostra intelligenza può
raggiungere, e quindi non siamo in grado di app renderla in modo tale da conoscere «ciò che essa
è‖ (quid est). Ne avremo pertanto una certa conoscenza sapendo «ciò che essa non è‖ (quid non
est). E tanto più ci avvicineremo a tale conoscenza, quanto più numerose saranno le cose che col
nostro intelletto potremo escludere da Dio Il paragone è un po‘ grossolano, ma si può provvisoriamente azzardare l‘immagine: Tommaso
utilizza un‘idea tanto semplice quanto quella che si trova alla base di alcuni giochi di società in cui
si tratta di indovinare quale è la persona o la cosa alla quale pensa il partner. La cosa più semplice
è procedere per eliminazioni successive: si tratta di una cosa o di un essere vivente? Di un animale
o di una persona? Di un uomo o di una donna?… Di eliminazione in eliminazione si arriva a poter
azzardare un nome. Le cose sono tuttavia meno semplici quando si tratta di Dio:
«Infatti noi conosciamo tanto più perfettamente una realtà quanto più ne scorgiamo le differenze
che la distinguono dalle altre: poiché ogni cosa possiede un essere proprio che la distingue da
tutte le altre. Cosicché noi cominciamo col situare nel genere le cose di cui conosciamo le
definizioni, e questo ce ne dà una certa conoscenza comune; si aggiungono in seguito le
differenze che distinguono le cose le une dalle altre: così si raggiunge una conoscenza completa
res, est videre propriam diffinitionem includentem omnes terminos rei; De resurrectione, tract. 4, q. 1, a. 9, ed. Col., t.
26, 1958, p. 328 b).
66 SCGI 14.
della cosa».
Per chi non fosse familiarizzato con questo modo di ragionare, sarà sufficiente un esempio per
capirlo. In questa prospettiva, le cose si definiscono innanzitutto tramite i loro aspetti più generali
(il genere) ai quali si aggiungono delle note caratteristiche (la differenza specifica). Così, quando si
tratta dell‘essere umano definito come «animale razionale», «animale» lo situa nel genere degli
esseri animati, distinguendolo dai vegetali o dai minerali, mentre «razionale» indica la differenza
specifica che caratterizza l‘uomo fra tutti gli animali. Con questo non si vuol dire di sapere tutto
dell‘uomo né soprattutto di ogni uomo. Questa conoscenza dell‘universale «uomo» non è che una
conoscenza astratta che prende in considerazione proprio gli aspetti più generali, ma che lascia
sfuggire la conoscenza del singolare (quella di Pietro o di Paolo, che appartiene a tutt‘altro tipo di
approccio). Ora, nemmeno questa conoscenza, per quanto povera sia, è possibile quando si tratta
di Dio: «Ma nello studio della sostanza divina, poiché non possiamo cogliere «ciò che è‖ (quid) e
prenderlo come genere, e dato che non possiamo nemmeno desumere la sua distinzione con le
altre cose tramite le differenze positive, siamo obbligati a desumerla dalle differenze negative».
Noi possediamo una differenza positiva quando «razionale» si aggiunge ad «animale» per definire
l‘uomo; ma poiché questo non può valere per Dio, in tal caso bisognerà dire piuttosto: non cosa,
non animale, non razionale… Ne seguirà dunque una procedura analoga:
«Come nel campo delle differenze positive una differenza ne implica un‘altra e aiuta ad avvicinarsi
maggiormente alla definizione della cosa sottolineando ciò che la distingue da molte altre, così
una differenza negativa ne implica un‘altra ed evidenzia la distinzione da molte altre. Se
affermiamo per esempio che Dio non è un accidente, lo distinguiamo in tal modo da tutti gli
accidenti. Se poi aggiungiamo che non è un corpo, lo distinguiamo ancora da un certo numero di
sostanze; e così, progressivamente, grazie a codeste negazioni, arriviamo a distinguerlo da tutto
ciò che non è lui. Si avrà allora una considerazione appropriata della sostanza divina quando Dio
sarà conosciuto come distinto da tutto. Ma non sarà una conoscenza perfetta, poiché si ignorerà
―ciò che è in sè stesso» (quid in se sit)».Malgrado la sua lunghezza e la sua difficoltà, occorreva citare questo testo che risulta molto
chiaro sia in se stesso sia riguardo all‘intenzione di san Tommaso. Egli è animato dalla profonda
convinzione che non è piccola cosa sapere di Dio ciò che non è. Ciascuna di queste differenze
negative determina con una precisione crescente la differenza precedente e coglie sempre meglio
il contorno esterno del suo oggetto: «E così, procedendo per ordine e distinguendo Dio da tutto
ciò che non è, tramite negazioni di questo genere, arriveremo ad una conoscenza non positiva ma
vera della sua sostanza, poiché lo conosceremo come distinto da tutto il resto»67 23 L‘immagine
del nostro gioco di società rivela qui la sua insufficienza; l‘apparente parallelo non funziona fino in
fondo. Supponendo che io sia riuscito a identificare la persona o la cosa che bisognava
riconoscere, mi trovo ormai in un campo conosciuto e non vi è più mistero per me. Non così
accade per quanto riguarda Dio. Io posso affermano in verità con un giudizio positivo, ma non
posso farmene un‘idea, un concetto che esprimerebbe il suo proprio mistero. «Non è una
definizione che ce lo fa conoscere, ma la sua distanza da tutto ciò che non è. Ciò che è, non è
conosciuto ma affermato, cioè stabilito con un giudizio»68. La teologia negativa non è in alcun
modo una teologia negatrice.
Oltre alla sua pertinenza intellettuale, questo testo è anche molto illuminante circa ciò che amerei
chiamare l‘implicito metodo spirituale del Maestro d‘Aquino. Non sarà mai abbastanza l‘attenzione
67 É. GILSON, Le Thomisme, Paris 19866, p. 114.
68 T.-D. HUMBRECHT, La théologie négative chez saint Thomas d’Aquin, RT 93 (1993) 535-366; 94 (1994) 71-99, cf.
qui p. 81; questo studio, il più recente sul soggetto, è anche tra i più perspicaci.
prestata al rigore di questa dialettica negativa; essa costituisce in se stessa un‘ascesi con esigenze
poco comuni. Se si sforza di praticarla nello stato d‘animo che abbiamo tentato di suggerire nelle
prime pagine di questo libro, il teologo non può non considerare le tappe del suo cammino che
come altrettanti gradi ascendenti nella via che conduce verso Dio. Se, come ogni credente, deve
abbandonare gli idoli per rivolgersi verso il Dio vivente (cf. At 14, 14), egli deve anche rinunciare
alle costruzioni del suo spirito, idoli personali che non sono i meno tenaci. A suo modo, è a questo
che invita Tommaso quando distingue la contemplazione dei filosofi e la contemplazione cristiana.

Bibbia it TPJ Level

 Nel principio Iddio creò i cieli e la terra.
22 E Dio li benedisse, dicendo: ‘Crescete, moltiplicate,
2 E la terra era informe e vuota, e le tenebre
ed empite le acque dei mari, e moltiplichino gli uccelli
1 coprivano la faccia dell’abisso, e lo spirito di Dio sulla terra’.
aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse:
23 Così fu sera, poi fu mattina: e fu il quinto giorno.
3 ‘Sia la luce!’ E la luce fu.
24 Poi Dio disse: ‘Produca la terra animali viventi
4 E Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce
secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali
dalle tenebre.
salvatici della terra, secondo la loro specie’. E così fu.
5 E Dio chiamò la luce ‘giorno’, e le tenebre ‘notte’.
25 E Dio fece gli animali salvatici della terra, secondo
Così fu sera, poi fu mattina: e fu il primo giorno.
le loro specie, il bestiame secondo le sue specie, e tutti i
6 Poi Dio disse: ‘Ci sia una distesa tra le acque, che
rettili della terra, secondo le loro specie. E Dio vide che
separi le acque dalle acque’.
questo era buono.
7 E Dio fece la distesa e separò le acque ch’erano sotto
26 Poi Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine
la distesa, dalle acque ch’erano sopra la distesa. E così
e a nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del
fu.
mare e sugli uccelli del cielo e sul bestiame e su tutta la
8 E Dio chiamò la distesa ‘cielo’. Così fu sera, poi fu
terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’.
mattina: e fu il secondo giorno.
27 E Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a
9 Poi Dio disse: ‘Le acque che son sotto il cielo siano
immagine di Dio; li creò maschio e femmina.
raccolte in un unico luogo, e apparisca l’asciutto’. E
28 E Dio li benedisse; e Dio disse loro: ‘Crescete e
così fu.
moltiplicate e riempite la terra, e rendetevela soggetta, e
10 E Dio chiamò l’asciutto ‘terra’, e chiamò la raccolta
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e
delle acque ‘mari’. E Dio vide che questo era buono.
sopra ogni animale che si muove sulla terra’.
11 Poi Dio disse: ‘Produca la terra della verdura,
29 E Dio disse: ‘Ecco, io vi do ogni erba che fa seme
dell’erbe che faccian seme e degli alberi fruttiferi che,
sulla superficie di tutta la terra, ed ogni albero fruttifero
secondo la loro specie, portino del frutto avente in sé la
che fa seme; questo vi servirà di nutrimento.
propria semenza, sulla terra’. E così fu.
30 E ad ogni animale della terra e ad ogni uccello dei
12 E la terra produsse della verdura, dell’erbe che
cieli e a tutto ciò che si muove sulla terra ed ha in sé un
facevan seme secondo la loro specie, e degli alberi che
soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento’. E
portavano del frutto avente in sé la propria semenza,
così fu.
secondo la loro specie. E Dio vide che questo era
31 E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era
buono.
molto buono. Così fu sera, poi fu mattina: e fu il sesto
13 Così fu sera, poi fu mattina: e fu il terzo giorno.
giorno.
14 Poi Dio disse: ‘Sianvi de’ luminari nella distesa dei
cieli per separare il giorno dalla notte; e siano dei segni
Così furono compiti i cieli e la terra e tutto
e per le stagioni e per i giorni e per gli anni;
l’esercito loro.
2
15 e servano da luminari nella distesa dei cieli per dar
2 Il settimo giorno, Iddio compì l’opera che aveva
luce alla terra’. E così fu.
fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che
16 E Dio fece i due grandi luminari: il luminare
aveva fatta.
maggiore, per presiedere al giorno, e il luminare minore
3 E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò,
per presiedere alla notte; e fece pure le stelle.
perché in esso si riposò da tutta l’opera che aveva creata
17 E Dio li mise nella distesa dei cieli per dar luce alla
e fatta.
terra,
4 Queste sono le origini dei cieli e della terra quando
18 per presiedere al giorno e alla notte e separare la luce
furono creati, nel giorno che l’Eterno Iddio fece la terra
dalle tenebre. E Dio vide che questo era buono.
e i cieli.
19 Così fu sera, poi fu mattina: e fu il quarto giorno.
5 Non c’era ancora sulla terra alcun arbusto della
20 Poi Dio disse: ‘Producano le acque in abbondanza
campagna, e nessuna erba della campagna era ancora
animali viventi, e volino degli uccelli sopra la terra per
spuntata, perché l’Eterno Iddio non avea fatto piovere
l’ampia distesa del cielo’.
sulla terra, e non c’era alcun uomo per coltivare il
21 E Dio creò i grandi animali acquatici e tutti gli esseri
suolo;
viventi che si muovono, i quali le acque produssero in
6 ma un vapore saliva dalla terra e adacquava tutta la
abbondanza secondo la loro specie, ed ogni volatile
superficie del suolo.
secondo la sua specie. E Dio vide che questo era buono.
7 E l’Eterno Iddio formò l’uomo dalla polvere della
terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale, e l’uomo
divenne un’anima vivente.
GENESI
8 E l’Eterno Iddio piantò un giardino in Eden, in
5 ma Iddio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi
oriente, e quivi pose l’uomo che aveva formato.
vostri s’apriranno, e sarete come Dio, avendo la
9 E l’Eterno Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta
conoscenza del bene e del male’.
d’alberi piacevoli a vedersi e il cui frutto era buono da
6 E la donna vide che il frutto dell’albero era buono a
mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino, e
mangiarsi, ch’era bello a vedere, e che l’albero era
l’albero della conoscenza del bene e del male.
desiderabile per diventare intelligente; prese del frutto,
10 E un fiume usciva d’Eden per adacquare il giardino,
ne mangiò, e ne dette anche al suo marito ch’era con lei,
e di là si spartiva in quattro bracci.
ed egli ne mangiò.
11 Il nome del primo è Pishon, ed è quello che circonda
7 Allora si apersero gli occhi ad ambedue, e s’accorsero
tutto il paese di Havila, dov’è l’oro;
ch’erano ignudi; e cucirono delle foglie di fico, e se ne
12 e l’oro di quel paese è buono; quivi si trovan pure il
fecero delle cinture.
bdellio e l’ònice.
8 E udirono la voce dell’Eterno Iddio, il quale
13 Il nome del secondo fiume è Ghihon, ed è quello che
camminava nel giardino sul far della sera; e l’uomo e
circonda tutto il paese di Cush.
sua moglie si nascosero dalla presenza dell’Eterno
14 Il nome del terzo fiume è Hiddekel, ed è quello che
Iddio, fra gli alberi del giardino.
scorre a oriente dell’Assiria. E il quarto fiume è
9 E l’Eterno Iddio chiamò l’uomo e gli disse: ‘Dove
l’Eufrate.
sei?’ E quegli rispose:
15 L’Eterno Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel
10 ‘Ho udito la tua voce nel giardino, e ho avuto paura,
giardino d’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse.
perch’ero ignudo, e mi sono nascosto’.
16
E
l’Eterno
Iddio
diede
all’uomo
questo
11 E Dio disse: ‘Chi t’ha mostrato ch’eri ignudo? Hai tu
comandamento: ‘Mangia pure liberamente del frutto
mangiato del frutto dell’albero del quale io t’avevo
d’ogni albero del giardino;
comandato di non mangiare?’
17 ma del frutto dell’albero della conoscenza del bene e
12 L’uomo rispose: ‘La donna che tu m’hai messa
del male non ne mangiare; perché, nel giorno che tu ne
accanto, è lei che m’ha dato del frutto dell’albero, e io
mangerai, per certo morrai’.
n’ho mangiato’.
18 Poi l’Eterno Iddio disse: ‘Non è bene che l’uomo sia
13 E l’Eterno Iddio disse alla donna: ‘Perché hai fatto
solo; io gli farò un aiuto che gli sia convenevole’.
questo?’ E la donna rispose: ‘Il serpente mi ha sedotta,
19 E l’Eterno Iddio avendo formato dalla terra tutti gli
ed io ne ho mangiato’.
animali dei campi e tutti gli uccelli dei cieli, li menò
14 Allora l’Eterno Iddio disse al serpente: ‘Perché hai
all’uomo per vedere come li chiamerebbe, e perché ogni
fatto questo, sii maledetto fra tutto il bestiame e fra tutti
essere vivente portasse il nome che l’uomo gli darebbe.
gli animali dei campi! Tu camminerai sul tuo ventre, e
20 E l’uomo dette de’ nomi a tutto il bestiame, agli
mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.
uccelli dei cieli e ad ogni animale dei campi; ma per
15 E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua
l’uomo non si trovò aiuto che gli fosse convenevole.
progenie e la progenie di lei; questa progenie ti
21 Allora l’Eterno Iddio fece cadere un profondo sonno
schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno’.
sull’uomo, che s’addormentò; e prese una delle costole
16 Alla donna disse: ‘Io moltiplicherò grandemente le
di lui, e richiuse la carne al posto d’essa.
tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore
22 E l’Eterno Iddio, con la costola che avea tolta
partorirai figliuoli; i tuoi desiderî si volgeranno verso il
all’uomo, formò una donna e la menò all’uomo.
tuo marito, ed egli dominerà su te’.
23 E l’uomo disse: ‘Questa, finalmente, è ossa delle mie
17 E ad Adamo disse: ‘Perché hai dato ascolto alla voce
ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna
della tua moglie e hai mangiato del frutto dell’albero
perché è stata tratta dall’uomo’.
circa il quale io t’avevo dato quest’ordine: Non ne
24 Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
mangiare, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne
unirà alla sua moglie, e saranno una stessa carne.
mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua
25 E l’uomo e la sua moglie erano ambedue ignudi e
vita.
non ne aveano vergogna.
18 Esso ti produrrà spine e triboli, e tu mangerai l’erba
dei campi;
Or il serpente era il più astuto di tutti gli animali
19 mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu
dei campi che l’Eterno Iddio aveva fatti; ed esso
ritorni nella terra donde fosti tratto; perché sei polvere, e
3 disse alla donna: ‘Come! Iddio v’ha detto: Non in polvere ritornerai’.
mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?’
20 E l’uomo pose nome Eva alla sua moglie, perch’è
2 E la donna rispose al serpente: ‘Del frutto degli alberi
stata la madre di tutti i viventi.
del giardino ne possiamo mangiare;
21 E l’Eterno Iddio fece ad Adamo e alla sua moglie
3 ma del frutto dell’albero ch’è in mezzo al giardino
delle tuniche di pelle, e li vestì.
Iddio ha detto: Non ne mangiate e non lo toccate, che
22 Poi l’Eterno Iddio disse: ‘Ecco, l’uomo è diventato
non abbiate a morire’.
come uno di noi, quanto a conoscenza del bene e del
4 E il serpente disse alla donna: ‘No, non morrete
male. Guardiamo ch’egli non stenda la mano e prenda
affatto;
anche del frutto dell’albero della vita, e ne mangi, e viva
in perpetuo’.
6
GENESI
23 Perciò l’Eterno Iddio mandò via l’uomo dal giardino
21 E il nome del suo fratello era Jubal, che fu il padre di
d’Eden, perché lavorasse la terra donde era stato tratto.
tutti quelli che suonano la cetra ed il flauto.
24 Così egli scacciò l’uomo; e pose ad oriente del
22 E Zilla partorì anch’essa Tubal-cain, l’artefice d’ogni
giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni
sorta di strumenti di rame e di ferro; e la sorella di
parte una spada fiammeggiante, per custodire la via
Tubal-cain fu Naama.
dell’albero della vita.
23 E Lamec disse alle sue mogli: ‘Ada e Zilla, ascoltate
la mia voce; mogli di Lamec, porgete orecchio al mio
Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale
dire! Sì, io ho ucciso un uomo perché m’ha ferito, e un
concepì e partorì Caino, e disse: ‘Ho acquistato un
giovine perché m’ha contuso.
4 uomo, con l’aiuto dell’Eterno’.
24 Se Caino sarà vendicato sette volte, Lamec lo sarà
2 Poi partorì ancora Abele, fratello di lui. E Abele fu
settantasette volte.’
pastore di pecore; e Caino, lavoratore della terra.
25 E Adamo conobbe ancora la sua moglie, ed essa
3 E avvenne, di lì a qualche tempo, che Caino fece un’
partorì un figliuolo, a cui pose nome Seth, ‘perché’ ella
offerta di frutti della terra all’Eterno;
disse, ‘Iddio m’ha dato un altro figliuolo al posto
4 e Abele offerse anch’egli dei primogeniti del suo
d’Abele, che Caino ha ucciso’.
gregge e del loro grasso. E l’Eterno guardò con favore
26 E anche a Seth nacque un figliuolo, a cui pose nome
Abele e la sua offerta,
Enosh. Allora si cominciò a invocare il nome
5 ma non guardò con favore Caino e l’offerta sua. E
dell’Eterno.
Caino ne fu molto irritato, e il suo viso ne fu abbattuto.
6 E l’Eterno disse a Caino: ‘Perché sei tu irritato? e
Questo è il libro della posterità d’Adamo. Nel
perché hai il volto abbattuto?
giorno che Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza
5
7 Se fai bene non rialzerai tu il volto? ma, se fai male, il
di Dio;
peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desiderî son
2 li creò maschio e femmina, li benedisse e dette loro il
vòlti a te; ma tu lo devi dominare!’.
nome di ‘uomo’, nel giorno che furon creati.
8 E Caino disse ad Abele suo fratello: ‘Usciamo fuori ai
3 Adamo visse centotrent’anni, generò un figliuolo, a
campi!’ E avvenne che, quando furono nei campi, Caino
sua somiglianza, conforme alla sua immagine, e gli pose
si levò contro Abele suo fratello, e l’uccise.
nome Seth;
9 E l’Eterno disse a Caino: ‘Dov’è Abele tuo fratello?’
4 e il tempo che Adamo visse, dopo ch’ebbe generato
Ed egli rispose: ‘Non lo so; sono io forse il guardiano di
Seth, fu ottocent’anni, e generò figliuoli e figliuole;
mio fratello?’
5
e
tutto
il
tempo
che
Adamo
visse
fu
10 E l’Eterno disse: ‘Che hai tu fatto? la voce del
novecentotrent’anni; poi morì.
sangue di tuo fratello grida a me dalla terra.
6 E Seth visse centocinque anni, e generò Enosh.
11 E ora tu sarai maledetto, condannato ad errar lungi
7 E Seth, dopo ch’ebbe generato Enosh, visse
dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il
ottocentosette anni, e generò figliuoli e figliuole;
sangue del tuo fratello dalla tua mano.
8 e tutto il tempo che Seth visse fu novecentododici
12 Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi
anni; poi morì.
prodotti, e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra’.
9 Ed Enosh visse novant’anni, e generò Kenan.
13 E Caino disse all’Eterno: ‘Il mio castigo è troppo
10 Ed Enosh, dopo ch’ebbe generato Kenan, visse
grande perch’io lo possa sopportare.
ottocentoquindici anni, e generò figliuoli e figliuole;
14 Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo suolo,
11 e tutto il tempo che Enosh visse fu novecentocinque
ed io sarò nascosto dal tuo cospetto, e sarò vagabondo e
anni; poi morì.
fuggiasco per la terra; e avverrà che chiunque mi
12 E Kenan visse settant’anni, e generò Mahalaleel.
troverà mi ucciderà’.
13 E Kenan, dopo ch’ebbe generato Mahalaleel, visse
15 E l’Eterno gli disse: ‘Perciò, chiunque ucciderà
ottocentoquarant’anni, e generò figliuoli e figliuole;
Caino, sarà punito sette volte più di lui’. E l’Eterno mise
14 e tutto il tempo che Kenan visse fu novecentodieci
un segno su Caino, affinché nessuno, trovandolo,
anni; poi morì.
l’uccidesse.
15 E Mahalaleel visse sessantacinque anni, e generò
16 E Caino si partì dal cospetto dell’Eterno e dimorò nel
Jared.
paese di Nod, ad oriente di Eden.
16 E Mahalaleel, dopo ch’ebbe generato Jared, visse
17 E Caino conobbe la sua moglie, la quale concepì e
ottocentotrent’anni, e generò figliuoli e figliuole;
partorì Enoc. Poi si mise a edificare una città, a cui
17 e tutto il tempo che Mahalaleel visse fu
diede il nome di Enoc, dal nome del suo figliuolo.
ottocentonovantacinque anni; poi morì.
18 E ad Enoc nacque Irad; Irad generò Mehujael;
18 E Jared visse centosessantadue anni, e generò Enoc.
Mehujael generò Methushael, e Methushael generò
19 E Jared, dopo ch’ebbe generato Enoc, visse
Lamec.
ottocent’anni, e generò figliuoli e figliuole;
19 E Lamec prese due mogli: il nome dell’una era Ada,
20
e
tutto
il
tempo
che
Jared
visse
fu
e il nome dell’altra, Zilla.
novecentosessantadue anni; poi morì.
20 E Ada partorì Jabal, che fu il padre di quelli che
21 Ed Enoc visse sessantacinque anni, e generò
abitano sotto le tende presso i greggi.
Methushelah.
7
GENESI
22 Ed Enoc, dopo ch’ebbe generato Methushelah,
13 E Dio disse a Noè: ‘Nei miei decreti, la fine d’ogni
camminò con Dio trecent’anni, e generò figliuoli e
carne è giunta; poiché la terra, per opera degli uomini, è
figliuole;
piena di violenza; ecco, io li distruggerò, insieme con la
23
e
tutto
il
tempo
che
Enoc
visse
fu
terra.
trecentosessantacinque anni.
14 Fatti un’arca di legno di gofer; falla a stanze, e
24 Ed Enoc camminò con Dio; poi disparve, perché
spalmala di pece, di dentro e di fuori.
Iddio lo prese.
15 Ed ecco come la dovrai fare: la lunghezza dell’arca
25 E Methushelah visse centottantasette anni e generò
sarà di trecento cubiti; la larghezza, di cinquanta cubiti,
Lamec.
e l’altezza, di trenta cubiti.
26 E Methushelah, dopo ch’ebbe generato Lamec, visse
16 Farai all’arca una finestra, in alto, e le darai la
settecentottantadue anni, e generò figliuoli e figliuole;
dimensione d’un cubito; metterai la porta da un lato, e
27 e tutto il tempo che Methushelah visse fu
farai l’arca a tre piani: uno da basso, un secondo e un
novecentosessantanove anni; poi morì.
terzo piano.
28 E Lamec visse centottantadue anni, e generò un
17 Ed ecco, io sto per far venire il diluvio delle acque
figliuolo;
sulla terra, per distruggere di sotto i cieli ogni carne in
29 e gli pose nome Noè, dicendo: ‘Questo ci consolerà
cui è alito di vita; tutto quello ch’è sopra la terra, morrà.
della nostra opera e della fatica delle nostre mani
18 Ma io stabilirò il mio patto con te; e tu entrerai
cagionata dal suolo che l’Eterno ha maledetto’.
nell’arca: tu e i tuoi figliuoli, la tua moglie e le mogli
30 E Lamec, dopo ch’ebbe generato Noè, visse
de’ tuoi figliuoli con te.
cinquecentonovantacinque anni, e generò figliuoli e
19 E di tutto ciò che vive, d’ogni carne, fanne entrare
figliuole;
nell’arca due d’ogni specie, per conservarli in vita con
31
e
tutto
il
tempo
che
Lamec
visse
fu
te; e siano maschio e femmina.
settecentosettantasette anni; poi morì.
20 Degli uccelli secondo le loro specie del bestiame
32 E Noè, all’età di cinquecent’anni, generò Sem, Cam
secondo le sue specie, e di tutti i rettili della terra
e Jafet.
secondo le loro specie, due d’ogni specie verranno a te,
perché tu li conservi in vita.
Or
quando
gli
uomini
cominciarono
a
21 E tu prenditi d’ogni cibo che si mangia, e fattene
moltiplicare sulla faccia della terra e furon loro
provvista, perché serva di nutrimento a te e a loro’.
6 nate delle figliuole,
22 E Noè fece così; fece tutto quello che Dio gli avea
2 avvenne che i figliuoli di Dio videro che le figliuole
comandato.
degli uomini erano belle, e presero per mogli quelle che
si scelsero fra tutte.
E l’Eterno disse a Noè: ‘Entra nell’arca tu con
3 E l’Eterno disse: ‘Lo spirito mio non contenderà per
tutta la tua famiglia, poiché t’ho veduto giusto nel
7
sempre con l’uomo; poiché, nel suo traviamento, egli
mio cospetto, in questa generazione.
non è che carne; i suoi giorni saranno quindi
2 D’ogni specie di animali puri prendine sette paia,
centovent’anni’.
maschio e femmina; e degli animali impuri un paio,
4 In quel tempo c’erano sulla terra i giganti, e ci furono
maschio e femmina;
anche di poi, quando i figliuoli di Dio si accostarono
3 e parimente degli uccelli dei cieli prendine sette paia,
alle figliuole degli uomini, e queste fecero loro de’
maschio e femmina, per conservarne in vita la razza
figliuoli. Essi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi
sulla faccia di tutta la terra;
antichi, sono stati famosi.
4 poiché di qui a sette giorni farò piovere sulla terra per
5 E l’Eterno vide che la malvagità degli uomini era
quaranta giorni e quaranta notti, e sterminerò di sulla
grande sulla terra, e che tutti i disegni dei pensieri del
faccia della terra tutti gli esseri viventi che ho fatto’.
loro cuore non erano altro che male in ogni tempo.
5 E Noè fece tutto quello che l’Eterno gli avea
6 E l’Eterno si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se
comandato.
ne addolorò in cuor suo.
6 Noè era in età di seicent’anni, quando il diluvio delle
7 E l’Eterno disse: ‘Io sterminerò di sulla faccia della
acque inondò la terra.
terra l’uomo che ho creato: dall’uomo al bestiame, ai
7 E Noè, coi suoi figliuoli, con la sua moglie e con le
rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento d’averli
mogli de’ suoi figliuoli, entrò nell’arca per scampare
fatti’.
dalle acque del diluvio.
8 Ma Noè trovò grazia agli occhi dell’Eterno.
8 Degli animali puri e degli animali impuri, degli uccelli
9 Questa è la posterità di Noè. Noè fu uomo giusto,
e di tutto quello che striscia sulla terra,
integro, ai suoi tempi; Noè camminò con Dio.
9 vennero delle coppie, maschio e femmina, a Noè
10 E Noè generò tre figliuoli: Sem, Cam e Jafet.
nell’arca, come Dio avea comandato a Noè.
11 Or la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era
10 E, al termine dei sette giorni, avvenne che le acque
ripiena di violenza.
del diluvio furono sulla terra.
12 E Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta, poiché
11 L’anno seicentesimo della vita di Noè, il secondo
ogni carne avea corrotto la sua via sulla terra.
mese, il diciassettesimo giorno del mese, in quel giorno,
8
GENESI
tutte le fonti del grande abisso scoppiarono e le cateratte
8 Poi mandò fuori la colomba, per vedere se le acque
del cielo s’aprirono.
fossero diminuite sulla superficie della terra.
12 E piovve sulla terra per quaranta giorni e quaranta
9 Ma la colomba non trovò dove posar la pianta del suo
notti.
piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’eran delle acque
13 In quello stesso giorno, Noè, Sem, Cam e Jafet,
sulla superficie di tutta la terra; ed egli stese la mano, la
figliuoli di Noè, la moglie di Noè e le tre mogli dei suoi
prese, e la portò con sé dentro l’arca.
figliuoli con loro, entrarono nell’arca:
10 E aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la
14 essi, e tutti gli animali secondo le loro specie, e tutto
colomba fuori dell’arca.
il bestiame secondo le sue specie, e tutti i rettili che
11 E la colomba tornò a lui, verso sera; ed ecco, essa
strisciano sulla terra, secondo le loro specie, e tutti gli
aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo; onde Noè
uccelli secondo le loro specie, tutti gli uccelletti, tutto
capì che le acque erano scemate sopra la terra.
quel che porta ali.
12 E aspettò altri sette giorni, poi mandò fuori la
15 D’ogni carne in cui è alito di vita venne una coppia a
colomba; ma essa non tornò più a lui.
Noè nell’arca:
13 L’anno secentesimoprimo di Noè, il primo mese, il
16 venivano maschio e femmina d’ogni carne, come
primo giorno del mese, le acque erano asciugate sulla
Dio avea comandato a Noè; poi l’Eterno lo chiuse
terra; e Noè scoperchiò l’arca, guardò, ed ecco che la
dentro l’arca.
superficie del suolo era asciutta.
17 E il diluvio venne sopra la terra per quaranta giorni;
14 E il secondo mese, il ventisettesimo giorno del mese,
e le acque crebbero e sollevarono l’arca, che fu levata in
la terra era asciutta.
alto d’in su la terra.
15 E Dio parlò a Noè, dicendo:
18 E le acque ingrossarono e crebbero grandemente
16 ‘Esci dall’arca tu e la tua moglie, i tuoi figliuoli e le
sopra la terra, e l’arca galleggiava sulla superficie delle
mogli dei tuoi figliuoli con te.
acque.
17 Fa’ uscire con te tutti gli animali che son teco, d’ogni
19 E le acque ingrossarono oltremodo sopra la terra; e
carne: uccelli, bestiame, e tutti i rettili che strisciano
tutte le alte montagne che erano sotto tutti i cieli, furon
sulla terra, perché abbondino sulla terra, e figlino e
coperte.
moltiplichino sulla terra’.
20 Le acque salirono quindici cubiti al disopra delle
18 E Noè uscì con i suoi figliuoli, con la sua moglie, e
vette dei monti; e le montagne furon coperte.
con le mogli dei suoi figliuoli.
21 E perì ogni carne che si moveva sulla terra: uccelli,
19 Tutti gli animali, tutti i rettili, tutti gli uccelli, tutto
bestiame, animali salvatici, rettili d’ogni sorta striscianti
quel che si muove sulla terra, secondo le loro famiglie,
sulla terra, e tutti gli uomini.
uscirono dall’arca.
22 Tutto quello ch’era sulla terra asciutta ed aveva alito
20 E Noè edificò un altare all’Eterno; prese d’ogni
di vita nelle sue narici, morì.
specie d’animali puri e d’ogni specie d’uccelli puri, e
23 E tutti gli esseri ch’erano sulla faccia della terra
offrì olocausti sull’altare.
furono sterminati: dall’uomo fino al bestiame, ai rettili e
21 E l’Eterno sentì un odor soave; e l’Eterno disse in
agli uccelli del cielo; furono sterminati di sulla terra;
cuor suo: ‘Io non maledirò più la terra a cagione
non scampò che Noè con quelli ch’eran con lui
dell’uomo, poiché i disegni del cuor dell’uomo sono
nell’arca.
malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più
24 E le acque rimasero alte sopra la terra per
ogni cosa vivente, come ho fatto.
centocinquanta giorni.
22 Finché la terra durerà, sementa e raccolta, freddo e
caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno
Or Iddio si ricordò di Noè, di tutti gli animali e di
mai’.
tutto il bestiame ch’era con lui nell’arca; e Dio
8 fece passare un vento sulla terra, e le acque si
E Dio benedisse Noè e i suoi figliuoli, e disse
calmarono;
loro: ‘Crescete, moltiplicate, e riempite la terra.
9
2 le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono
2 E avranno timore e spavento di voi tutti gli
chiuse, e cessò la pioggia dal cielo;
animali della terra e tutti gli uccelli del cielo. Essi son
3 le acque andarono del continuo ritirandosi di sulla
dati in poter vostro con tutto ciò che striscia sulla terra e
terra, e alla fine di centocinquanta giorni cominciarono
con tutti i pesci del mare.
a scemare.
3 Tutto ciò che si muove ed ha vita vi servirà di cibo; io
4 E nel settimo mese, il decimosettimo giorno del mese,
vi do tutto questo, come l’erba verde;
l’arca si fermò sulle montagne di Ararat.
4 ma non mangerete carne con la vita sua, cioè col suo
5 E le acque andarono scemando fino al decimo mese.
sangue.
Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero
5 E, certo, io chiederò conto del vostro sangue, del
le vette dei monti.
sangue delle vostre vite; ne chiederò conto ad ogni
6 E in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che
animale; e chiederò conto della vita dell’uomo alla
avea fatta nell’arca,
mano dell’uomo, alla mano d’ogni suo fratello.
7 e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e
tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra.
9
GENESI
6 Il sangue di chiunque spargerà il sangue dell’uomo
Questa è la posterità dei figliuoli di Noè:
sarà sparso dall’uomo, perché Dio ha fatto l’uomo a
Sem, Cam e Jafet; e a loro nacquero de’
10
immagine sua.
figliuoli, dopo il diluvio.
7 Voi dunque crescete e moltiplicate; spandetevi sulla
2 I figliuoli di Jafet furono Gomer, Magog, Madai,
terra, e moltiplicate in essa’.
Iavan, Tubal, Mescec e Tiras.
8 Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figliuoli con lui,
3 I figliuoli di Gomer: Ashkenaz, Rifat e Togarma.
dicendo:
4 I figliuoli di Javan: Elisha, Tarsis, Kittim e Dodanim.
9 ‘Quanto a me, ecco, stabilisco il mio patto con voi e
5 Da essi vennero i popoli sparsi nelle isole delle
con la vostra progenie dopo voi,
nazioni, nei loro diversi paesi, ciascuno secondo la
10 e con tutti gli esseri viventi che sono con voi: uccelli,
propria lingua, secondo le loro famiglie, nelle loro
bestiame, e tutti gli animali della terra con voi; da tutti
nazioni.
quelli che sono usciti dall’arca, a tutti quanti gli animali
6 I figliuoli di Cam furono Cush, Mitsraim, Put e
della terra.
Canaan.
11 Io stabilisco il mio patto con voi, e nessuna carne
7 I figliuoli di Cush: Seba, Havila, Sabta, Raama e
sarà più sterminata dalle acque del diluvio, e non ci sarà
Sabteca; e i figliuoli di Raama: Sceba e Dedan.
più diluvio per distruggere la terra’.
8 E Cush generò Nimrod, che cominciò a esser potente
12 E Dio disse: ‘Ecco il segno del patto che io fo tra me
sulla terra.
e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte
9 Egli fu un potente cacciatore nel cospetto dell’Eterno;
le generazioni a venire.
perciò si dice: ‘Come Nimrod, potente cacciatore nel
13 Io pongo il mio arco nella nuvola, e servirà di segno
cospetto dell’Eterno’.
del patto fra me e la terra.
10 E il principio del suo regno fu Babel, Erec, Accad e
14 E avverrà che quando avrò raccolto delle nuvole al
Calne nel paese di Scinear.
disopra della terra, l’arco apparirà nelle nuvole,
11 Da quel paese andò in Assiria ed edificò Ninive,
15 e io mi ricorderò del mio patto fra me e voi e ogni
Rehoboth-Ir e Calah;
essere vivente d’ogni carne, e le acque non
12 e, fra Ninive e Calah, Resen, la gran città.
diventeranno più un diluvio per distruggere ogni carne.
13 Mitsraim generò i Ludim, gli Anamim, i Lehabim, i
16 L’arco dunque sarà nelle nuvole, e io lo guarderò per
Naftuhim,
ricordarmi del patto perpetuo fra Dio e ogni essere
14 i Pathrusim, i Casluhim (donde uscirono i Filistei) e i
vivente, di qualunque carne che è sulla terra’.
Caftorim.
17 E Dio disse a Noè: ‘Questo è il segno del patto che
15 Canaan generò Sidon, suo primogenito, e Heth,
io ho stabilito fra me e ogni carne che è sulla terra’.
16 e i Gebusei, gli Amorei, i Ghirgasei,
18 E i figliuoli di Noè che uscirono dall’arca furono
17 gli Hivvei, gli Archei, i Sinei,
Sem, Cam e Jafet; e Cam è il padre di Canaan.
18 gli Arvadei, i Tsemarei e gli Hamattei. Poi le
19 Questi sono i tre figliuoli di Noè; e da loro fu
famiglie dei Cananei si sparsero.
popolata tutta la terra.
19 E i confini dei Cananei andarono da Sidon, in
20 Or Noè, ch’era agricoltore, cominciò a piantar la
direzione di Gherar, fino a Gaza; e in direzione di
vigna;
Sodoma, Gomorra, Adma e Tseboim, fino a Lesha.
21 e bevve del vino e s’inebriò e si scoperse in mezzo
20 Questi sono i figliuoli di Cam, secondo le loro
alla sua tenda.
famiglie, secondo le loro lingue, nei loro paesi, nelle
22 E Cam, padre di Canaan, vide la nudità del padre
loro nazioni.
suo, e andò a dirlo fuori, ai suoi fratelli.
21 Anche a Sem, padre di tutti i figliuoli di Eber e
23 Ma Sem e Jafet presero il suo mantello, se lo misero
fratello maggiore di Jafet, nacquero de’ figliuoli.
assieme sulle spalle, e, camminando all’indietro,
22 I figliuoli di Sem furono Elam, Assur, Arpacshad,
coprirono la nudità del loro padre; e siccome aveano la
Lud e Aram.
faccia vòlta alla parte opposta, non videro la nudità del
23 I figliuoli di Aram: Uz, Hul, Gheter e Mash.
loro padre.
24 E Arpacshad generò Scelah, e Scelah generò Eber.
24 E quando Noè si svegliò dalla sua ebbrezza, seppe
25 E ad Eber nacquero due figliuoli; il nome dell’uno fu
quello che gli avea fatto il suo figliuolo minore; e disse:
Peleg, perché ai suoi giorni la terra fu spartita; e il nome
25 ‘Maledetto sia Canaan! Sia servo dei servi de’ suoi
del suo fratello fu Jokthan.
fratelli!’
26 E Jokthan generò Almodad, Scelef, Hatsarmaveth,
26 E disse ancora: Benedetto sia l’Eterno, l’Iddio di
27 Jerah, Hadoram, Uzal,
Sem, e sia Canaan suo servo!
28 Diklah, Obal, Abimael, Sceba,
27 Iddio estenda Jafet, ed abiti egli nelle tende di Sem, e
29 Ofir, Havila e Jobab. Tutti questi furono figliuoli di
sia Canaan suo servo!’
Jokthan.
28 E Noè visse, dopo il diluvio, trecentocinquant’anni.
30 E la loro dimora fu la montagna orientale, da Mesha,
29
E
tutto
il
tempo
che
Noè
visse
fu
fin verso Sefar.
novecentocinquant’anni; poi morì.
31 Questi sono i figliuoli di Sem, secondo le loro
famiglie, secondo le loro lingue, nei loro paesi, secondo
le loro nazioni.
10
GENESI
32 Queste sono le famiglie dei figliuoli di Noè, secondo
28 Haran morì in presenza di Terah suo padre, nel suo
le loro generazioni, nelle loro nazioni; e da essi uscirono
paese nativo, in Ur de’ Caldei.
le nazioni che si sparsero per la terra dopo il diluvio.
29 E Abramo e Nahor si presero delle mogli; il nome
della moglie d’Abramo era Sarai; e il nome della moglie
Or tutta la terra parlava la stessa lingua e
di Nahor, Milca, ch’era figliuola di Haran, padre di
usava le stesse parole.
Milca e padre di Isca.
11 2 E avvenne che, essendo partiti verso 30 E Sarai era sterile; non aveva figliuoli.
l’Oriente, gli uomini trovarono una pianura nel paese di
31 E Terah prese Abramo, suo figliuolo, e Lot, figliuolo
Scinear, e quivi si stanziarono.
di Haran, cioè figliuolo del suo figliuolo, e Sarai sua
3 E dissero l’uno all’altro: ‘Orsù, facciamo de’ mattoni
nuora, moglie d’Abramo suo figliuolo, e uscirono
e cociamoli col fuoco!’ E si valsero di mattoni invece di
insieme da Ur de’ Caldei per andare nel paese di
pietre, e di bitume invece di calcina.
Canaan; e, giunti a Charan, dimorarono quivi.
4 E dissero: ‘Orsù, edifichiamoci una città e una torre di
32 E il tempo che Terah visse fu duecentocinque anni;
cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama,
poi Terah morì in Charan.
onde non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra’.
5 E l’Eterno discese per vedere la città e la torre che i
Or l’Eterno disse ad Abramo: ‘Vattene dal
figliuoli degli uomini edificavano.
tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di
12
6 E l’Eterno disse: ‘Ecco, essi sono un solo popolo e
tuo padre, nel paese che io ti mostrerò;
hanno tutti il medesimo linguaggio; e questo è il
2 e io farò di te una grande nazione e ti benedirò e
principio del loro lavoro; ora nulla li impedirà di
renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di
condurre a termine ciò che disegnano di fare.
benedizione;
7 Orsù, scendiamo e confondiamo quivi il loro
3 e benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti
linguaggio, sicché l’uno non capisca il parlare
maledirà e in te saranno benedette tutte le famiglie della
dell’altro!’
terra’.
8 Così l’Eterno li disperse di là sulla faccia di tutta la
4 E Abramo se ne andò, come l’Eterno gli avea detto, e
terra, ed essi cessarono di edificare la città.
Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni
9 Perciò a questa fu dato il nome di Babel perché
quando partì da Charan.
l’Eterno confuse quivi il linguaggio di tutta la terra, e di
5 E Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figliuolo del
là l’Eterno li disperse sulla faccia di tutta la terra.
suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone
10 Questa è la posterità di Sem. Sem, all’età di
che aveano acquistate in Charan, e partirono per
cent’anni, generò Arpacshad, due anni dopo il diluvio.
andarsene nel paese di Canaan; e giunsero nel paese di
11 E Sem, dopo ch’ebbe generato Arpacshad, visse
Canaan.
cinquecent’anni e generò figliuoli e figliuole.
6 E Abramo traversò il paese fino al luogo di Sichem,
12 Arpacshad visse trentacinque anni e generò Scelah; e
fino alla quercia di Moreh. Or in quel tempo i Cananei
Arpacshad, dopo aver generato Scelah,
erano nel paese.
13 visse quattrocentotre anni e generò figliuoli e
7 E l’Eterno apparve ad Abramo e disse: ‘Io darò questo
figliuole.
paese alla tua progenie’. Ed egli edificò quivi un altare
14 Scelah visse trent’anni e generò Eber;
all’Eterno che gli era apparso.
15 e Scelah, dopo aver generato Eber, visse
8 E di là si trasportò verso la montagna a oriente di
quattrocentotre anni e generò figliuoli e figliuole.
Bethel, e piantò le sue tende, avendo Bethel a occidente
16 Eber visse trentaquattro anni e generò Peleg;
e Ai ad oriente; e quivi edificò un altare all’Eterno e
17 ed Eber, dopo aver generato Peleg, visse
invocò il nome dell’Eterno.
quattrocentotrent’anni e generò figliuoli e figliuole.
9 Poi Abramo si partì, proseguendo da un
18 Peleg visse trent’anni e generò Reu;
accampamento all’altro, verso mezzogiorno.
19 e Peleg, dopo aver generato Reu, visse duecentonove
10 Or venne nel paese una carestia; e Abramo scese in
anni e generò figliuoli e figliuole.
Egitto per soggiornarvi, perché la fame era grave nel
20 Reu visse trentadue anni e generò Serug;
paese.
21 e Reu, dopo aver generato Serug, visse duecentosette
11 E come stava per entrare in Egitto, disse a Sarai sua
anni e generò figliuoli e figliuole.
moglie: ‘Ecco, io so che tu sei una donna di
22 Serug visse trent’anni e generò Nahor;
bell’aspetto;
23 e Serug, dopo aver generato Nahor, visse duecento
12 e avverrà che quando gli Egiziani t’avranno veduta,
anni e generò figliuoli e figliuole.
diranno: Ella è sua moglie; e uccideranno me, ma a te
24 Nahor visse ventinove anni e generò Terah;
lasceranno la vita.
25 e Nahor, dopo aver generato Terah, visse
13 Deh, di’ che sei mia sorella, perché io sia trattato
centodiciannove anni e generò figliuoli e figliuole.
bene a motivo di te, e la vita mi sia conservata per amor
26 Terah visse settant’anni e generò Abramo, Nahor e
tuo’.
Haran.
14 E avvenne che quando Abramo fu giunto in Egitto,
27 E questa è la posterità di Terah. Terah generò
gli Egiziani osservarono che la donna era molto bella.
Abramo, Nahor e Haran; e Haran generò Lot.
11
GENESI
15 E i principi di Faraone la videro e la lodarono
15 Tutto il paese che vedi, lo darò a te e alla tua
dinanzi a Faraone; e la donna fu menata in casa di
progenie, in perpetuo.
Faraone.
16 E farò sì che la tua progenie sarà come la polvere
16 Ed egli fece del bene ad Abramo per amor di lei; ed
della terra; in guisa che, se alcuno può contare la
Abramo ebbe pecore e buoi e asini e servi e serve e
polvere della terra, anche la tua progenie si potrà
asine e cammelli.
contare.
17 Ma l’Eterno colpì Faraone e la sua casa con grandi
17 Lèvati, percorri il paese quant’è lungo e quant’è
piaghe, a motivo di Sarai, moglie d’Abramo.
largo, poiché io te lo darò’. 

Othello TPJ Level

Act I
SCENE I. Venice. A street.
Enter RODERIGO and IAGO
RODERIGO
Tush! never tell me; I take it much unkindly That thou, Iago, who hast had my purse As if the strings were thine, shouldst know of this.
IAGO
‘Sblood, but you will not hear me: If ever I did dream of such a matter, Abhor me.
RODERIGO
Thou told’st me thou didst hold him in thy hate.
IAGO
Despise me, if I do not. Three great ones of the city, In personal suit to make me his lieutenant, Off-capp’d to him: and, by the faith of man, I know my price, I am worth no worse a place: But he; as loving his own pride and purposes, Evades them, with a bombast circumstance Horribly stuff’d with epithets of war; And, in conclusion,
Nonsuits my mediators; for, ‘Certes,’ says he,
‘I have already chose my officer.’
And what was he?
Forsooth, a great arithmetician, One Michael Cassio, a Florentine, A fellow almost damn’d in a fair wife; That never set a squadron in the field, Nor the division of a battle knows More than a spinster; unless the bookish theoric, Wherein the toged consuls can propose 4
As masterly as he: mere prattle, without practise, Is all his soldiership. But he, sir, had the election: And I, of whom his eyes had seen the proof At Rhodes, at Cyprus and on other grounds Christian and heathen, must be be-lee’d and calm’d By debitor and creditor: this counter-caster, He, in good time, must his lieutenant be, And I—God bless the mark!—his Moorship’s ancient.
RODERIGO
By heaven, I rather would have been his hangman.
IAGO
Why, there’s no remedy; ’tis the curse of service, Preferment goes by letter and affection, And not by old gradation, where each second Stood heir to the first. Now, sir, be judge yourself, Whether I in any just term am affined To love the Moor.
RODERIGO
I would not follow him then.
IAGO
O, sir, content you;
I follow him to serve my turn upon him: We cannot all be masters, nor all masters Cannot be truly follow’d. You shall mark Many a duteous and knee-crooking knave, That, doting on his own obsequious bondage, Wears out his time, much like his master’s ass, For nought but provender, and when he’s old, cashier’d: Whip me such honest knaves. Others there are Who, trimm’d in forms and visages of duty, Keep yet their hearts attending on themselves, And, throwing but shows of service on their lords, Do well thrive by them and when they have lined 5
their coats
Do themselves homage: these fellows have some soul; And such a one do I profess myself. For, sir, It is as sure as you are Roderigo, Were I the Moor, I would not be Iago: In following him, I follow but myself; Heaven is my judge, not I for love and duty, But seeming so, for my peculiar end: For when my outward action doth demonstrate The native act and figure of my heart In compliment extern, ’tis not long after But I will wear my heart upon my sleeve For daws to peck at: I am not what I am.
RODERIGO
What a full fortune does the thicklips owe If he can carry’t thus!
IAGO
Call up her father,
Rouse him: make after him, poison his delight, Proclaim him in the streets; incense her kinsmen, And, though he in a fertile climate dwell, Plague him with flies: though that his joy be joy, Yet throw such changes of vexation on’t, As it may lose some colour.
RODERIGO
Here is her father’s house; I’ll call aloud.
IAGO
Do, with like timorous accent and dire yell As when, by night and negligence, the fire Is spied in populous cities.
RODERIGO
6
What, ho, Brabantio! Signior Brabantio, ho!
IAGO
Awake! what, ho, Brabantio! thieves! thieves! thieves!
Look to your house, your daughter and your bags!
Thieves! thieves!
BRABANTIO appears above, at a window BRABANTIO
What is the reason of this terrible summons?
What is the matter there?
RODERIGO
Signior, is all your family within?
IAGO
Are your doors lock’d?
BRABANTIO
Why, wherefore ask you this?
IAGO
‘Zounds, sir, you’re robb’d; for shame, put on your gown;
Your heart is burst, you have lost half your soul; Even now, now, very now, an old black ram Is topping your white ewe. Arise, arise; Awake the snorting citizens with the bell, Or else the devil will make a grandsire of you: Arise, I say.
BRABANTIO
What, have you lost your wits?
7
RODERIGO
Most reverend signior, do you know my voice?
BRABANTIO
Not I what are you?
RODERIGO
My name is Roderigo.
BRABANTIO
The worser welcome:
I have charged thee not to haunt about my doors: In honest plainness thou hast heard me say My daughter is not for thee; and now, in madness, Being full of supper and distempering draughts, Upon malicious bravery, dost thou come To start my quiet.
RODERIGO
Sir, sir, sir,—
BRABANTIO
But thou must needs be sure
My spirit and my place have in them power To make this bitter to thee.
RODERIGO
Patience, good sir.
BRABANTIO
What tell’st thou me of robbing? this is Venice; My house is not a grange.
8
RODERIGO
Most grave Brabantio,
In simple and pure soul I come to you.
IAGO
‘Zounds, sir, you are one of those that will not serve God, if the devil bid you. Because we come to do you service and you think we are ruffians, you’ll have your daughter covered with a Barbary horse; you’ll have your nephews neigh to you; you’ll have coursers for cousins and gennets for germans.
BRABANTIO
What profane wretch art thou?
IAGO
I am one, sir, that comes to tell you your daughter and the Moor are now making the beast with two backs.
BRABANTIO
Thou art a villain.
IAGO
You are—a senator.
BRABANTIO
This thou shalt answer; I know thee, Roderigo.
RODERIGO
Sir, I will answer any thing. But, I beseech you, If’t be your pleasure and most wise consent, As partly I find it is, that your fair daughter, At this odd-even and dull watch o’ the night, 9
Transported, with no worse nor better guard But with a knave of common hire, a gondolier, To the gross clasps of a lascivious Moor—
If this be known to you and your allowance, We then have done you bold and saucy wrongs; But if you know not this, my manners tell me We have your wrong rebuke. Do not believe That, from the sense of all civility, I thus would play and trifle with your reverence: Your daughter, if you have not given her leave, I say again, hath made a gross revolt; Tying her duty, beauty, wit and fortunes In an extravagant and wheeling stranger Of here and every where. Straight satisfy yourself: If she be in her chamber or your house, Let loose on me the justice of the state For thus deluding you.
BRABANTIO
Strike on the tinder, ho!
Give me a taper! call up all my people!
This accident is not unlike my dream: Belief of it oppresses me already.
Light, I say! light!
Exit above
IAGO
Farewell; for I must leave you: It seems not meet, nor wholesome to my place, To be produced—as, if I stay, I shall—
Against the Moor: for, I do know, the state, However this may gall him with some cheque, Cannot with safety cast him, for he’s embark’d With such loud reason to the Cyprus wars, Which even now stand in act, that, for their souls, Another of his fathom they have none, To lead their business: in which regard, Though I do hate him as I do hell-pains.
Yet, for necessity of present life, 10
I must show out a flag and sign of love, Which is indeed but sign. That you shall surely find him, Lead to the Sagittary the raised search; And there will I be with him. So, farewell.
Exit
Enter, below, BRABANTIO, and Servants with torches BRABANTIO
It is too true an evil: gone she is; And what’s to come of my despised time Is nought but bitterness. Now, Roderigo, Where didst thou see her? O unhappy girl!
With the Moor, say’st thou? Who would be a father!
How didst thou know ’twas she? O she deceives me Past thought! What said she to you? Get more tapers: Raise all my kindred. Are they married, think you?
RODERIGO
Truly, I think they are.
BRABANTIO
O heaven! How got she out? O treason of the blood!
Fathers, from hence trust not your daughters’ minds By what you see them act. Is there not charms By which the property of youth and maidhood May be abused? Have you not read, Roderigo, Of some such thing?
RODERIGO
Yes, sir, I have indeed.
BRABANTIO
Call up my brother. O, would you had had her!
Some one way, some another. Do you know Where we may apprehend her and the Moor?
11
RODERIGO
I think I can discover him, if you please, To get good guard and go along with me.
BRABANTIO
Pray you, lead on. At every house I’ll call; I may command at most. Get weapons, ho!
And raise some special officers of night.
On, good Roderigo: I’ll deserve your pains.
Exeunt
12
SCENE II. Another street.
Enter OTHELLO, IAGO, and Attendants with torches IAGO
Though in the trade of war I have slain men, Yet do I hold it very stuff o’ the conscience To do no contrived murder: I lack iniquity Sometimes to do me service: nine or ten times I had thought to have yerk’d him here under the ribs.
OTHELLO
‘Tis better as it is.
IAGO
Nay, but he prated,
And spoke such scurvy and provoking terms Against your honour
That, with the little godliness I have, I did full hard forbear him. But, I pray you, sir, Are you fast married? Be assured of this, That the magnifico is much beloved, And hath in his effect a voice potential As double as the duke’s: he will divorce you; Or put upon you what restraint and grievance The law, with all his might to enforce it on, Will give him cable.
OTHELLO
Let him do his spite:
My services which I have done the signiory Shall out-tongue his complaints. ‘Tis yet to know,—
Which, when I know that boasting is an honour, I shall promulgate—I fetch my life and being From men of royal siege, and my demerits May speak unbonneted to as proud a fortune As this that I have reach’d: for know, Iago, 13
But that I love the gentle Desdemona, I would not my unhoused free condition Put into circumscription and confine For the sea’s worth. But, look! what lights come yond?
IAGO
Those are the raised father and his friends: You were best go in.
OTHELLO
Not I I must be found:
My parts, my title and my perfect soul Shall manifest me rightly. Is it they?
IAGO
By Janus, I think no.
Enter CASSIO, and certain Officers with torches OTHELLO
The servants of the duke, and my lieutenant.
The goodness of the night upon you, friends!
What is the news?
CASSIO
The duke does greet you, general, And he requires your haste-post-haste appearance, Even on the instant.
OTHELLO
What is the matter, think you?
CASSIO
Something from Cyprus as I may divine: It is a business of some heat: the galleys 14
Have sent a dozen sequent messengers This very night at one another’s heels, And many of the consuls, raised and met, Are at the duke’s already: you have been hotly call’d for;
When, being not at your lodging to be found, The senate hath sent about three several guests To search you out.
OTHELLO
‘Tis well I am found by you.
I will but spend a word here in the house, And go with you.
Exit
CASSIO
Ancient, what makes he here?
IAGO
‘Faith, he to-night hath boarded a land carack: If it prove lawful prize, he’s made for ever.
CASSIO
I do not understand.
IAGO
He’s married.
CASSIO
To who?
Re-enter OTHELLO
IAGO
Marry, to—Come, captain, will you go?
15
OTHELLO
Have with you.
CASSIO
Here comes another troop to seek for you.
IAGO
It is Brabantio. General, be advised; He comes to bad intent.
Enter BRABANTIO, RODERIGO, and Officers with torches and weapons
OTHELLO
Holla! stand there!
RODERIGO
Signior, it is the Moor.
BRABANTIO
Down with him, thief!
They draw on both sides
IAGO
You, Roderigo! come, sir, I am for you.
OTHELLO
Keep up your bright swords, for the dew will rust them.
Good signior, you shall more command with years Than with your weapons.
BRABANTIO
16
O thou foul thief, where hast thou stow’d my daughter?
Damn’d as thou art, thou hast enchanted her; For I’ll refer me to all things of sense, If she in chains of magic were not bound, Whether a maid so tender, fair and happy, So opposite to marriage that she shunned The wealthy curled darlings of our nation, Would ever have, to incur a general mock, Run from her guardage to the sooty bosom Of such a thing as thou, to fear, not to delight.
Judge me the world, if ’tis not gross in sense That thou hast practised on her with foul charms, Abused her delicate youth with drugs or minerals That weaken motion: I’ll have’t disputed on;
‘Tis probable and palpable to thinking.
I therefore apprehend and do attach thee For an abuser of the world, a practiser Of arts inhibited and out of warrant.
Lay hold upon him: if he do resist, Subdue him at his peril.
OTHELLO
Hold your hands,
Both you of my inclining, and the rest: Were it my cue to fight, I should have known it Without a prompter. Where will you that I go To answer this your charge?
BRABANTIO
To prison, till fit time
Of law and course of direct session Call thee to answer.
OTHELLO
What if I do obey?
How may the duke be therewith satisfied, Whose messengers are here about my side, 17
Upon some present business of the state To bring me to him?
First Officer
‘Tis true, most worthy signior; The duke’s in council and your noble self, I am sure, is sent for.
BRABANTIO
How! the duke in council!
In this time of the night! Bring him away: Mine’s not an idle cause: the duke himself, Or any of my brothers of the state, Cannot but feel this wrong as ’twere their own; For if such actions may have passage free, Bond-slaves and pagans shall our statesmen be.
Exeunt
18
SCENE III. A council-chamber.
The DUKE and Senators sitting at a table; Officers attending
DUKE OF VENICE
There is no composition in these news That gives them credit.
First Senator
Indeed, they are disproportion’d; My letters say a hundred and seven galleys.
DUKE OF VENICE
And mine, a hundred and forty.
Second Senator
And mine, two hundred:
But though they jump not on a just account,—
As in these cases, where the aim reports,
‘Tis oft with difference—yet do they all confirm A Turkish fleet, and bearing up to Cyprus.
DUKE OF VENICE
Nay, it is possible enough to judgment: I do not so secure me in the error, But the main article I do approve In fearful sense.
Sailor
[Within] What, ho! what, ho! what, ho!
First Officer
A messenger from the galleys.
19
Enter a Sailor DUKE OF VENICE
Now, what’s the business?
Sailor
The Turkish preparation makes for Rhodes; So was I bid report here to the state By Signior Angelo.
DUKE OF VENICE
How say you by this change?
First Senator
This cannot be,
By no assay of reason: ’tis a pageant, To keep us in false gaze. When we consider The importancy of Cyprus to the Turk, And let ourselves again but understand, That as it more concerns the Turk than Rhodes, So may he with more facile question bear it, For that it stands not in such warlike brace, But altogether lacks the abilities That Rhodes is dress’d in: if we make thought of this, We must not think the Turk is so unskilful To leave that latest which concerns him first, Neglecting an attempt of ease and gain, To wake and wage a danger profitless.
DUKE OF VENICE
Nay, in all confidence, he’s not for Rhodes.
First Officer
Here is more news.
Enter a Messenger
20
Messenger
The Ottomites, reverend and gracious, Steering with due course towards the isle of Rhodes, Have there injointed them with an after fleet.
First Senator
Ay, so I thought. How many, as you guess?
Messenger
Of thirty sail: and now they do restem Their backward course, bearing with frank appearance Their purposes toward Cyprus. Signior Montano, Your trusty and most valiant servitor, With his free duty recommends you thus, And prays you to believe him.
DUKE OF VENICE
‘Tis certain, then, for Cyprus.
Marcus Luccicos, is not he in town?
First Senator
He’s now in Florence.
DUKE OF VENICE
Write from us to him; post-post-haste dispatch.
First Senator
Here comes Brabantio and the valiant Moor.
Enter BRABANTIO, OTHELLO, IAGO, RODERIGO, and Officers
DUKE OF VENICE
21
Valiant Othello, we must straight employ you Against the general enemy Ottoman.
To BRABANTIO
I did not see you; welcome, gentle signior; We lack’d your counsel and your help tonight.
BRABANTIO
So did I yours. Good your grace, pardon me; Neither my place nor aught I heard of business Hath raised me from my bed, nor doth the general care Take hold on me, for my particular grief Is of so flood-gate and o’erbearing nature That it engluts and swallows other sorrows And it is still itself.
DUKE OF VENICE
Why, what’s the matter?
BRABANTIO
My daughter! O, my daughter!
DUKE OF VENICE Senator
Dead?
BRABANTIO
Ay, to me;
She is abused, stol’n from me, and corrupted By spells and medicines bought of mountebanks; For nature so preposterously to err, Being not deficient, blind, or lame of sense, Sans witchcraft could not.
DUKE OF VENICE
Whoe’er he be that in this foul proceeding Hath thus beguiled your daughter of herself 22
And you of her, the bloody book of law You shall yourself read in the bitter letter After your own sense, yea, though our proper son Stood in your action.
BRABANTIO
Humbly I thank your grace.
Here is the man, this Moor, whom now, it seems, Your special mandate for the state-affairs Hath hither brought.
DUKE OF VENICE Senator
We are very sorry for’t.
DUKE OF VENICE
[To OTHELLO] What, in your own part, can you say to this?
BRABANTIO
Nothing, but this is so.
OTHELLO
Most potent, grave, and reverend signiors, My very noble and approved good masters, That I have ta’en away this old man’s daughter, It is most true; true, I have married her: The very head and front of my offending Hath this extent, no more. Rude am I in my speech, And little bless’d with the soft phrase of peace: For since these arms of mine had seven years’ pith, Till now some nine moons wasted, they have used Their dearest action in the tented field, And little of this great world can I speak, More than pertains to feats of broil and battle, And therefore little shall I grace my cause In speaking for myself. Yet, by your gracious patience, 23
I will a round unvarnish’d tale deliver Of my whole course of love; what drugs, what charms, What conjuration and what mighty magic, For such proceeding I am charged withal, I won his daughter.
BRABANTIO
A maiden never bold;
Of spirit so still and quiet, that her motion Blush’d at herself; and she, in spite of nature, Of years, of country, credit, every thing, To fall in love with what she fear’d to look on!
It is a judgment maim’d and most imperfect That will confess perfection so could err Against all rules of nature, and must be driven To find out practises of cunning hell, Why this should be. I therefore vouch again That with some mixtures powerful o’er the blood, Or with some dram conjured to this effect, He wrought upon her.
DUKE OF VENICE
To vouch this, is no proof,
Without more wider and more overt test Than these thin habits and poor likelihoods Of modern seeming do prefer against him.
First Senator
But, Othello, speak:
Did you by indirect and forced courses Subdue and poison this young maid’s affections?
Or came it by request and such fair question As soul to soul affordeth?
OTHELLO
I do beseech you,
Send for the lady to the Sagittary, 24
And let her speak of me before her father: If you do find me foul in her report, The trust, the office I do hold of you, Not only take away, but let your sentence Even fall upon my life.
DUKE OF VENICE
Fetch Desdemona hither.
OTHELLO
Ancient, conduct them: you best know the place.
Exeunt IAGO and Attendants And, till she come, as truly as to heaven I do confess the vices of my blood, So justly to your grave ears I’ll present How I did thrive in this fair lady’s love, And she in mine.
DUKE OF VENICE
Say it, Othello.
OTHELLO
Her father loved me; oft invited me; Still question’d me the story of my life, From year to year, the battles, sieges, fortunes, That I have passed.
I ran it through, even from my boyish days, To the very moment that he bade me tell it; Wherein I spake of most disastrous chances, Of moving accidents by flood and field Of hair-breadth scapes i’ the imminent deadly breach, Of being taken by the insolent foe And sold to slavery, of my redemption thence And portance in my travels’ history: Wherein of antres vast and deserts idle, Rough quarries, rocks and hills whose heads touch heaven
25
It was my hint to speak,—such was the process; And of the Cannibals that each other eat, The Anthropophagi and men whose heads Do grow beneath their shoulders. This to hear Would Desdemona seriously incline: But still the house-affairs would draw her thence: Which ever as she could with haste dispatch, She’ld come again, and with a greedy ear Devour up my discourse: which I observing, Took once a pliant hour, and found good means To draw from her a prayer of earnest heart That I would all my pilgrimage dilate, Whereof by parcels she had something heard, But not intentively: I did consent, And often did beguile her of her tears, When I did speak of some distressful stroke That my youth suffer’d. My story being done, She gave me for my pains a world of sighs: She swore, in faith, twas strange, ’twas passing strange,
‘Twas pitiful, ’twas wondrous pitiful: She wish’d she had not heard it, yet she wish’d That heaven had made her such a man: she thank’d me, And bade me, if I had a friend that loved her, I should but teach him how to tell my story.
And that would woo her. Upon this hint I spake: She loved me for the dangers I had pass’d, And I loved her that she did pity them.
This only is the witchcraft I have used: Here comes the lady; let her witness it.
Enter DESDEMONA, IAGO, and Attendants DUKE OF VENICE
I think this tale would win my daughter too.
Good Brabantio,
Take up this mangled matter at the best: Men do their broken weapons rather use Than their bare hands.
BRABANTIO
26
I pray you, hear her speak: If she confess that she was half the wooer, Destruction on my head, if my bad blame Light on the man! Come hither, gentle mistress: Do you perceive in all this noble company Where most you owe obedience?
DESDEMONA
My noble father,
I do perceive here a divided duty: To you I am bound for life and education; My life and education both do learn me How to respect you; you are the lord of duty; I am hitherto your daughter: but here’s my husband, And so much duty as my mother show’d To you, preferring you before her father, So much I challenge that I may profess Due to the Moor my lord.
BRABANTIO
God be wi’ you! I have done.
Please it your grace, on to the state-affairs: I had rather to adopt a child than get it.
Come hither, Moor:
I here do give thee that with all my heart Which, but thou hast already, with all my heart I would keep from thee. For your sake, jewel, I am glad at soul I have no other child: For thy escape would teach me tyranny, To hang clogs on them. I have done, my lord.
DUKE OF VENICE
Let me speak like yourself, and lay a sentence, Which, as a grise or step, may help these lovers Into your favour.
When remedies are past, the griefs are ended By seeing the worst, which late on hopes depended.
To mourn a mischief that is past and gone 27
Is the next way to draw new mischief on.
What cannot be preserved when fortune takes Patience her injury a mockery makes.
The robb’d that smiles steals something from the thief; He robs himself that spends a bootless grief.
BRABANTIO
So let the Turk of Cyprus us beguile; We lose it not, so long as we can smile.
He bears the sentence well that nothing bears But the free comfort which from thence he hears, But he bears both the sentence and the sorrow That, to pay grief, must of poor patience borrow.
These sentences, to sugar, or to gall, Being strong on both sides, are equivocal: But words are words; I never yet did hear That the bruised heart was pierced through the ear.
I humbly beseech you, proceed to the affairs of state.
DUKE OF VENICE
The Turk with a most mighty preparation makes for Cyprus. Othello, the fortitude of the place is best known to you; and though we have there a substitute of most allowed sufficiency, yet opinion, a sovereign mistress of effects, throws a more safer voice on you: you must therefore be content to slubber the gloss of your new fortunes with this more stubborn and boisterous expedition.
OTHELLO
The tyrant custom, most grave senators, Hath made the flinty and steel couch of war My thrice-driven bed of down: I do agnise A natural and prompt alacrity
I find in hardness, and do undertake These present wars against the Ottomites.
Most humbly therefore bending to your state, I crave fit disposition for my wife.
28
Due reference of place and exhibition, With such accommodation and besort As levels with her breeding.
DUKE OF VENICE
If you please,
Be’t at her father’s.
BRABANTIO
I’ll not have it so.
OTHELLO
Nor I.
DESDEMONA
Nor I; I would not there reside, To put my father in impatient thoughts By being in his eye. Most gracious duke, To my unfolding lend your prosperous ear; And let me find a charter in your voice, To assist my simpleness.
DUKE OF VENICE
What would You, Desdemona?
DESDEMONA
That I did love the Moor to live with him, My downright violence and storm of fortunes May trumpet to the world: my heart’s subdued Even to the very quality of my lord: I saw Othello’s visage in his mind, And to his honour and his valiant parts Did I my soul and fortunes consecrate.
So that, dear lords, if I be left behind, A moth of peace, and he go to the war, 29
The rites for which I love him are bereft me, And I a heavy interim shall support By his dear absence. Let me go with him.
OTHELLO
Let her have your voices.
Vouch with me, heaven, I therefore beg it not, To please the palate of my appetite, Nor to comply with heat—the young affects In me defunct—and proper satisfaction.
But to be free and bounteous to her mind: And heaven defend your good souls, that you think I will your serious and great business scant For she is with me: no, when light-wing’d toys Of feather’d Cupid seal with wanton dullness My speculative and officed instruments, That my disports corrupt and taint my business, Let housewives make a skillet of my helm, And all indign and base adversities Make head against my estimation!
DUKE OF VENICE
Be it as you shall privately determine, Either for her stay or going: the affair cries haste, And speed must answer it.
First Senator
You must away to-night.
OTHELLO
With all my heart.
DUKE OF VENICE
At nine i’ the morning here we’ll meet again.
Othello, leave some officer behind, And he shall our commission bring to you; 30
With such things else of quality and respect As doth import you.
OTHELLO
So please your grace, my ancient; A man he is of honest and trust: To his conveyance I assign my wife, With what else needful your good grace shall think To be sent after me.
DUKE OF VENICE
Let it be so.
Good night to every one.
To BRABANTIO
And, noble signior,
If virtue no delighted beauty lack, Your son-in-law is far more fair than black.
First Senator
Adieu, brave Moor, use Desdemona well.
BRABANTIO
Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: She has deceived her father, and may thee.
Exeunt DUKE OF VENICE, Senators, Officers, & c OTHELLO
My life upon her faith! Honest Iago, My Desdemona must I leave to thee: I prithee, let thy wife attend on her: And bring them after in the best advantage.
Come, Desdemona: I have but an hour Of love, of worldly matters and direction, To spend with thee: we must obey the time.
Exeunt OTHELLO and DESDEMONA 31
RODERIGO
Iago,—
IAGO
What say’st thou, noble heart?
RODERIGO
What will I do, thinkest thou?
IAGO
Why, go to bed, and sleep.
RODERIGO
I will incontinently drown myself.
IAGO
If thou dost, I shall never love thee after. Why, thou silly gentleman!
RODERIGO
It is silliness to live when to live is torment; and then have we a prescription to die when death is our physician.
IAGO
O villainous! I have looked upon the world for four times seven years; and since I could distinguish betwixt a benefit and an injury, I never found man that knew how to love himself. Ere I would say, I would drown myself for the love of a guinea-hen, I would change my humanity with a baboon.
RODERIGO
32
What should I do? I confess it is my shame to be so fond; but it is not in my virtue to amend it.
IAGO
Virtue! a fig! ’tis in ourselves that we are thus or thus. Our bodies are our gardens, to the which our wills are gardeners: so that if we will plant nettles, or sow lettuce, set hyssop and weed up thyme, supply it with one gender of herbs, or distract it with many, either to have it sterile with idleness, or manured with industry, why, the power and corrigible authority of this lies in our wills. If the balance of our lives had not one scale of reason to poise another of sensuality, the blood and baseness of our natures would conduct us to most preposterous conclusions: but we have reason to cool our raging motions, our carnal stings, our unbitted lusts, whereof I take this that you call love to be a sect or scion.
RODERIGO
It cannot be.
IAGO
It is merely a lust of the blood and a permission of the will. Come, be a man. Drown thyself! drown cats and blind puppies. I have professed me thy friend and I confess me knit to thy deserving with cables of perdurable toughness; I could never better stead thee than now. Put money in thy purse; follow thou the wars; defeat thy favour with an usurped beard; I say, put money in thy purse. It cannot be that Desdemona should long continue her love to the Moor,— put money in thy purse,—nor he his to her: it was a violent commencement, and thou shalt see an answerable sequestration:—put but money in thy purse. These Moors are changeable in their wills: fill thy purse with money:—the food 33
that to him now is as luscious as locusts, shall be to him shortly as bitter as coloquintida. She must change for youth: when she is sated with his body, she will find the error of her choice: she must have change, she must: therefore put money in thy purse. If thou wilt needs damn thyself, do it a more delicate way than drowning. Make all the money thou canst: if sanctimony and a frail vow betwixt an erring barbarian and a supersubtle Venetian not too hard for my wits and all the tribe of hell, thou shalt enjoy her; therefore make money. A pox of drowning thyself! it is clean out of the way: seek thou rather to be hanged in compassing thy joy than to be drowned and go without her.
RODERIGO
Wilt thou be fast to my hopes, if I depend on the issue?
IAGO
Thou art sure of me:—go, make money:—I have told thee often, and I re-tell thee again and again, I hate the Moor: my cause is hearted; thine hath no less reason. Let us be conjunctive in our revenge against him: if thou canst cuckold him, thou dost thyself a pleasure, me a sport. There are many events in the womb of time which will be delivered.
Traverse! go, provide thy money. We will have more of this to-morrow. Adieu.
RODERIGO
Where shall we meet i’ the morning?
IAGO
At my lodging.
RODERIGO
34
I’ll be with thee betimes.
IAGO
Go to; farewell. Do you hear, Roderigo?
RODERIGO
What say you?
IAGO
No more of drowning, do you hear?
RODERIGO
I am changed: I’ll go sell all my land.
Exit
IAGO
Thus do I ever make my fool my purse: For I mine own gain’d knowledge should profane, If I would time expend with such a snipe.
But for my sport and profit. I hate the Moor: And it is thought abroad, that ‘twixt my sheets He has done my office: I know not if’t be true; But I, for mere suspicion in that kind, Will do as if for surety. He holds me well; The better shall my purpose work on him.
Cassio’s a proper man: let me see now: To get his place and to plume up my will In double knavery—How, how? Let’s see:—
After some time, to abuse Othello’s ear That he is too familiar with his wife.
He hath a person and a smooth dispose To be suspected, framed to make women false.
The Moor is of a free and open nature, That thinks men honest that but seem to be so, And will as tenderly be led by the nose As asses are.
35
I have’t. It is engender’d. Hell and night Must bring this monstrous birth to the world’s light.
Exit
36
Act II
SCENE I. A Sea-port in Cyprus. An open place near the quay.
Enter MONTANO and two Gentlemen MONTANO
What from the cape can you discern at sea?
First Gentleman
Nothing at all: it is a highwrought flood; I cannot, ‘twixt the heaven and the main, Descry a sail.
MONTANO
Methinks the wind hath spoke aloud at land; A fuller blast ne’er shook our battlements: If it hath ruffian’d so upon the sea, What ribs of oak, when mountains melt on them, Can hold the mortise? What shall we hear of this?
Second Gentleman
A segregation of the Turkish fleet: For do but stand upon the foaming shore, The chidden billow seems to pelt the clouds; The wind-shaked surge, with high and monstrous mane, seems to cast water on the burning bear, And quench the guards of the ever-fixed pole: I never did like molestation view On the enchafed flood.
MONTANO
If that the Turkish fleet
Be not enshelter’d and embay’d, they are drown’d: It is impossible they bear it out.
37
Enter a third Gentleman Third Gentleman
News, lads! our wars are done.
The desperate tempest hath so bang’d the Turks, That their designment halts: a noble ship of Venice Hath seen a grievous wreck and sufferance On most part of their fleet.
MONTANO
How! is this true?
Third Gentleman
The ship is here put in,
A Veronesa; Michael Cassio,
Lieutenant to the warlike Moor Othello, Is come on shore: the Moor himself at sea, And is in full commission here for Cyprus.
MONTANO
I am glad on’t; ’tis a worthy governor.
Third Gentleman
But this same Cassio, though he speak of comfort Touching the Turkish loss, yet he looks sadly, And prays the Moor be safe; for they were parted With foul and violent tempest.
MONTANO
Pray heavens he be;
For I have served him, and the man commands Like a full soldier. Let’s to the seaside, ho!
As well to see the vessel that’s come in As to throw out our eyes for brave Othello, 38
Even till we make the main and the aerial blue An indistinct regard.
Third Gentleman
Come, let’s do so:
For every minute is expectancy Of more arrivance.
Enter CASSIO
CASSIO
Thanks, you the valiant of this warlike isle, That so approve the Moor! O, let the heavens Give him defence against the elements, For I have lost us him on a dangerous sea.
MONTANO
Is he well shipp’d?
CASSIO
His bark is stoutly timber’d, his pilot Of very expert and approved allowance; Therefore my hopes, not surfeited to death, Stand in bold cure.
A cry within ‘A sail, a sail, a sail!’
Enter a fourth Gentleman
CASSIO
What noise?
Fourth Gentleman
The town is empty; on the brow o’ the sea Stand ranks of people, and they cry ‘A sail!’
CASSIO
39
My hopes do shape him for the governor.
Guns heard
Second Gentlemen
They do discharge their shot of courtesy: Our friends at least.
CASSIO
I pray you, sir, go forth,
And give us truth who ’tis that is arrived.
Second Gentleman
I shall.
Exit
MONTANO
But, good lieutenant, is your general wived?
CASSIO
Most fortunately: he hath achieved a maid That paragons description and wild fame; One that excels the quirks of blazoning pens, And in the essential vesture of creation Does tire the ingener.
Re-enter second Gentleman
How now! who has put in?
Second Gentleman
‘Tis one Iago, ancient to the general.
CASSIO
Has had most favourable and happy speed: Tempests themselves, high seas, and howling winds, The gutter’d rocks and congregated sands—
40
Document Outline
Act I SCENE I. Venice. A street.
SCENE II. Another street.
SCENE III. A council-chamber.
Act II SCENE I. A Sea-port in Cyprus. An open place near the quay.

Summa En TPJ Level


THE “SUMMA THEOLOGIGA”

FIRST PART OF THE SECOND PART.

PROLOGUE.

Since, as Damascene states [De Fide Orthod. ii.), man is said
to be made to God’s image, in so far as the image implies an
intelligent being endowed with free-will and self-movement :
now that we have treated of the exemplar, i.e., God, and of
those things which come forth from the power of God in
accordance with His will; it remains for us to treat of His
image, i.e., man, inasmuch as he too is the principle of his
actions, as having free-will and control of his actions.

QUESTION I.

OF MAN’S LAST END.
{In Eight Articles.)

In this matter we shall consider first the last end of human
life ; and secondly, those things by means of which man may
adv
ance towards this end, or stray from the path: for the
end is the rule of whatever is ordained to the end. And
since the last end of human life is stated to be happiness, we
must consider (i) the last end in general; (2) Happiness.

Concerning the iirst there are eight points of inquiry:
(i) Whether it is fitting for man to act for an end ? (2)
Whether this is proper to the rational nature ? (3) Whether
a man’s actions are specified by their end ? (4) Whether
there is any last end of human life ? (5) Whether one man
can have several last ends ? (6) Whether man ordains all

II. I I

2 QUESTION I

to the last end ? (7) Whether all men have the same last
end ? (8) Whether all other creatures concur with man in
that last end ?

First Article,
whether it is fitting for man to act for an end ?

We proceed thus to the First Article : —

Objection 1. It seems unfitting for man to act for an end.
For a cause is naturally first. But an end, in its very name,
implies something that is last. Therefore an end is not a
cause. But that for which a man acts, is the cause of his
action; since this preposition for indicates a relation of
causality. Therefore it is not fitting for man to act for an
end.

Obj. 2. Further, that which is itself the last end is not for
an end. But in some cases the last end is an action, as the
Philosopher states {Ethic, i.). Therefore man does not do
everything for an end.

Obj. 3. Further, then does a man seem to act for an end,
when he acts deliberately. But man does many things
without deliberation, sometimes not even thinking of what
he is doing; for instance when one moves one’s foot or hand,
or scratches one’s beard, while intent on something else.
Therefore man does not do everything for an end.

On the contrary, All things contained in a genus are
derived from the principle of that genus. Now the end is
the principle in human operations, as the Philosopher states
[Phys. ii.). Therefore it is fitting for man to do everything
for an end.

/ answer that, Of actions done by man those alone are
properly called human, which are proper to man as man.
Now man differs from irrational animals in this, that he is
master of his actions. Wherefore those actions alone are
properly called human, of which man is master. Now man
is master of his actions through his reason and will ; whence,
too, the free-will is called the faculty of will and reason.
Therefore those actions are properly called human, which
proceed from a deliberate will. And if any other actions

MAN’S LAST END 3

befit man, they can be called actions of a man, but not
properly human actions, since they are not proper to man as
man. — Now it is clear that whatever actions proceed from a
power, are caused by that power in accordance with the nature
of its object. But the object of the will is the end and the
good. Therefore all human actions must be for an end.

Rej)ly Ohj. i. Although the end be last in the order of
execution, yet it is first in the order of the agent’s intention.
And it is in this way that it is a cause.

Reply Ohj. 2. If any human action be the last end, it must
be voluntary, else it would not be human, as stated above.
Now an action is voluntary in one of two ways : first, because
it is commanded by the will, e.g., to walk, or to speak;
secondly, because it is elicited by the will, for instance the
very act of willing. Now it is impossible for the very act
elicited by the will to be the last end. For the object of
the will is the end, just as the object of sight is colour:
wherefore just as the first visible cannot be the act of seeing,
because every act of seeing is directed to a visible object;
so the first appetible, i.e., the end, cannot be the very act
of willing. Consequently it follows that if a human action
be the last end, it must be an action commanded by the will :
so that there, some action of man, at least the act of willing,
is for the end. Therefore whatever a man does, it is true
to say that man acts for an end, even when he does that
action in which the last end consists.

Reply Ohj. 3. Such like actions are not properly human
actions; since they do not proceed from deliberation of the
reason, which is the proper principle of human actions.
Therefore they have indeed an imaginary end, but not one
that is fixed by reason.

QUESTION I

Second Article.

whether it is proper to the rational nature
to act for an end ?

We proceed thus to the Second Article : —

Objection i. It seems that it is proper to the rational nature
to act for an end. For man, whom it befits to act for an end,
never acts for an unknown end. On the other hand, there
are many things that have no knowledge of an end; either
because they are altogether without knowledge, as insensible
creatures : or because they do not apprehend the idea of an
end as such, as irrational animals. Therefore it seems
proper to the rational nature to act for an end.

Obj. 2. Further, to act for an end is to order one’s action to
an end. But this is the work of reason. Therefore it does
not befit things that lack reason.

Obj. 3. Further, the good and the end is the object of the
will. But the will is in the reason {De Anima iii.). There-
fore to act for an end belongs to none but a rational nature.

On the contrary, The Philosopher proves [Phys. ii.) that
not only mind but also nature acts for an end.

I answer that, Every agent, of necessity, acts for an end.
For if, in a number of causes ordained to one another, the
first be removed, the others must, of necessity, be removed
also. Now the first of all causes is the final cause. The
reason of which is that matter does not receive form, save
in so far as it is moved by an agent ; for nothing reduces itself
from potentiality to act. But an agent does not move
except out of intention for an end. For if the agent were
not determinate to some particular effect, it would not do
one thing rather than another: consequently in order that
it produce a determinate effect, it must, of necessity, be
determined to some certain one, which has the nature of an
end. And just as this determination is effected, in the
rational nature, by the rational appetite, which is called the
will ; so, in other things, it is caused by their natural inclina-
tion, which is called the natural appetite.

MAN’S LAST END 5

Nevertheless it must be observed that a thing tends to an
end, by its own action or movement, in two ways : first, as it
were, moving itself to the end, — as man ; secondly, as though
moved by another to the end, as an arrow tends to a deter-
minate end through being moved by the archer, who directs
his action to the end. Therefore those things that are
possessed of reason, move themselves to an end; because
they have dominion over their actions, through their free-
will which is tlie faculty of will and reason. But those things
that lack reason tend to an end, by natural inclination, as
though moved by another and not by themselves; since they
do not know the nature of an end as such, and consequently
cannot ordain anything to an end, but can be ordained to
an end, only by another. For the entire irrational nature
is in comparison to God as an instrument to the principal
agent, as stated above (L Q. XXII., A. 2 ad ^\ Q. CIIL,
A. I ^i 3). Consequently it is proper to the rational nature
to tend to an end, as though directing (agens) and leading
itself to the end : whereas it is proper to the irrational nature
to tend to an end, as directed or led by another, whether it
apprehend the end, as do irrational animals, or do not
apprehend it, as is the case of those which are altogether
void of knowledge.

Reply Obf. i. When man of himself acts for an end, he
knows the end: but when he is directed or led by another,
for instance, when he acts at another’s command, or when
he is moved under another’s compulsion, it is not necessary
that he should know the end. And it is thus with irrational
creatures.

Reply Ohj. 2. To ordain towards an end belongs to that
which directs itself to an end : whereas to be ordained to an
end belongs to that which is directed by another to an end.
And this can belong to an irrational nature, but owing to
some one possessed of reason.

Reply Ohj. 3. The object of the will is the end and the good
in universal. Consequently there can be no will in those
things that lack reason and intellect, since they cannot
apprehend the universal; but they have a natural appetite

6 QUESTION I

or a sensitive appetite, determinate to some particular good.
Now it is clear that particular causes are moved by a uni-
versal cause: thus the governor of a city, who intends the
common good, moves, by his command, all the particular
departments of the city. Consequently all things that lack
reason are, of necessity, moved to their particular ends by
some rational will which extends to the universal good,
namely by the Divine will.

Third Article,
whether human acts are specified by their end ?

We proceed thus to the Third Article : —

Objection i. It seems that human acts are not specified by
their end. For the end is an extrinsic cause. But every-
thing is specified by an intrinsic principle. Therefore human
acts are not specified by their end.

Ohj. 2. Further, that which gives a thing its species should
exist before it. But the end comes into existence after-
wards. Therefore a human act does not derive its species
from the end.

Ohj. 3. Further, one thing cannot be in more than one
species. But one and the same act may happen to be
ordained to various ends. Therefore the end does not give
the species to human acts.

On the contrary, Augustine says [De Mor. Eccl. et Manich.
ii.) : According as their end is worthy of blame or fraise, so are
our deeds worthy of blame or praise.

I answer that, Each thing receives its species in respect
of an act and not in respect of potentiality; wherefore
things composed of matter and form are established in
their respective species by their own forms. And this is
also to be observed in proper movements. For since move-
ments are, in a way, divided into action and passion, each
of these receives its species from an act ; action indeed from
the act which is the principle of acting, and passion from the
act which is the terminus of the movement. Wherefore
heating, as an action, is nothing else than a certain move-

MAN’S LAST END 7

ment proceeding from heat, while heating as a passion is
nothing else than a movement towards heat: and it is the
definition that shows the specific nature. And either way,
human acts, whether they be considered as actions, or as
passions, receive their species from the end. For human
acts can be considered in both ways, since man moves him-
self, and is moved by himself. Now it has been stated above
(A. i) that acts are called human, inasmuch as they proceed
from a deliberate will. Now the object of the will is the
good and the end. And hence it is clear that the principle
of human acts, in so far as they are human, is the end. In
like manner it is their terminus : for the human act terminates
at that which the will intends as the end; thus in natural
agents the form of the thing generated is conformed to the
form of the generator. And since, as Ambrose says [Prolog,
super Luc.) morality is said properly of man, moral acts
properly speaking receive their species from the end, for
moral acts are the same as human acts.

Reply Ohj. i. The end is not altogether extrinsic to the
act, because it is related to the act as principle or terminus;
and it is just this that is essential to an act, viz., to proceed
from something, considered as action, and to proceed
towards something, considered as passion.

Reply Ohj. 2. The end, in so far as it pre-exists in the
intention, pertains to the will, as stated above (A. 1. ad 1).
And it is thus that it gives the species to the human or moral
act.

Reply Ohj. 3. One and the same act, in so far as it proceeds
once from the agent, is ordained to but one proximate end,
from which it has its species: but it can be ordained to
several remote ends, of which one is the end of the other.
It is possible, however, that an act which is one in respect of
its natural species, be ordained to several ends of the will:
thus this act to kill a man, which is but one act in respect of
its natural species, can be ordained, as to an end, to the safe-
guarding of justice, and to the satisfying of anger: the result
being that there would be several acts in different species of
morality : since in one way there will be an act of virtue, in

8 QUESTION I

another, an act of vice. For a movement does not receive
its species from that which is its terminus accidentally, but
only from that which is its per se terminus. Now moral ends
are accidental to a natural thing, and conversely the relation
to a natural end is accidental to morality. Consequently
there is no reason why acts which are the same considered
in their natural species, should not be diverse, considered in
their moral species, and conversely.

Fourth Article,
whether there is one last end of human life ?

We proceed thus to the Fourth Article : —

Objection i. It seems that there is no last end of human
life, but that we proceed to infinity. For good is essentially
diffusive, as Dionysius states (Div. Norn. iv.). Conse-
quently if that which proceeds from good is itself good, the
latter must needs diffuse some other good: so that the
diffusion of good goes on indefinitely. But good has the
nature of an end. Therefore there is an indefinite series of
ends.

6b j. 2. Further, things pertaining to the reason can be
multiplied to infinity : thus mathematical quantities have no
Hmit. For the same reason the species of numbers are in-
finite, since, given any number, the reason can think of
one yet greater. But desire of the end is consequent on the
apprehension of the reason. Therefore it seems that there
is also an infinite series of ends.

Obj. 3. Further, the good and the end is the object of the
will. But the will can react on itself an infinite number of
times : for I can will something, and will to will it, and so on
indefinitely. Therefore there is an infinite series of ends
of the human will, and there is no last end of the human will.

On the contrary, The Philosopher says [Metaph. ii.) that
to suppose a thing to be indefinite is to deny that it is good.
But the good is that which has the nature of an end. There-
fore it is contrary to the nature of an end to proceed in-
definitely. Therefore it is necessary to fix one last end.

MAN’S LAST END Q

/ answer that, Absolutely speaking, it is not possible to
proceed indefinitely in the matter of ends, from any point
of view. For in whatsoever things there is an essential
order of one to another, if the first be removed, those that
are ordained to the first, must of necessity be removed also.
Wherefore the Philosopher proves (Phys. viii.) that we
cannot proceed to infinitude in causes of movement, because
then there would be no first mover, without which neither
can the others move, since they move only through being
moved by the first mover. Now there is to be observed
a twofold order in ends, — the order of intention, and the
order of execution : and in either of these orders there must
be something first. For that which is first in the order of
intention, is the principle, as it were, moving the appetite;
consequently, if you remove this principle, there will be
nothing to move the appetite. On the other hand, the
principle in execution is that wherein operation has its
beginning; and if this principle be taken away, no one will
begin to work. Now the principle in the intention is the
last end; while the principle in execution is the first of the
things which are ordained to the end. Consequently, on
neither side is it possible to go on to infinity; since if there
were no last end, nothing would be desired, nor would any
action have its term, nor would the intention of the agent
be at rest ; while if there is no first thing among those that
are ordained to the end, none would begin to work at any-
thing, and counsel would have no term, but would con-
tinue indefinitely.

On the other hand, nothing hinders infinity from being
in things that are ordained to one another not essentially
but accidentally; for accidental causes are indeterminate.
And in this way it happens that there is an accidental
infinity of ends, and of things ordained to the end.

Reply Ohj. i. The very nature of good is that some-
thing flows from it, but not that it flows from something else.
Since, therefore, good has the nature of end, and the first
good is the last end, this argument does not prove that
there is no last end; but that from the end, already sup-

10 QUESTION I

posed, we may proceed downwards indefinitely towards those
things that are ordained to the end. And this would be
true if we considered but the power of the First Good, which
is infinite. But, since the First Good diffuses itself accord-
ing to the intellect, to which it is proper to flow forth into
its effects according to a certain fixed form; it follows that
there is a certain measure to the flow of good things from
the First Good from Which all other goods share the power
of diffusion. Consequently the diffusion of good does not
proceed indefinitely, but, as it is written (Wisd. xi. 21),
God disposes all things in number, weight and measure.

Reply Ohj. 2. In things which are of themselves, reason
begins from principles that are known naturally, and
advances to some term. Wherefore the Philosopher proves
[Poster, i.) that there is no infinite process in demonstrations,
because there we find a process of things having an essential,
not an accidental, connection with one another. But in
those things which are accidentally connected, nothing
hinders the reason from proceeding indefinitely. Now it is
accidental to a stated quantity or number, as such, that
quantity or unity be added to it. Wherefore in suchlike
things nothing hinders the reason from an indefinite process.

Reply Ohj. 3. This multiplication of acts of the will
reacting on itself, is accidental to the order of ends. This
is clear from the fact that in regard to one and the same
end, the will reacts on itself indifferently once or several
times

We proceed thus to the Fifth Article : —

Objection i. It seems possible for one man’s will to be
directed at the same time to several things, as last ends.
For Augustine says (De Civ. Dei. xix.) that some held man’s
last end to consist in four things, viz., in pleasure, repose,
the gifts of nature, and virtue. But these are clearly more
than one thing. Therefore one man can place the last end
of his wiU in many things.

MAN’S LAST END ii

Obj. 2. Further, things not in opposition to one another
do not exclude one another. Now there are many things
which are not in opposition to one another. Therefore the
supposition that one thing is the last end of the will does
not exclude others.

Obj. 3. Further, by the fact that it places its last end in
one thing, the will does not lose its freedom. But before it
placed its last end in that thing, e.g., pleasure, it could
place it in something else, e.g., riches. Therefore even after
having placed his last end in pleasure, a man can at the
same time place his last end in riches. Therefore it is
possible for one man’s will to be directed at the same time
to several things, as last ends.

On the contrary, That in which a man rests as in his last
end, is master of his affections, since he takes therefrom his
entire rule of life. Hence of gluttons it is written (Phil,
iii. 19) : Whose god is their belly : viz., because they place
their last end in the pleasures of the belly. Now according
to Matth. vi. 24, No man can serve two masters, such, namely,
as are not ordained to one another. Therefore it is im-
possible for one man to have several last ends not ordained
to one another.

/ answer that, It is impossible for one man’s will to be
directed at the same time to diverse things, as last ends.
Three reasons may be assigned for this. First, because, since
everything desires its own perfection, a man desires for
his ultimate end, that which he desires as his perfect and
crowning good. Hence Augustine says {De Civ. Dei. xix.) :
In sfeaking of the end of good we mean now, not that it passes
away so as to be no more, but that it is perfected so as to be
complete. It is therefore necessary for the last end so to fill
man’s appetite, that nothing is left beside it for man to desire.
Which is not possible, if something else be required for his
perfection. Consequently it is not possible for the appetite
so to tend to two things, as though each were its perfect good.

The second reason is because, just as in the process of
reasoning, the principle is that which is naturally known, so
in the process of the rational appetite, i.e., the will, the

12 QUESTION I

principle needs to be that which is naturally desired. Now
this must needs be one: since nature tends to one thing
only. But the principle in the process of the rational appe-
tite is the last end. Therefore that to which the will tends,
as to its last end, is one.

The third reason is because, since voluntary actions
receive their species from the end, as stated above (A. 3),
they must needs receive their genus from the last end, which
is common to them all: just as natural things are placed
in a genus according to a common form. Since, then, all
things that can be desired by the will, belong, as such, to
one genus, the last end must needs be one. And all the
more because in every genus there is one first principle; and
the last end has the nature of a first principle, as stated
above. Now as the last end of man, simply as man, is to
the whole human race, so is the last end of any individual
man to that individual. Therefore, just as of all men there
is naturally one last end, so the will of an individual man
must be fixed on one last end.

Reply Ohj. i. All these several objects were considered as
one perfect good resulting therefrom, by those who placed
in them the last end.

Reply Ohj. 2. Although it is possible to find several things
which are not in opposition to one another, yet it is con-
trary to a thing’s perfect good, that anything besides, be
required for that thing’s perfection.

Reply Ohj. 3. The power of the will does not extend to
making opposites exist at the same time. Which would
be the case were it to tend to several diverse objects as
last ends, as has been shown above [ad 2) .

Sixth Article.

WHETHER MAN WILLS ALL, WHATSOEVER HE WILLS, FOR THE

LAST END ?

We proceed thus to the Sixth Article : —
Ohjection i. It seems that man does not wih all, what-
soever he wills, for the last end. For things ordained to the

MAN’S LAST END 13

last end are said to be serious matter, as being useful. But
jests are foreign to serious matter. Therefore what man
does in jest, he ordains not to the last end.

Obj. 2. Further, the Philosopher says at the beginning
of his Metaphysics (ii.) that speculative science is sought
for its own sake. Now it cannot be said that each specu-
lative science is the last end. Therefore man does not
desire all, whatsoever he desires, for the last end.

Obj. 3. Further, whoever ordains something to an end,
thinks of that end. But man does not always think of the
last end in all that he desires or does. Therefore man
neither desires nor does all for the last end.

On the contrary, Augustine says {De Civ. Dei. xix.) : That
is the end of our good, for the sake of which we love other
things, whereas we love it for its own sake.

I answer that, Man must, of necessity, desire all, whatso-
ever he desires, for the last end. This is evident for
two reasons. First, because whatever man desires, he
desires it under the aspect of good. And if he desire it, not
as his perfect good, which is the last end, he must, of
necessity, desire it as tending to the perfect good, because
the beginning of anything is always ordained to its com-
pletion; as is clearly the case in effects both of nature and
of art. Wherefore every beginning of perfection is ordained
to complete perfection which is achieved through the last
end. Secondly, because the last end stands in the same
relation in moving the appetite, as the first mover in other
movements. Now it is clear that secondary moving
causes do not move save inasmuch as they are moved
by the first mover. Therefore secondary objects of
the appetite do not move the appetite, except as
ordained to the first object of the appetite, which is the
last end.

Reply Obj. i. Actions done jestingly are not directed to
any external end; but merely to the good of the jester, in
so far as they afford him pleasure or relaxation. But man’s
consummate good is his last end.

Reply Obj. 2. The same applies to speculative science;

14 QUESTION I

which is desired as the scientist’s good, included in com-
plete and perfect good, which is the ultimate end.

Reply Ohj. 3. One need not always be thinking of the
last end, whenever one desires or does something: but the
virtue of the first intention, which was in respect of the
last end, remains in every desire directed to any object
whatever, even though one’s thoughts be not actually
directed to the last end. Thus while walking along the
road one needs not to be thinking of the end at every step.

Seventh Article,
whether all men have the same last end ?

We proceed thus to the Seventh A rticle : —

Objection i. It seems that all men have not the same
last end. For before all else the unchangeable good seems
to be the last end of man. But some turn away from the
unchangeable good, by sinning. Therefore all men have
not the same last end.

Ohj. 2. Further, man’s entire life is ruled according to
his last end. If, therefore, all men had the same last end,
they would not have various pursuits in life. Which is
evidently false.

Ohj. 3. Further, the end is the term of action. But actions
are of individuals. Now although men agree in their specific
nature, yet they differ in things pertaining to individuals.
Therefore all men have not the same last end.
On the contrary, Augustine says {De Trin. xiii.) that all
men agree in desiring the last end, which is happiness.

/ answer that, We can speak of the last end in two ways :
first, considering only the aspect of last end; secondly,
considering the thing in which the aspect of last end is
realized. So, then, as to the aspect of last end, all agree
in desiring the last end: since all desire the fulfilment of
their perfection, and it is precisely this fulfilment in which
the last end consists, as stated above (A. 5). But as to the
thing in which this aspect is realized, all men are not agreed
as to their last end: since some desire riches, as their con-

MAN’S LAST END 15

summate good; some, pleasure; others, something else.
Thus to every taste the sweet is pleasant; but to some,
the sweetness of wine is most pleasant, to others, the
sweetness of honey, or of something similar. Yet that
sweet is absolutely the best of all pleasant things, in
which he who has the best taste takes most pleasure. In
like manner that good is most complete which the man
with well-disposed affections desires for his last end.

Rej)ly Ohj. i. Those who sin turn from that in which their
last end really consists: but they do not turn away from
the intention of the last end, which intention they mistakenly
seek in other things.

Rej)ly Ohj. 2. Various pursuits in life are found among
men by reason of the various things in which men seek to
find their last end.

Refly Ohj. 3. Although actions are of individuals, yet
their first principle of action is nature, which tends to one
thing, as stated above (A. 5) .

Eighth Article,
whether other creatures concur in that last end ?

We proceed thus to the Eighth Article : —

Ohjection i. It seems that all other creatures concur in
man’s last end. For the end corresponds to the beginning.
But man’s beginning — i.e., God — is also the beginning of all
else. Therefore all other things concur in man’s last end.

Ohj. 2. Further, Dionysius says {Div. Nom. iv.) that God
turns all things to Himself as to their last end. But He is
also man’s last end; because He alone is to be enjoyed by
man, as Augustine says (De Doctr. Christ, i.). Therefore
other things, too, concur in man’s last end.

Ohj. 3. Further, man’s last end is the object of the will.
But the object of the will is the universal good, which is
the end of all. Therefore all must needs concur in man’s
last end.

On the contrary, man’s last end is happiness; which all
men desire, as Augustine says {De Trin. xiii.). But happi-

i6 QUESTION I

ness is not possible for animals bereft of reason, as Augustine
says (Qq. 83). Therefore other things do not concur in
man’s last end.

/ answer that, As the Philosopher says {Phys. ii. and
Metaph. v.), the end is twofold, — the end /or which and the
end by which ; viz., the thing itself in which is found the
aspect of good, and the use or acquisition of that thing.
Thus we say that the end of the movement of a weighty
body is either a lower place as thing, or to be in a lower
place, as use ; and the end of the miser is money as thing,
or possession of money as use.

If, therefore, we speak of man’s last end as of the thing
which is the end, thus all other things concur in man’s last
end, since God is the last end of man and of all other things.
— If^ however, we speak of man’s last end, as of the acquisi-
tion of the end, then irrational creatures do not concur with
man in this end. For man and other rational creatures
attain to their last end by knowing and loving God: this
is not possible to other creatures, which acquire their last
end, in so far as they share in the Divine likeness, inasmuch
as they are, or live, or even know.

Hence it is evident how the objections are. solved: since
happiness means the acquisition of the last end.

. ^”Wi» i 35!y.g 5-‘^

QUESTION II.

OF THOSE THINGS IN WHICH MAN^S HAPPINESS CONSISTS.

[In Eight Articles.)

We have now to consider happiness: and (i) in what it
consists; (2) what it is; (3) how we can obtain it.

Concerning the first there are eight points of inquiry:
(i) Whether happiness consists in wealth ? (2) Whether in
honour ? (3) Whether in fame or glory ? (4) Whether in
power ? (5) Whether in any good of the body ? (6) Whether
in pleasure ? (7) Whether in any good of the soul ?
(8) Whether in any created good ?

First Article.

WHETHER man’s HAPPINESS CONSISTS IN WEALTH ?

We proceed thus to the First Article : —

Objection i. It seems that man’s happiness consists in
wealth. For since happiness is man’s last end, it must
consist in that which has the greatest hold on man’s affec-
tions. Now this is wealth: for it is written (Eccles. x. 19) :
All things obey money. Therefore man’s happiness consists
in wealth.

Obj. 2. Further, according to Boethius {De Consol. iii.),
happiness is a state of life made perfect by the aggregate of all
good things. Now money seems to be the means of possessing
all things: for, as the Philosopher says {Ethic, v.), money was
invented, that it might be a sort of guarantee for the
acquisition of whatever man desires. Therefore happiness
consists in wealth.

Obj. 3. Further, since the desire for the sovereign good

II. I 17 2

i8 QUESTION II

never fails, it seems to be infinite. But this is the case with
riches more tlian anything else; since a covetous man shall
not be satisfied with riches (Eccles. v. 9). Therefore happi-
ness consists in wealth.

On the contrary, Man’s good consists in retaining happi-
ness rather than in spreading it. But as Boethius says
{De Consol. ii.), wealth shines in giving rather than in hoarding :
for the miser is hateful, whereas the generous man is ap-
plauded. Therefore man’s happiness does not consist in
wealth.

/ answer that, It is impossible for man’s happiness to con-
sist in wealth. For wealth is twofold, as the Philosopher
says {Polit. i.), viz., natural and artificial. Natural wealth
is that which serves man as a remedy for his natural wants :
such as food, drink, clothing, cars, dwellings, and such-
like, while artificial wealth is that which is not a direct
help to nature, as money; but this is invented by the art of
man, for the convenience of exchange, and as a measure of
things saleable.

Now it is evident that man’s happiness cannot consist in
natural wealth. For wealth of this kind is sought for the
sake of something else, viz., as a support of human nature:
consequently it cannot be man’s last end, rather is it
ordained to man as to its end. Wherefore in the order of
nature, all such things are below man, and made for him,
according to Ps. viii. 8 : Thou hast subjected all things under
his feet.

And as to artificial wealth, it is not sought save for the
sake of natural wealth; since man would not seek it except
because, by its means, he procures for himself the necessaries
of life. Consequently much less can it be considered in the
light of the last end. Therefore it is impossible for happi-
ness, which is the last end of man, to consist in wealth.

Reply Obj. i. All material things obey money, so far as
the multitude of fools is concerned, who know no other
than material goods, which can be obtained for money.
But we should take our estimation of human goods not
from the foolish but from the wise: just as it is for a person,

IN WHAT MAN’S HAPPINESS CONSISTS 19

whose sense of taste is in good order, to judge whether a
thing is palatable.

Reply Ohj. 2. All things saleable can be had for money:
not so spiritual things, which cannot be sold. Hence it is
written (Prov. xvii. 16) : What doth it avail a fool to have
riches, seeing he cannot buy wisdom ?

Reply Ohj. 3. The desire for natural riches is not infinite:
because they suffice for nature in a certain measure. But
the desire for artificial wealth is infinite, for it is the servant
of disordered concupiscence, which is not curbed, as the
Philosopher makes clear {Polit. i.). Yet this desire for
wealth is infinite otherwise than the desire for the sovereign
good. For the more perfectly the sovereign good is pos-
sessed, the more is it loved, and other things despised:
because the more we possess it, the more we know it.
Hence it is written (Ecclus. xxiv. 29) : They that eat me
shall yet hunger. Whereas in the desire for wealth and for
whatsoever temporal goods, the contrary is the case: for
when we already possess them, we despise them, and seek
others : which is the sense of Our Lord’s words (John iv. 13) :
Whosoever drinketh of this water, by which temporal goods
are signified, shall thirst again. The reason of this is that
we realize more their insufficiency when we possess them:
and this very fact shows that they are imperfect, and that
the sovereign good does not consist therein.

Second Article.

WHETHER man’s HAPPINESS CONSISTS IN HONOURS ?

We proceed thus to the Second Article : —

Objection 1. It seems that man’s happiness consists in
honours. For happiness or bliss is the reward of virtue, as
the Philosopher says [Ethic, i.). But honour more than
anything else seems to be that by which virtue is rewarded,
as the Philosopher says (Ethic, iv.). Therefore happiness
consists especiaUy in honours.

Ohj. 2. Further, that which belongs to God and to persons
of great excellence seems especially to be happiness, which

20 QUESTION II

is the perfect good. But that is honour, as the Philosopher
says [Ethic, iv.). Moreover, the Apostle says (i Tim. i. 17) :
To . . . the only God he honour and glory. Therefore happi-
ness consists in honour.

Ohj. 3. Further, that which man desires above all is
happiness. But nothing seems more desirable to man than
honour: since man suffers loss in all other things, lest he
should suffer loss of honour. Therefore happiness consists
in honour.

On the contrary, Happiness is in the happy. But honour
is not in the honoured, but rather in him who honours, and
who offers deference to the person honoured, as the Philos-
opher says {Ethic i.). Therefore happiness does not con-
sist in honour.

/ answer that, It is impossible for happiness to consist
in honour. For honour is given to a man on account of
some excellence in him; and consequently it is a sign and
attestation of the excellence that is in the person honoured.
Now a man’s excellence is in proportion, especially, to his
happiness, which is man’s perfect good; and to its parts, i.e.,
those goods by which he has a certain share of happiness.
And therefore honour can result from happiness, but happi-
ness cannot principally consist therein.

Reply Ohj. i. As the Philosopher says {ihid.), honour is not
that reward of virtue, for which the virtuous work : but they
receive honour from men by way of reward, as from those
who have nothing greater to offer. But virtue’s true reward
is happiness itself, for which the virtuous work: whereas if
they worked for honour, it would no longer be virtue, but
ambition.

Reply Ohj. 2. Honour is due to God and to persons of
great exceUence as a sign or attestation of excellence already
existing: not that honour makes them excellent.

Reply Ohj. 3. That man desires honour above all else,
arises from his natural desire for happiness, from which
honour results, as stated above. Wherefore man seeks to
be honoured especially by the wise, on whose judgment he
believes himself to be excellent or happy.

IN WHAT MAN’S HAPPINESS CONSISTS 21
Third Article.

WHETHER man’s HAPPINESS CONSISTS IN FAME OR GLORY ?

We proceed thus to the Third Article : —

Objection i. It seems that man’s happiness consists in
glory. For happiness seems to consist in that which is
paid to the saints for the trials they have undergone in the
world. But this is glory: for the Apostle says (Rom. viii. 18)
The sufferings of this time are not worthy to he compared with
the glory to come, that shall he revealed in us. Therefore
happiness consists in glory.